Eyes stabbed by the flash of a neon light

[CONCLUSA] Lazar Stefanović Khabarov & Tetsuya "Yuya" Azusa @Yokohama Chukagai | 5 Febbraio 2019, 21.30 | Nuvoloso, 5°C

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    Il Capodanno cinese. C’era il Capodanno cinese a Yokohama e neanche un concerto delle Kalafina avrebbe impedito a Ninel’ e Lazar di fiondarcisi, naturalmente trascinando con sé anche Viktoriya, che rischiava di morire seppellita dai suoi libri di psicologia - o peggio, a detta del fratello, diventare un’unica entità con l’orribile carta da parati dell’appartamento.
    Far assaporare a Vika l’aria (pregna di smog) della città era diventata un’ossessione per i due fratelli minori nel corso dell’ultimo mese; su suggerimento di Ninel’, l’avevano denominata “Operazione Megitsune non deve morire”, traendo spunto da un romanzo di Stephen King.
    Il Capodanno cinese era un pretesto a dir poco perfetto per uscire tutti insieme, e al di là di ciò Lazar e Ninel’ volevano davvero prendervi parte. Era una di quelle cose viste solo al telegiornale o nelle pellicole con Jackie Chan e Bruce Lee, che si dava per scontato non avrebbero mai testimoniato coi propri occhi, considerando quanto i Khabarov fossero poco inclini ai viaggi internazionali. Era la loro occasione!
    Il festival sarebbe iniziato il cinque febbraio e si sarebbe protratto per i successivi quindici giorni tra le vie di Yokohama Chukagai (Chinatown), con esibizioni di maestri di arti marziali e acrobati, parate, sfilate di costumi tradizionali, spettacoli pirotecnici, danze dei dragoni e dei leoni e, in chiusura, l’esposizione delle lanterne.
    Lazar era così entusiasta da aver imparato a dire “buon anno nuovo” in cinese... col suo marcatissimo accento russo.

    - 5 febbraio -

    Lo Shinkansen impiegò solo undici minuti per raggiungere la stazione di Shin-Yokohama da Tokyo. Ninel’ e Lazar spesero metà di quel tempo coi nasi incollati ai finestrini, osservando estasiati il treno sfrecciare sui binari rialzati in prossimità della baia, e l’altra metà a dare gli ultimi ritocchi ai vestiti.
    Il rosso era il colore del Capodanno: il rosso che spaventa e scaccia gli spiriti maligni.
    Inutile specificare che Lazar aveva preteso di curare ogni dettaglio dell’estetica delle sorelle: dall’abbigliamento alle scarpe, dagli accessori alle acconciature. Impazziva di gioia quando poteva agghindarle come bambole - il che era alquanto sinistro, ma Ninel’ e Viktoriya erano più che abituate alle stranezze del fratello.
    Quanto a lui… niente di particolare. Amava gli abiti tradizionali giapponesi, ma era consapevole che uno yukata sarebbe sfigurato addosso a uno spilungone palesemente caucasico come lui, così aveva optato per il suo solito lungo giaccone blu notte.

    «E dire che avevo paura che non sarebbe stato facile trovare la Chukagai...»
    Per evitare di separarsi involontariamente, da brava sorellona Viktoriya aveva tenuto le mani a entrambi i fratelli fin quando non erano usciti dalla stazione, tagliando diametralmente la folla che confluiva in un’unica direzione.
    Trovare Chinatown fu imbarazzantemente facile: solo un cieco non avrebbe notato la maestosa porta rossa incassata tra due palazzi, la quale sembrava fungere quasi da spartiacque per la fiumana che si disperdeva dopo averla superata. Il trio si lasciò inglobare e guidare da quell’onda rumorosa oltre l’ingresso, fino a raggiungere uno slargo dove furono finalmente liberi di riprendere fiato.
    Viktoriya sembrava sull’orlo di una crisi da agorafobia. «Se avessi saputo che ci sarebbe stata così tanta gente già il primo giorno... sarei rimasta a studiare...»
    «Smettila di lamentarti e guarda lì! Ci sono i ballerini vestiti da draghi! E le lanterne con gli indovinelli! Siamo ancora in tempo per la parata, vero Lazar? Lazar!»
    «Eh?» Lazar non era riuscito a resistere alla tentazione di alzare il naso verso il cielo, dove il fumo che si levava dalle bancarelle gastronomiche sbiadiva gli intensi colori rossi e dorati delle lanterne. «Credo di no, ma potrei sbagliarmi. Sono un po’ confuso-»
    «I draghi, i draghi!» Ninel’ era tornata ad essere una bambina di dieci anni che trascina i genitori da una parte all’altra della fiera, instancabile come una trottola. «Voglio vedere tutto!»

    Ma l’inevitabile non tardò a verificarsi. Bastarono pochi secondi di distrazione: lo sguardo di Lazar venne rapito dalla parata di abiti tradizionali (come il miele per le api, per il suo animo di costumista) e quando si voltò per indicarli alle sorelle… a rispondere al suo sorriso furono le percussioni e gli archi dei musicisti, le risate dei bambini e le chiacchiere in lingua cinese dei passanti. Ma non Ninel’, non Viktoriya.
    Lazar sbatté le palpebre, saettando con sguardo spaesato da una parte all’altra della strada. Non Ninel’, non Viktorya.
    La calca le aveva trascinate via, o forse si erano allontanate senza rendersi conto di averlo lasciato indietro.
    «… fantastico, mi sono perso di nuovo!» pugni sui fianchi, fronte aggrottata e labbra subito strette dopo aver sbuffato un sospiro.
    Si era perso. Si era perso in un posto dove l’unica cosa che avrebbe saputo dire era “buon anno” con un marcatissimo accento russo.


    «Parlato.»
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    Come ci era finito Tetsuya a Yokohama ma in special modo nella sua chinatown, Yokohama Chuukagai? Di certo non per partecipare alle festività del Capodanno cinese che erano iniziate proprio quel giorno. No, quello era venuto dopo. Tutto era iniziato semplicemente quando era dovuto andare fino alla prefettura di Kanagawa per concordare dei dettagli per la proposta di lavoro che aveva recentemente accettato e la sede di questa agenzia si trovava proprio nella città che gli faceva da capoluogo. Tra traffico ed altro, il viaggio era durato più di una trentina di minuti che aveva passato accasciato sui sedili posteriori dell’auto scura -alla cui guida vi era il suo fidato manager nonché tutore- a giocare ai rhythm-game delle sue amate idol 2D.
    Sceso dalla macchina era stato veloce ad entrare nel personaggio che quall’era “Yuya”: aveva sorriso amabilmente all’agente, oltre che deliziarlo con un educato inchino e successiva stretta di mano, che era venuto loro incontro per salutali e per andare ad accompagnarli fino all’ufficio del suo superiore. Tutto perfettamente nella norma. Nonostante tutto, era quasi esaltato dal prospetto di quel lavoro, infondo non era il solito modelling ma un ingaggio dedito alla recitazione. Quello che ambiva! Recitare gli veniva naturale, dopotutto lo faceva ogni giorno, e guadagnare in questo modo sembrava la cosa migliore. Certo, la sua parte non era niente di così importante ne d’impatto, doveva solo recitare la parte di uno degli amichetti del cuore del protagonista, ma era un perfetto ed effettivo trampolino di lancio (nota: non era di certo il suo primo ruolo nel mondo della recitazione ma era il primo che non fosse una semplice comparsa o extra in un singolo episodio di un drama): l’opera da cui era tratto il film era un famosissimo manga shoujo e gli altri membri del cast erano quasi tutti attori noti e di rilievo. Ora sicuro che avevano scelto lui per il semplice motivo che era popolare tra le giovani fanciulle dal cuore tenero (e non solo, a detta dello staff della sua di agenzia) e non era solo di bell’aspetto ma sembrava avere quel talento che ancora non era stato sfruttato a pieno, che non era stato messo in mostra a dovere. Le parole del regista che aveva di fronte gli confermarono tale pensiero, i complimenti riguardo al suo provino ancora echeggiavano nella sua mente. Sorrise dolcemente, fingendo un imbarazzo che non sentiva e rispondendo con un'umiltà che non era sua.
    Nell’ascensore che li stava riportando al piano sotterraneo che fungeva da parcheggio privato, ora che erano soli, l’espressione che Tetsuya regalò ad Andrej era una di quelle sua solite esasperate, quelle in cui sembrava sul punto di voler strangolare qualcuno. Non gli interessavano i complimenti degli altri, specialmente se sapeva già di essere superiore! Il suo manager lo ammonì con lo sguardo, sapendo bene che era meglio farlo sfogare un po’ in qualche modo «Buon lavoro» gli disse solo, non appena furono arrivati al piano designato. Tetsuya lo guardò per un lungo momento per poi sospirare irritato «Ci mancherebbe!» andando poi in direzione della sua macchina. In realtà le parole del suo tutore lo fecero sentire più orgoglioso di sé stesso e di certo appagato. In fondo, nel profondo del suo animo, bramava il riconoscimento della sua unica figura paterna come fosse stata l’acqua per vivere (o la carne umana, se si parla dei ghoul).
    Saliti in macchina questa volta si posizionò sul sedile del passeggero, iniziando poi a smanettare con il navigatore, inserendo un indirizzo che non era quello della loro abitazione a Nakano. Drev lo guardò confuso, non riconoscendo quel luogo di Yokohama, nel mentre Tetsuya gli spiegava quella brillante idea che gli era venuta in mente mentre si erano avviati per la prima volta verso l’ufficio di quell’agenzia, ascoltando parlare delle giovani impiegate che il quel momento erano passate lì vicino. Quel giorno era iniziato il capodanno cinese, no? E nella stessa zona in cui si trovavano era iniziati i festeggiamenti, no? Per cui, non era una fantastica idea quella di andare a svagarsi un po’? Infondo era stato bravo, se lo meritava. Non fu difficile assecondare l’uomo russo (o meglio, non lo era mai stato ma questi sono dettagli) e in poco tempo erano arrivati alla nuova meta. Beh, in realtà, trovare parcheggio era stato assai più difficile ma grazie ai loro agganci e un altro parcheggio privato, il problema era stato risolto nel giro di una mezz’oretta.
    Tuttavia, essendo stata un’uscita organizzata all’ultimo momento, era sorto il problema del non farsi riconoscere: con i loro capelli di quel naturale colore chiaro e l’esagerata altezza di Andrej (Perché lui non era così alto? Perché lo avete tradito geni russi?!), risaltavano così tanto tra la folla asiatica che non sarebbe stato strano che sopra le loro teste ci fossero state delle luci di segnalazione. E “Yuya” era anche una figura conosciuta! Guardate lì, sull’angolo, c’era proprio la sua faccia su uno dei mega-schermi pubblicitari! Tetsuya sospirò, guardando amareggiato l’esterno dall’interno della loro macchina dai vetri oscurati. Ahimè non aveva nemmeno con sé il suo solito camuffamento che usava per andare a fare giretti nei centri abitati oppure quello che usava per andare a caccia. Ma con un po’ di attenta ricerca tra i vari scompartimenti, almeno per sé stesso, il problema fu risolto: occhiali da sole e un berretto nero! Poi faceva ancora abbastanza freddo per cui non era strano che andasse in giro tutto imbacuccato. E se fosse stato fortunato lo avrebbero scambiato per un turista straniero incuriosito dalle festività! Perfetto! Il problema di Drev però rimase, fosse rimasto con lui sarebbe stato riconosciuto ancora più in fretta e quindi decisero di separarsi, concordando di rimanere in contatto tramite i loro cellulari. In realtà, il caro Diedrevitch sarebbe rimasto nelle sue vicinanze, pronto a pedinare il suo protetto in giro mantenendo una certa distanza per non farsi beccare, così da andare a proteggerlo da ogni eventuale pericolo che fosse in agguato. Non che a lui servisse protezione, ovviamente.
    E fu così che finalmente il giovane adulto poté andare a godersi quel festival, ignorando bellantemente le bancarelle con il cibo che gli umani sembravano così contenti di mangiare. Ovviamente a lui facevano solo schifo ma contenti loro, mangiassero quanto volessero, la loro carne sarebbe stata più succulenta. O almeno, ci aveva provato. Un’anziana signora lo aveva praticamente trascinato verso la sua bancarella e con la scusa di fargli assaggiare qualcosa perché “sembri così sciupato ragazzino!” gli aveva dato una piccola “torta lunare” (che era per la festività sbagliata ma anche qui, dettagli; infondo che male c’era nel cercare di far conoscere di più i vari dolcetti della tradizione cinese? Beh, lui aveva molto da ridire sulla cosa) e lo dovette pure assaggiare per farla contenta! Maledette signore anziane, siete peggio degli investigatori senior! Non appena si fu allontanato abbastanza dalla sua bancherella, però, si sbrigò subito ad andare sputare quel dolce ripugnante in un bidone insieme al resto del dolce, lontano dalla folla così da non attirare troppa attenzione su di sé.
    Ammirando poi ancora un po’ quello che lo circondava, tra bancherelle e danze, era finito o meglio anche qui trascinato a giocare a catturare dei pesciolini (questa volta pagando). Finì per catturarne tre in successione dopo i primi due rovinosi tentativi, finendo con una busta trasparente in mano legata poi al polso con una corda rossa. E ora che doveva farci con quei tre pesci? Potevano starci insieme agli altri nell’acquario di casa? Non appena lo avrebbe visto, avrebbe chiesto al suo tutore. Andando avanti però, continuando ad essere sballottato dalla folla che cercava di passare (il suo odio per il mondo stava crescendo vertiginosamente) finì per andare a sbattere contro una schiena dura. Si girò di botto notando prima il suo odore (ciao altro ghoul!) e poi la sua altezza (ah, un altro spilungone! Maledetti geni!). Guardò per qualche istante il tipo dal cappotto scuro per poi andare a pronunciare con un accento improvvisato del nord-est europeo e un giapponese non proprio fluente «Sorry! Tutto apposto?» anche se “sorry” non è che lo fosse veramente, la colpa dell’incidente non era di certo sua ma di quegli insulti umani.

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    Edited by alyë - 9/7/2019, 19:44
     
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    Lazar Stefanović Khabarov
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    Ricapitolando: si era perso. Sì, il riepilogo era tutto qui.
    Non era certo la prima volta che esplorava un luogo da solo, eppure si sentiva in qualche modo a disagio, forse perché la maggior parte delle persone lì presenti parlava cinese. Non gli piaceva non capire cosa dicesse la gente: era come venir tagliato fuori dal mondo. Aveva la spiacevole sensazione di essere sulla bocca di tutti o che, peggio, ad essere sulla bocca di tutti fossero i suoi difetti.
    Un pensiero stupido. Non era altro che un pensiero stupido e oltremodo normale. Una paura che accomunava un sacco di individui, soprattutto chi è consapevole di avere la coscienza sporca o un motivo per essere additato come diverso. Lazar Khabarov li aveva entrambi.
    Ah… ecco perché non gli piaceva rimanere solo. Tutto sembra più grande e più forte quando si è da soli. Perciò doveva ritrovare Ninel’ e Viktoriya o, in alternativa, stamparsi in faccia uno splendido sorriso e godersi da solo l’evento.
    La prima cosa che fece fu ovviamente telefonare.
    Scavò con la mano per un minuto buono prima di trovare lo smartphone in fondo alla tasca della giacca. Compose il numero di Viktoriya, ma la segreteria lo avvisò che il telefono era spento o non raggiungibile; probabilmente lo aveva dimenticato a casa, conoscendola.
    Ninel’ invece non rispose, dando prova del suo impeccabile senso del dovere in quanto sorella maggiore.
    A Lazar non restò che sospirare, sconfitto. “L’importante è che non siano loro a perdersi, altrimenti Vika non la troviamo più.”
    Spoiler: si erano perse anche loro, dopo essersi divise per cercare il fratello.

    Quindi non gli restava che stamparsi in faccia il famoso bel sorriso e godersi l’evento da solo, d’accordo.
    Ripose in tasca lo smartphone e prese un bel respiro, ricacciando in fondo alla gola il fastidio provocato dal disgustoso olezzo di cibo umano; per fortuna aveva lo stomaco pieno, altrimenti tutta quella folla che si agitava sgraziatamente gli avrebbe fatto perdere la calma.
    Doveva avere un volantino in quel buco dimensionale che erano le sue tasche, magari riportava anche la mappa della Chuka--...
    Fu allora che un’improvvisa spinta lo colpì alla schiena, facendogli quasi perdere l’equilibrio. Mosse istintivamente un passo in avanti per ristabilire il baricentro, poi reclinò la testa per capire cosa diavolo fosse successo: qualcuno gli era chiaramente andato addosso. Forse non lo avevano vist- ahahah.
    I giapponesi di solito stavano attenti a non urtarlo, come se la sua semplice statura avesse già di per sé il peso necessario a schiacciarli.
    “Sorry! Tutto apposto?”
    In quella brevissima frase c’era un’accozzaglia di lingue e accenti che avrebbe lasciato perplesso chiunque. Ultimamente aveva spesso a che fare con stranieri, pensò. Quando ebbe finalmente modo di vedere la persona in questione, strabuzzò per un momento gli occhi.
    Berretto nero.
    Occhiali da sole.
    In un posto pieno zeppo di gente.
    «… sei un terrorista?»
    Un ghoul terrorista, per la precisione.
    Alla possibilità che il poveraccio avesse solo freddo non ci aveva neanche pensato: per lui in Giappone non esisteva il freddo.

    Sembrava proprio che Echo e Nekomata non potessero avere delle interazioni normali.


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    Lo stava già odiando, quel tipo che poteva essere facilmente un grattacielo, e non solo perché aveva circa una decina di centimetri di altezza su di lui. No, sia mai che lui avesse un complesso sulla sua di altezza (maledetto centimetro mancato!), per chi lo avete preso? Per un comune essere umano? Cosa che lui non era, assolutamente! Beh, però la verità era innegabile anche se alla fin fine era più alto del giapponese medio ma ciononostante non dei suoi altri scagnozzi russi o di altre regioni. Non nascondeva che godeva nel farli inchinare al suo cospetto quando andavano ad aggiornarlo sulle ultime novità. Ne aveva fatto una regola e chi non la seguiva veniva punito severamente (l’unico esonerato era Drev).
    Comunque sia, lo stava odiando, questo lo abbiamo già capito. Il vero motivo? Gli aveva appena dato del terrorista, a lui! Gasp! Era peggio di un insulto virato alla sua persona. Anche se, beh, considerando tutto, non è che avesse tutti i torti, essendo al capo di un Clan di ghoul (la cui funzione principale era raccogliere informazioni, ma questi sono dettagli per un altro giorno). Ma di certo non era un terrorista, di quelli veri! Gli lanciò dunque una lunga occhiataccia da sotto gli occhiali, per poi portarsi una mano al petto con fare offeso (e lo era, offeso, anche se stava amplificando il tutto con la sua solita teatralità) «Io? Terrorist?» furono le prime parole che uscirono dalla sua bocca, quasi sibilate con un velo di astio, andando poi a togliersi gli occhiali con un gesto secco, andando così ad enfatizzare il tutto con la sua espressione fintamente oltraggiata, indicandolo infine con il dito indice della sua mano destra, facendolo ondeggiare di fronte al viso dell’altro «Tu terrorista! Senza maniere!» sbuffò mantenendo quello strano accento, incrociando infine le braccia al petto, aspettando una sorta di scusa dall’altro. La busta trasparente con i pesciolini che aveva vinto poco prima dondolava lievemente dal suo polso, nel mentre mordicchiava l’asta del suo paio di occhiali da sole dalla montatura nera. In realtà gli era già passata ma stava internamente gongolando al solo pensiero di aver messo l’altro a disagio. Doveva ammettere, tuttavia, che forse si era lasciato andare un po’ troppo dalla foga. Almeno non aveva urlato, oh no, aveva parlato con un tono duro e forte anche perché lui non era il tipo che si metteva ad urlare nel bel mezzo della strada per ogni piccolo problema. Poi, era anche vero che non voleva attirare troppo l’attenzione dei passanti su di sé. Infatti, quest’ultimi, lanciarono solo un’occhiata curiosa ai due nel mentre passavano ma niente di più, non si fermarono nemmeno, proseguendo per il loro percorso tra le bancarelle.

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    “Hey, piccolo uomo forse giapponese, come si sta laggiù? Qui tira un po’ di vento, ma c’è una bella vista!”
    No, niente banali e superflue battute sull’altezza: praticamente chiunque in Giappone era più basso di Lazar, con qualche eccezione per lo più sempre di origini straniere. Così come non era piacevole sentirsi ripetere ogni giorno quanto fosse spropositatamente alto, anche l’inverso doveva essere irritante in egual maniera.
    E poi, insomma, aveva pensieri più importanti. Ad esempio il presunto Terrorista-san rinchiusosi in un silenzio sgomento, che adesso lo fissava con gli occhi celati dietro le lenti oscurate. Nonostante l’ottima illuminazione, Lazar non riusciva a vedere oltre lo schermo degli occhiali; non serviva essere geni comunque per intuire che l’altro si stesse probabilmente interrogando sulla sua salute mentale, e non avrebbe avuto tutti i torti. Peccato che le posizioni si sarebbero presto ribaltate.
    Terrorista-san si portò drammaticamente una mano al petto.
    “Io? Terrorist?”
    C’era qualcosa di volutamente esagerato nella pronuncia inglese, sembrava lo stesse prendendo in giro. Qual era la risposta giusta? “Sì: tu, terrorist. Io russian mate”?
    L’unica reazione di Lazar fu tuttavia un inclinare la testa con cipiglio esitante, come se cambiare leggermente prospettiva avesse potuto aiutarlo a comprendere meglio la singolare situazione in cui si era cacciato.
    Non contento di ciò, l’offesissimo ghoul si sfilò gli occhiali scuri con un gesto secco, rivelando un paio di occhi davvero fuori dal comun-... aveva le ciglia verdi. Verde celadon.
    Oh no, l’ispirazione non poteva colpire proprio in quel momento! Come un flash, l’ispirazione per un accessorio - non sapeva di che tipo, ma sarebbe stato un accessorio lilla e verde celadon - lo aveva fulminato nel peggiore dei momenti: sperduto in un posto che non conosceva, dove la gente parlava una lingua che non conosceva, alle prese con un tipo che non conosceva.
    Per di più, abbinare lilla e celadon senza rischiare il conato sarebbe stato difficile, il che aggiungeva anche il gusto della sfida! Oh no. La sfida. L’ispirazione. I cinesi.
    Che in realtà Lazar traesse ispirazione da qualsiasi cosa in qualunque momento era un dettaglio trascurabile. Fortunatamente ci pensò Terrorista-san a riportarlo coi piedi per terra.
    “Tu terrorista! Senza maniere!”
    Ed incrociò le braccia al petto, il sacchetto di plastica legato al polso che dondolava - povero pesce shakerato - e l’asta degli occhiali stretta tra i denti. Ci mancava solo che gonfiasse le guance e la sua trasformazione in personaggio di un manga sarebbe stata completa.
    La situazione era talmente assurda che il russo non poté far altro che trattenere con difficoltà le risate. Chinò la testa, nel tentativo malriuscito di nascondere almeno lo sbuffo di una risata. Era bravo a reprimere le emozioni negative, non quelle positive.
    Il rischio che l’altro s’indispettisse ancor più era però molto alto, perciò si sforzò di smettere di ridacchiare come uno scemo e tornare ad un sorriso pacato e dispiaciuto.
    «Hai ragione, ti chiedo scusa.»
    Lo strano tipo aveva dato prova di saper bene o male parlare il giapponese, forse valeva la pena di chiedere aiuto per uscire da quel labirinto.
    «So che non è cortese dopo quello che ho detto-» un vuoto di memoria di natura linguistica lo ammutolì per un momento. «Ma posso chiederti una mano per uscire di qui? Mi sono perso.»
    … o forse gli avrebbe volutamente propinato indicazioni sbagliate per vendicarsi.


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    Ah, era proprio quello che voleva sentire! Delle scuse! Bravo spilungone, impara a stare al tuo posto, com’è giusto che sia. Dentro di sé gongolò beato mentre esternamente mostrò un espressione apparentemente soddisfatta, annuendo come a perdonarlo, dandogli poi una bella pacca sulla spalla alzando poi un pollice all’insù. Il sacchetto con i pesciolini rimbalzò sul cappotto dell’altro mentre con l’altra mano andò a sistemarsi gli occhiali da sole sul berretto. Se quel gesto avesse finito per metterlo a disagio, beh, Yuya non poteva che esserne interiormente lieto.
    La richiesta dell’altro ghoul lo colse un attimo di sorpresa, cosa che decise comunque di esternare. Era, infondo, una reazione più che appropriata alla situazione. Quindi si era perso? Eh, non che fosse sorprendente come cosa ma internamente sogghignò. Ben gli stava! Tuttavia, non poteva fare di certo la figura del maleducato e non porgere una mano in suo soccorso. Sarebbe stato un controsenso rispetto a quello che aveva fatto fino a quel momento! Doveva mostrare quelle sue buone maniere che fingeva ogni giorno di avere!
    Fu così che si portò una mano al fianco, annuendo piano nel mentre lo ascoltava parlare «Of course! Ti aiuto» fu quello che disse in risposta, andando a recuperare il suo cellulare dalla tasca della sua giacca. Non capiva cosa il tipo volesse ottenere da uno che fino a quel momento si era dimostrato essere uno straniero. Non che si fosse impegnato molto con l’accento, quello poteva ammetterlo tranquillamente. Comunque sia, non è che conoscesse la zona e fino a quel momento aveva solo seguito il via vai della folla ma google maps sapeva usarlo!
    Ma destino volle che il suo cellulare si scaricò proprio in quel preciso instante. Vedere quella lucina lampeggiare con quel infausto colore rosso per poi guardare con crescente oppressione lo schermo diventare nero, fu per lui un colpo al cuore. Oh no, non aveva usato tutti gli AP! E okay, non si sarebbe trovato in quella situazione se, invece di giocare come un ossesso in macchina ai rhythm-game delle sua amate e bellissime idol 3D, si fosse ricordato di caricarlo, il cellulare. Stendiamo un velo pietoso, grazie.
    «Oh shit» si ritrovò quindi a mormorare, mantenendo sempre quel suo finto accento anche nello sbigottimento (che era in questo caso più che vero), nel mentre scuoteva il marchingegno come se ciò potesse fare qualcosa come per magia. Accidenti, non aveva nemmeno un power bank sulla sua persona!
    Malgrado ciò, non era ancora tutto perduto! Drev doveva essere sicuramente nelle vicinanze. Ormai lo conosceva bene quanto il palmo della sua mano (non solo lui lo aveva visto crescere ma era cresciuto con lui) e anche se lui gli aveva promesso di lasciarlo vagare da solo, sapeva che quest’ultimo lo avrebbe comunque pedinato poiché guai se gli fosse successo qualcosa sotto la sua amorevole supervisione! A volte sapeva essere davvero troppo apprensivo, se lo si chiedeva a Tetsuya.
    Però quanto poteva essere difficile cercare un omone alto, russo e dai capelli lunghi e platinati? Si guardò attorno con aria persa. A quanto pare molto, vedendo che nel suo campo visivo non ne vedeva traccia. Alla faccia di seguirlo da una certa distanza per la sua sicurezza! Era stato così bravo a seminarlo che il luogotenente, il suo saiko komon, del clan Zeiva non era riuscito a stargli dietro? Okay che lui era il Boss ma insomma, il caro Drev aveva un unico lavoro! Ed era essere la sua ombra (okay, non sempre ma ci siamo capiti)!
    A bocca un po’ spalancata e con un’espressione un po’ allarmata, Yuya si rivolse nuovamente a mister grattacielo in cappotto scuro, dichiarando con tutta la (finta, sia mai lo fosse veramente) preoccupazione: «Ora mi sono perso anche io». Era arrivata l’ora di rimangiarsi le proprie parole, eh, caro Azusa Tetsuya?

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    Edited by alyë - 19/8/2019, 20:52
     
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    A differenza dell’altro ghoul, Lazar non si era praticamente mosso durante il botta e risposta. Lasciò scivolare lo smartphone nel varco dimensionale comunemente denominato “tasca”, all’interno della quale, in qualche recondito angolo al di là dello spazio-tempo, doveva esserci anche una mappa (in cinese, blin) della Chukagai.
    Avrebbe avuto modo di usarla presto, ma per il momento seguì con occhi felini il movimento della mano del tipo, che prima andò a posarsi sulla sua spalla e poi fu stretta a pugno, un pollice rivolto al cielo a decretare che l’errore era stato perdonato.
    Inutile dire che i quasi dieci centimetri di differenza in altezza tra i due rendevano la scena ancor più ridicola di quanto già non fosse.
    Il terrorista sembrava però aver ritrovato il buon umore e Lazar, persona capace di mettere da parte l’orgoglio senza difficoltà, si ritenne soddisfatto. Tuttavia continuava ad essere un po’ preoccupato per i pesciolini rossi, che con tutti quei sussulti scattanti rischiavano di diventare dei Ditto color paprika.
    Continuava a chiedersi se Terrorista-san fosse davvero straniero: l’atteggiamento espansivo con cui gli aveva letteralmente messo una mano addosso avrebbe fatto impallidire un comune giapponese - ma non Lazar, lui amava il contatto fisico e ne sentiva prepotentemente la mancanza da quando viveva in Giappone.
    “Of course! Ti aiuto”
    Sentiva di star abboccando all’amo di quella che si sarebbe rivelata una grande fregatura. Ma quali alternative aveva? La mappa nella tasca, ad esempio, della quale Lazar sembrava essersi quasi dimenticato: Google avrebbe avuto la risposta a tutto, e uno straniero, a meno che non si trattasse di Viktoriya Khabarova, doveva per forza saper usare Google se non voleva perdersi, no?
    “Oh shit”.
    Oh no. Non stava agitando lo smartphone come se fosse stato kaputt. E ora non si stava guardando intorno con aria sperduta. Il suo soccorritore non si era perso.
    “Ora mi sono perso anche io”.
    Il suo soccorritore si era perso.
    «…» per un breve momento Lazar tacque, gli occhi azzurri puntati con insistenza su quelli lilla di Terrorista-san. Si erano persi entrambi. «Хорошо́.»
    Fantastico. Due uomini adulti e vaccinati si erano persi come bambini ad una festa.
    «Ah, aspetta. Forse ho il volantino con la mappa, ma è in cines-...» ma quando la mano andò a scavare nella tasca destra… colpo di scena: la trama si infittisce! E allo stesso modo si infittirono anche le sopracciglia aggrottate sugli occhi del russo. «… L’ho dato a mia sorella.»
    Non poteva essere vero.

    Drev, you had one job.


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    Dopo quell’attimo di inatteso sbigottimento, Tetsuya si riprese in fretta e con tutta la serietà che riuscì ad incanalare nel suo giovane corpo, dichiarò trionfante battendo le mani insieme «It’s like an adventure!» e non dimentichiamoci pure lo sbriluccichio degli occhi coordinato. Tuttavia, quello che lo colse veramente di sorpresa fu quella parola in russo pronunciata dall’altro. Ora si spiegava tutto. I geni russi avevano benedetto in altezza il tizio spilungone (appunto) che aveva di fronte ma non lui. Forse era veramente colpa dei suoi geni giapponesi. Drev, infondo, gli aveva detto che sua madre era stata piccolina di statura (beh, secondo i suoi standard).
    Dopo aver inviato mentalmente delle maledizioni al grattacielo ambulante e aver catalogato nel suo schedario mentale quell'informazione sulla lingua, per il futuro vedendo che il mondo è vasto e non si sa mai possa tornare utile (da lui non ricevette tuttavia nessuna reazione a tale uso, tranne una leggera arcata di sopracciglia atta a sottolineare quel suo finto attimo di confusione) e sempre con il sorriso stampato in faccia, Tetsuya si guardò nuovamente intorno ma questa volta con un’aria meno impanicata (no, non ricordategli di quel suo momento di debolezza di poco prima). Comunque sia lo sguardo tornò presto sulla sua figura incappottata una volta che ebbe udito le sue seguenti parole. Ah, allora non era solo lui il cretino che si era dimenticato qualcosa d’importante. Ottimo, gli stupidi erano due quella sera.
    Sbatte le palpebre una, due volte per poi fissarlo e mormorare un «Ah» monocorde. Davvero, doveva proprio andare a evidenziare quel suo senso di disappunto, era più forte di lui. E aveva pure una sorella! Se era alta pure lei, doveva proprio portare l’universo in tribunale. Ma andiamo avanti, il sorrisino tornò però presto ed eccolo lì che riprese in fretta le redini della situazione. Annuì convinto, come se avesse appena pensato all’idea che avrebbe risolto la fame nel mondo (dei ghoul). Spoiler: era un’idea stupida ma non sarebbe stato lui se non si fosse divertito in quella situazione che si era andata a creare. E fu così che cercando di afferrare la mano per provare a trascinarlo verso una direzione a caso (anche se lui sembrava molto sicuro di dove stesse andando ma come tutti i presenti ormai avevano capito, no, non lo era; perché sul serio, dove diavolo erano?). Ora che ci pensava, non potevano chiedere aiuto ai passanti o al personale dei vari stand? Nah, troppo facile e davvero poco avvincente. La sua idea era assai migliore. Parola di scout (che lui non era)!
    Si girò dunque verso di lui per qualche secondo nel mentre tentava di farsi largo, esclamando con diletto: «Dobbiamo cercare... la buona vista!».

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    “Ah.”
    «Già.»
    Smile, you’re on Candid Camera!
    Purtroppo nessuna troupe televisiva sfatò la dura realtà: i due idioti si erano smarriti e nessuna mappa avrebbe risolto i loro problemi. In casi del genere le soluzioni erano due, ovvero chiedere aiuto ai passanti - ma Lazar, come già accennato, in cinese sapeva solo augurare buon anno nuovo -, con la speranza che tra quei cinesi ci fossero anche dei giapponesi, oppure individuare un posto alto da cui godere di una vista illuminante.
    Il suo improvvisato compagno di sventure, dopo averlo agguantato per una mano, giunse alla stessa conclusione ed il russo lo seguì senza fare storie.
    «Ma io ce l’ho già la buona vista.»
    Il commento poco sagace e adatto al contesto era stato fortunatamente pronunciato a voce non troppo alta, altrimenti un’occhiata di disappunto sarebbe stata d’obbligo.
    Ma, stranamente, per una volta Lazar non implicava doppi sensi nei suoi discorsi. Tutto ciò che si agitava intorno a loro era per lui buona vista. I colori sgargianti, gli odori penetranti, i rumori assordanti: perdersi in un caleidoscopio di sensazioni non era qualcosa che Lazar considerava negativo. Gli era capitato innumerevoli volte di perdersi tra le strade della megalopoli giapponese, eppure non gli era mai successo di avere paura. Sarebbe stato lo stesso anche in quel frangente, non fosse stato per il martellante pensiero di Ninel’ e Viktoriya che lo cercavano incessantemente, senza capire una sillaba di ciò che veniva loro detto - una scena piuttosto divertente, a pensarci bene, ma Lazar voleva davvero troppo bene alle sorelle per non sentire il cuore stringersi all’idea.
    Non era neanche raro che durante il suo errare facesse nuove conoscenze: era stato piuttosto fortunato a trovare quel tipo, strampalato e oltremodo teatrale ma tutto sommato ben disposto nei suoi confronti. I giapponesi erano generalmente cordiali, lo stesso però non poteva dirsi per gli occidentali - ammesso che il kamikaze mancato fosse davvero occidentale. Lazar non ne capiva granché di accenti e non era per natura incline alla diffidenza.
    Doveva ammettere almeno con se stesso che farsi largo in una folla variegata e sconosciuta era affascinante. Ci avrebbe basato qualcosa! Non sapeva ancora cosa, ma era nel pieno dell’ispirazione e non vedeva l’ora di tornare a casa e mettere mano alle matite! O forse no, voleva godersi ancora un po’ il mistero e l’imprevedibilità del futuro.
    Accelerò, affiancando l’altro.
    «Magari una scala antincendio… i cinesi hanno le scale antincendio?»
    Poco razzista, il russo.


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    Con la presa salda sul polso dell’altro -caso mai lo perdesse tra la folla ma considerando che il tipo era uno spilungone (il maledetto!), non aveva da preoccuparsi-, si stava facendo largo verso una meta a lui sconosciuta. Aveva già una mezza idea di dove voleva andare, doveva solo attuare il piano. Certo che cercare di non andare a sbattere contro tutte quelle persone, un miscuglio di umani e qualche ghoul come loro, era abbastanza difficile, considerando quanta calca c’era. Poi non è che lui gettasse la spugna tanto facilmente, sia chiaro. Quello era niente, non lo avrebbe di certo fermato.
    Non prestò nemmeno molta attenzione a cosa l’altro stesse mormorando tra se e sé tranne per lanciarli un'occhiata di sbieco, riabbassandosi gli occhiali da sole sugli occhi, per paura di farli cadere e così perderli. Ehi, nonostante normalmente non se ne prendesse troppa cura, erano comunque di marca.
    Facendo un po’ di slalom, bypassando vari gruppetti che si erano fermati proprio nel bel mezzo del passaggio, Yuya virò nella direzione di un angolo, passando tra due bancarelle, e puntando così un edificio semi nascosto dietro un albero ben decorato a tema. Lucine incluse.
    Fu lì che lasciò la presa sul polso del ragazzo, per poi girarsi verso di lui per sorridergli smagliante, indicando una scala antincendio che sembrava portare al tetto del palazzo che avevano di fronte, alto circa 4 piani da quello che potevano costatare dal basso «See? Ce l’hanno!» gli disse e va comunque detto che nemmeno si stava impegnando più con l’accento (non che ce ne avesse messo prima) ma la trovava comunque una cosa divertente e ridicola da fare.
    Prima di prendere a salire la prima rampa di scale si sgranchii braccia e gambe, per poi affacciarsi e richiamare l’attenzione dell’altro ghoul, incitandolo a seguirlo «Su! Uhm... Street lamp-san!» esclamò dunque riprendendo poi la salita, le braccia a penzoloni sulla ringhiera. Doveva proprio chiedergli il nome, eh? Forse non oggi, forse non ora. Infondo gli piaceva dare soprannomi strani alla gente. Poi era una ripicca per il "terrorista" di prima. Comunque sia, avevano una meta da raggiungere! E se l’altro lo avesse abbandonato sul più bello, gliela avrebbe fatta vedere lui. Parola di non-scout.
    Uh, chissà che bella vista c’era lì in cima? Tempo di scoprirlo! Poi non è che sul momento gli importasse trovare Drev anche se sapeva bene che in quel momento il suo povero e amato tutore si stava probabilmente impanicando. Ma doveva aspettarselo da lui, sparire da sotto il suo naso, infondo lo aveva cresciuto lui.

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    Di avventure strampalate ne aveva vissute un numero piuttosto ragguardevole per la sua giovane età, ma essere quasi trascinato per le strade di una chinatown nel pieno di un festival da un tipo vestito da terrorista mancava all’appello. Avrebbe avuto qualcosa di nuovo da raccontare quella sera a Irina, e già la sentiva sganasciarsi dalle risate.
    Tuttavia non poteva dire di non starsi divertendo: era capace di apprezzare gli imprevisti, un po’ meno di affrontarli, ma le cose che Lazar Khabarov non era capace di affrontare rivaleggiavano le stelle in termini di quantità. Normalmente non sarebbe stato così silenzioso, quello era un tratto tipico di Echo, e soprattutto propenso a lasciarsi sballottare in maniera tanto docile da uno sconosciuto, aveva già avuto modo di scoprire, in passato, le conseguenze di una simile disattenzione.
    Ma c’era qualcosa che non aveva potuto fare a meno di notare e che, mentre avanzavano scivolando nell’amalgama di corpi e odori, gli aveva dato da pensare: era palese che quel ragazzo sapesse dove stava andando. Non cambiarono mai direzione, non si fermarono per valutare quale fiumana seguire o risalire, non si consultarono né chiesero indicazioni, per quanto due stranieri potessero chiedere indicazioni in una lingua che non era la loro.
    Quando infine virarono verso una strada secondaria incassata tra due edifici dall’altezza modesta, il cui ingresso era abbellito da una fila di bancarelle rumorose, Lazar ebbe la conferma dei suoi sospetti: il palazzo innanzi al quale si fermarono era troppo celato perché vi si fossero imbattuti per pura casualità.
    Non avrebbe saputo dire se la persona che accompagnava avesse una conoscenza più o meno approfondita della chinatown, se ci fosse qualcosa sotto o se semplicemente la sua mente, troppo abituata a saltare subito al worst case scenario avesse fatto un volo pindarico, ma in quel momento decise che avrebbe fatto attenzione. Odiava sospettare del prossimo, specialmente quando si trattava di un ghoul, ma al contempo si era delineata una situazione troppo strana per non suonare sospetta. Avrebbe continuato a ripetersi di non avere nemici in Giappone, che un altro ghoul non ci avrebbe guadagnato niente (teoricamente) ad attirarlo in trappola, che l’idea di guardare il mondo dall’alto era stata sua e che poteva essere una mera coincidenza che il luogo in cui erano finiti fosse un po’ isolato.
    “Meno paranoie, Zarya.”
    Scoccò uno sguardo all’altro, che con espressione smagliante - aveva un bel sorriso, glielo doveva - e un accento sempre più strano si improvvisò presentatore di un documentario della BBC, confermando che anche i cinesi avevano le scale antincendio. Chi l’avrebbe mai detto?
    «Right, right...» sventolò una mano per aria, imitando la parlata inglese dell’altro mentre lo seguiva.
    E così il terrorista e il palo della luce risalirono la scala antincendio, quattro piani che lasciarono infine spazio ad un terrazzo che, per l’amor del cielo, aveva davvero bisogno di una pulita! Neanche in mise da Echo sarebbe riuscito ad evitare il fastidioso crepitio dei granuli di terra sotto le suole delle scarpe mentre si posizionava non molto lontano da uno dei quattro lati, lo sguardo a spaziare sulla chinatown.
    Dall’alto se ne aveva un’impressione completamente diversa, come se ciò che dalle strade si percepiva imponente e impossibile da contemplare appieno riassumesse dimensioni accettabili per l’occhio umano. Un cambio di prospettiva a dir poco illuminante, con tutte quelle luci a fendere la notte: Yokohama era diventata uno spettacolo pirotecnico.
    «Che meraviglia...» senza rendersene conto, alla faccia del fare attenzione, aveva finito per avvicinarsi al corrimano fino ad appoggiarcisi, gli occhi sgranati e gli angoli della bocca arcuati in un sorriso sciocco. Neanche dall’appartamento a Shibuya godeva di una vista così bella, forse perché abitava in una strada secondaria e gli edifici erano molto più alti rispetto a quelli della chinatown. Ciò che seguì fu pronunciato con un tono notevolmente più basso, come se stesse parlando più a se stesso che all’altra presenza. «Allora è vero che nel mondo esistono posti così belli...»
    Ma allora era vero che Južno-Sachalinsk faceva proprio schifo. Nel corso della sua vita Lazar aveva visitato le grandi città della Russia, ma né quelle né Parigi trasmettevano gli stessi vibes di Tokyo: era davvero un’altra realtà.
    Forse avrebbe dovuto ringraziare quel terrorista di aver scelto un palazzo con una bella vista. Ammesso che non se ne fosse già andato.


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    L’altro ghoul non ci mise molto a decidere di seguirlo e quando quello gli passò accanto, Tetsuya riprese la salita per le scale antincendio, giusto qualche passo dietro di lui. Non ci misero molto a raggiungere l’ambita meta ovvero il terrazzo sul tetto del palazzo. Ci mancherebbe pure, infondo, fossero entrambi dei ghoul deboli che si stancavano per così poco. Di sicuro lui non lo era.
    Alzò un sopracciglio non appena notò anche lui lo stato del terrazzo stesso, sporco e giustamente non curato, ma cosa si aspettava? Il terrazzo di casa sua, con tutte le piante che il suo tutore amava prendersi cura? Ovvio che no! Comunque sia , ormai aveva intuito che all’uomo piacesse prendersi cura degli altri (si, anche delle piante), infondo bastava vedere come si comportava con lui e con la piccolina del clan. Manco fosse il loro vero genitore!
    Tirò un calcio ad un sassolino e con passo deciso, si diresse anche lui verso la ringhiera che delimitava quello spazio e impediva anche alle persone di cadere di sotto. Rispetto ad un ghoul, un normale umano da quell’altezza non sarebbe sopravvissuto tanto facilmente, lo aveva appurato personalmente.
    Appoggiandosi alla ringhiera, Tetsuya si sporse, gli occhiali da sole che gli scesero un po’ sul dorso del naso, ammirando la vista della chinatown dall’altro. Da lì potevano vedere quasi tutto: dagli alti grattacieli e palazzi che li circondavano, alle bancherelle giù per le strade e quelle formichine colorate che camminavano su e giù facendo schiamazzo. Le luci, le decorazioni. Beh, che fosse una bella vista, nonostante tutto, non poteva negarlo.
    Si girò verso il grattacielo versione ghoul che gli stava facendo compagnia, studiandone l’espressione nel mentre rimise al loro posto gli occhiali sul naso. Annuì alla sua esclamazione e gli disse «Se lo dici tu, mistah» con lo stesso improbabile accento che aveva usato fino a quel momento, per poi andare ad afferrare più saldamente la ringhiera e salirci sopra con un balzo, mettendosi poi comodamente seduto con una gamba a penzoloni.
    Aguzzò le orecchie per sentire meglio cosa l’altro avesse da mormorare. Quella sua frase mormorata lo fece pensare e con uno sbuffò andò a borbottare «Non che abbia un metro di confronto» dopo un breve attimo di silenzio, sottovoce e senza accento alcuno. Un pensiero personale più che per le orecchie dell’altro.
    Tuttavia quel piccolo pensiero era la dura realtà: era nato in Russia, certo, ma non ci era mai stato, troppo rischioso per lui considerando l’andazzo, gli avevano detto i suoi “fedeli” e a parte ciò, non è che avesse nemmeno mai lasciato il Giappone, infondo non si era mai allontanato troppo dalla grande area di Tokyo. Era un fatto che lo frustrava, lo irritava sentire spesso parlare gli altri dei posti che non aveva mai visitato e che forse non avrebbe mai visitato facilmente. Ma non lo esternava mai, era una debolezza. Un pensiero... insensato. Quelle scappatelle, proprio come quella attuale, era il massimo che si era sempre concesso.
    Scosse la testa, per poi girarsi nuovamente verso l’altro, la testa tirata all’indietro, i pensieri di qualche istante prima come se non fossero mai esistiti. Gli sorrise a trentadue denti per poi andare ad esclamare un «Ah, già!» l’accento indistinguibile che fece di nuovo capolino, per poi andarsi un po’ a perdere nella frase successiva «Vuoi giocare a two lies one truth?» gli chiese per poi ridacchiare beato, come se il solo pensiero fosse già divertente. Il realtà il gioco si chiamava “two truths one lie” ma secondo Yuya stesso, con due bugie era più divertente, poi gioco suo regole sue. Intanto che c’era, dunque, gli spiegò comunque le regole del gioco così almeno avrebbe potuto farsi un’idea se avesse accettato o meno: a turno una persona dice in ordine sparso due bugie e una verità e l’altra deve indovinare quale tra queste sia quella vera; tuttavia si ha un unico tentativo e chi indovina di più nel corso di tot turni vince, beh, quello potevano anche deciderlo anche alla fine, no?
    «Che ne dici?» domandò, l’accento ormai volato via nell’aria birichina che stava emanando in quel momento.

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    Lazar Stefanović Khabarov
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    Reclinando leggermente la testa, Lazar si assicurò che sì, il terrorista si trovava in effetti ancora lì. Questione di tempo. Era logico pensare che se ne sarebbe andato appena individuata l’uscita dal labirinto.
    Quanto a lui, decise che sarebbe rimasto ancora per un po’ a bearsi del panorama, quando mai gli sarebbe ricapitata un’occasione simile? Probabilmente a febbraio dell’anno successivo sarebbe stato di nuovo ricoperto di muffa, diluito nel grigiore fino a diventare un tutt’uno con le strade anonime di Južno-Sachalinsk. Com’era sempre stato, insomma. Ora più che mai la sua vita prima di Tokyo gli sembrava così miserabile e sprecata.
    La fredda aria notturna era una manna dal cielo dopo il calore soffocante della calca; in effetti il freddo, oltre ai genitori, era l’unica cosa di cui aveva nostalgia. Come avrebbe potuto rimpiangere le costrizioni, i doveri, le aspettative a cui era indissolubilmente legata la vita a casa? Fu infatti più per abitudine dettata dalle regole dei Khabarov che per volontà propria, che Lazar si costrinse a mettere da parte il suo esagerato entusiasmo e ritrovare compostezza e contegno.
    Inclinò la schiena in avanti, appoggiando con rilassatezza i gomiti sulla ringhiera, le mani penzoloni nel vuoto da cui si levavano schiamazzi. Ben più nonchalance ebbe la stranissima persona che lo accompagnava, che con un movimento deciso si issò fino a sedere sull’orlo del baratro.
    «Guadagneresti punti carisma se non indossassi degli occhiali da sole a quest’ora, sai?» lo punzecchiò con un sorriso sardonico, senza curarsi di moderare la velocità a cui parlava.
    Ormai era chiaro che Terrorista-san capisse il giapponese meglio di quanto desse a vedere. Si sforzava sempre meno di tenere in piedi quella sceneggiata di cui Lazar non conosceva il motivo, ma che aveva comunque apprezzato. E se fosse stato una celebrità? Quel genere di camuffamento era molto in voga tra i VIP nei film e nei manga. Ma in tal caso, purtroppo o per fortuna, era in compagnia di uno straniero troppo impegnato a mantenere intatta una ragnatela di finzione per seguire la mondanità locale.
    Forse l’atmosfera meno frenetica avrebbe aiutato entrambi a distrarsi.
    Perlustrando con lo sguardo le strade più vicine, Lazar individuò i danzatori di cui aveva parlato Ninel’ prima di essere ingoiata dalla folla. Sapeva che correre a cercare le sorelle sarebbe dovuto il primo punto della lista delle sue priorità, ma al momento pensava di potersi permettere un ritardo.
    … no, in realtà non lo pensava per niente.
    Non riusciva a ingannare nemmeno se stesso, che schifo.
    Erano due donne adulte, entrambe più grandi di lui e perfettamente in grado di rincasare sulle proprie gambe se proprio non si fossero incrociati, eppure le percepiva come sue responsabilità. Percepiva ogni movimento interno ai Khabarov come sua responsabilità. Prima o poi ne sarebbe rimasto schiacciato, come un ragno particolarmente brutto.
    “Non che abbia un metro di confronto”.
    “Hm?”
    Sbatté le palpebre, confuso. Stavolta non si limitò a scoccargli l’ennesima occhiata, ma si voltò del tutto verso di lui. In che senso non aveva un metro di confronto? Aveva sentito male? Era il genere di frase che avrebbe potuto dire qualcuno che non aveva mai messo il naso fuori da Tokyo, per di più non gli era parso di cogliere l’accento astruso. Non avrebbe dovuto suscitare il suo interesse, ma Lazar era una persona curiosa - per non dire ficcanaso.
    Non gli importava che fosse uno sconosciuto, se non fece altre domande fu solo per rispetto nei confronti di una persona che voleva evidentemente i suoi spazi.
    Stava per aggiungere comunque qualcosa quando il tipo tirò indietro la testa e gli sorrise in una maniera che… oh santo cielo, ce le aveva scritte in faccia le brutte intenzioni.
    “Ah, già! Vuoi giocare a two lies one truth?”
    «… e che è?»
    Se non fosse stata abbastanza esilarante la sua espressione stralunata, ci avrebbe pensato il tono di voce a dare un po’ di soddisfazione a Terrorista-san. Era evidentemente stato colto di sorpresa. Ascoltò con attenzione le seguenti istruzioni, mentre l’altro sembrava già pronto a sfregarsi le mani e sparare una castroneria dietro l’altra. Ma che razza di giochi giocavano all’estero? Avrebbe dovuto importare “Ammazza l’anziano”, il gioco di società preferito dai Khabarov.
    Prima di accettare si prese un momento per ragionare. Non era in Giappone per chissà quale missione segreta, ma c’erano comunque cose che avrebbe preferito tenere per sé, era tassativo selezionare con attenzione la verità da rivelare.
    Era fattibile. Magari avrebbe almeno scoperto il nome di quell’individuo.
    «Andata. Ma dato che non ci ho mai giocato, cominci tu.» gli restituì un sorriso di sfida, assieme alla sua unica condizione.


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    TETSUYA "YUYA" AZUSA
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    Al commento dell’altro ghoul, Tetsuya non poté che girare la testa nella sua direzione per lanciarci una breve ma istintiva occhiataccia. Dal tono che aveva usato, era evidente lo avesse detto più per punzecchiarlo che per altro ma questo di certo non lo avrebbe fermato dal gonfiare le guance con aria (finta) offesa ed esclamare un «Ma sono il mio segno distintivo!» con l’accento volutamente più forte per poi scuotere la testa con aria drammatica, portando la mano sopra il suo cuore con aria affranta «Non posso vivere senza di loro» aggiunse, asciugandosi una finta lacrima per poi scoppiare a ridere qualche istante dopo.
    Certo, le sue lentiggini e il neo di fianco alla bocca, in fondo, bastavano già come segni particolari, come se il colore dei suoi occhi e il colore dei suoi capelli non fossero già più che appariscenti. Con la maschera da ghoul portava di solito delle parrucche per un motivo.
    Comunque sia, a quando pare, con quella sua proposta di fare un gioco per passare il tempo (o meglio, per essere impiccione e carpire qualcosa di più sull’altro), lo aveva colto di sorpresa, la sua espressione stralunata non poteva essere interpretata in nessun altro modo. La trovava quasi divertente. No, anzi, lo era proprio!
    Quando l’altro chiese di andare lui per primo, beh, un sorriso non poté che spuntare sulle labbra di Tetsuya, nel mentre mentalmente si stava già sfregando per bene le mani. Una sfida, eh? Bene bene, a lui piacevano le sfide. Ora doveva assolutamente vincere, anche giocando sporco. Il bello di quel gioco era che, in fondo, non è che l’altra persona potesse sapere cosa era vero o meno, specialmente se non si conoscevano affatto tra loro.
    «Vediamo un po’...» mormorò, battendo un dito sul mento, ragionando per bene su cosa dichiarare per il suo primo turno. Alla fine optò per qualcosa di non troppo astruso: «Il mio colore preferito è il giallo, in realtà sono francese, oui oui, e ho una sorellina» disse quindi, dondolando lentamente le gambe nel vuoto, con il sorrisetto che proprio non voleva sparire. Tutte e tre le affermazioni erano, senza sorpresa alcuna, delle bugie belle e buone.
    «Quale di queste è vera?» domandò poi, curioso di vedere cosa avrebbe scelto l’altro come “verità” «Ora tocca a te».

    I'm meaner than my demons, I'm bigger than these bones.

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    Lazar Stefanović Khabarov
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    Avere come segno distintivo degli occhiali da sole da indossare a sera inoltrata era… pensandoci bene, c’era qualcosa in quell’individuo che non sembrasse strano? Domanda retorica. Era un po’ un ossimoro ambulante: a primo acchito, bardato in quel modo lo si sarebbe preso per una persona dimenticabile, ma bastava una semplice interazione per ritrovarsi con più domande che risposte. Un fumoso contrasto tra un’estetica che cercava di essere anonima e un atteggiamento sopra le righe.
    Più ci aveva a che fare, soprattutto ora che aveva finalmente mitigato l’accento da gaijin, più era palese che quella persona nascondesse qualcosa. Qualcosa che andava ben oltre l’essere ghoul.
    Gli interessava? No, dovendo essere sincero. Ne era incuriosito come si può essere curiosi di conoscere la soluzione di un giallo o di scoprire se il protagonista di un film horror sarebbe sopravvissuto al mostro di turno. Ma una volta spenta la televisione tutto sarebbe stato ridimensionato a ciò che era: un passatempo.
    La sua richiesta che fosse l’altro a partire fu accolta con un sorriso e uno sfregarsi di mani che avrebbero suscitato in chiunque il sospetto che pur di vincere fosse pronto a barare.
    “Il mio colore preferito è il giallo, in realtà sono francese, oui oui, e ho una sorellina”.
    «Hai una sorellina.»
    Tra le parole del Terrorista e la risposta di Lazar non era trascorso che un battito di ciglia. Il giallo è il colore preferito di chi non ha buon gusto e, se fosse stato francese, non avrebbe ostentato un accento tanto inglese. La sorellina rimaneva l’opzione più logica, ammesso che non avesse barato. Non gli piaceva sospettare degli altri e non gli piaceva barare... ma non gli piaceva neanche perdere. Insomma, a chi piace perdere? Per quanto lo riguardava, aveva un’idea piuttosto definita del comportamento che avrebbe adottato almeno per il momento.
    Solo dopo aver ricevuto una bocciatura o una promozione avrebbe rilanciato, sempre senza togliersi di dosso un sorriso sornione. Lo spettacolo della Chinatown era stato momentaneamente messo da parte.
    «Penso che ciascuno abbia tutto il diritto di mostrare di sé quanto vuole. Sono russo. In questo momento credo tu stia barando.»
    Tenne gli occhi fissi sul volto del ragazzo, magari sarebbe riuscito a cogliere qualche espressione interessante nonostante l’abbigliamento da terrorista. Avrebbe potuto mettere più cura nella scelta delle parole, ma in un gioco basato sui botta e risposta doveva accontentarsi di avere almeno una strategia.
    “Vediamo in che modo ragioni.”


    «Parlato.»
    "Pensato."

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