The truth behind the scenes

[CONCLUSA] Elizabeth Dwight & SunHye Kang; Vicoli bui; 04/05/2020 (Dalle 23:30; Nuvoloso, 23°C)

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    Quante volte ero stata in Giappone? Più che in ogni altro Paese eccetto il Regno Unito. Il Paese del Sol Levante mi era mancato un sacco e già da prima di pubblicare il vlog in cui annunciavo di volerci tornare non vedevo l'ora di poter postare il fatidico video documentante il mio ritorno. Il jet lag si era fatto sentire, come ogni altra volta, ma mi sentivo emozionata al pensiero di rivedere quella terra. Era il mio sogno visitarla, un sogno che avrei voluto realizzare insieme a Emily, ma che avrei documentato per il progetto Eliza, sperando almeno di poterle rendere giustizia usandolo per portare gioia al prossimo. Avevo passato così la prima settimana del mio ormai n-esimo viaggio, approfittandone per spiegare in un vlog i miei metodi per abituarsi in fretta al nuovo fuso orario. Per me ormai era questione di spostare ogni tappa del mio ritmo circadiano gradualmente finché esso non si fosse regolato da solo, ma non avevo mai trattato quell'argomento in un video e quello era il momento perfetto per farlo.
    Quella mattina mi ero dedicata all'editing e avevo finalmente finito il fatidico video. Lo avevo caricato subito dopo su Patreon, insieme a una lezione di walking bass per pianisti, affinché i miei patrons, i maggiori finanziatori dei miei progetti, li potessero vedere per primi. Qualche giorno più tardi avrei pensato anche a YouTube ma per il momento non era necessario. Avrei, poi, speso il pomeriggio a decidere quale altro video della mia lista meritasse la mia attenzione nei giorni successivi e a iniziare la scrittura del copione che avrei dovuto seguire per fare un lavoro come si deve. Avrei potuto postare l'n-esimo video in cui parlavo con i locali nella loro lingua madre: quelli erano semplici da fare, richiedevano al massimo un topic e lasciavano molto spazio all'improvvisazione. Dopo una settimana e un ripasso mai interrotto ero pronta a fare un altro video del genere, ma quella non sarebbe stata una carta da giocarsi troppo spesso o avrei reso troppo monotoni i miei contenuti. Per quella settimana, però, la nuova puntata di Asking the Locals sarebbe andata in onda e avrei speso più tempo a trascrivere e tradurre nei sottotitoli che a filmare.
    Avevo ricercato possibili argomenti per tutta la sera, poi avevo deciso di uscire quella notte, per festeggiare la giornata lavorativa completata e perché avevo una gran voglia di sushi fatto bene dai locali, cosa che mi sarebbe potuta capitare solo per i successivi tre mesi e non più per un po’. Per l'occasione mi ero vestita con una t-shirt monocromatica bianca, parte del merchandising di Anomalie, un artista che seguivo già da qualche anno, a cui avevo abbinato una gonna in jeans blu che mi arrivava fino alle ginocchia e a delle sneakers bianche. Mi ero portata dietro anche una tracolla color nocciola con dentro una bottiglietta d'acqua, il mio cellulare, un portafoglio, una scatola di gomme da masticare e una di mentine, insieme anche al mio spazzolino portatile. Oltre a ciò portavo un piccolo orologio bianco nel polso sinistro. con Ero andata da sola a mangiare ma ero stata subito intercettata da una coppia che potevo subito dire non essere del posto: si chiamavano Daniel e Lindsay ed erano due turisti americani che erano incappati tempo addietro nei miei video sul Giappone e si trovavano lì in vacanza. "What a coincidence!" pensai mentre, dopo essersi presentati, mi chiesero di potersi sedere al mio tavolo. Non avevo motivi per rifiutare, quindi li feci accomodare e iniziammo a parlare dei motivi che li avevano portati a scegliere il Giappone come meta. Scoprii che quello fosse un sogno che i due avevano sempre avuto e che avevano pensato che fosse ora di realizzare, essendosi trovati un periodo di ferie insieme.
    Era stato bello sapere che i due avessero realizzato insieme il loro sogno e di averli aiutati a organizzare il viaggio al meglio grazie a dei video sull’argomento. Inutile dire, poi, quanto fossi grata ai due per aver considerato il mio contenuto degno del loro prezioso tempo ma non era stato bello reagire come avevo dovuto fare. Avevo infatti sorriso loro e ringraziando sentitamente per ogni complimento che mi avevano rivolto ma sapevo di non meritarli. Avrei tanto voluto poter dire anche a loro quanto il mio personaggio fosse solo la facciata del sogno di una persona a cui avevo tolto tutto e che sarebbe stata lei quella con la quale complimentarsi. Quanto avrei voluto che Emily fosse con me, per poter rigirare ogni complimento a chi davvero se lo meritava, ma ormai esistevo solo io e dovevo incassare quelle belle frasi sapendo di non esserne degna.
    I due si erano dimostrati ottime persone e avevamo finito per parlare per ore, sia dentro il locale sia fuori. Avevo consigliato loro qualche posto da visitare prima di tornare negli States e, in cambio, loro avevano insistito per offrirmi la cena. Eravamo anche usciti dal locale e avevamo continuato a parlare per un po’, poi si era fatto tardi un po’ per tutti. Io non avevo in programma di partecipare ad attività notturne, quella sera, e i due sarebbero presto tornati nella loro camera d’albergo: l’indomani avrebbero avuto molto da visitare grazie a me. "I wish I could also travel with my significant other..."
    Non era quello, però, il momento di commiserarsi. Avrei dovuto mandare avanti il canale e l’indomani mi attendevano sia il video che avevo programmato quella sera sia un video nel canale musicale per cui dovevo ancora trascrivere la partitura. Era il momento di tornare a casa e cercare un modo di scacciare i pensieri di quella sera per cercare almeno di poter dormire in pace. Era facile, per me, sorridere davanti a una telecamera o a un gruppo di persone, ma era la notte, quando ero da sola, che potevo finalmente togliermi la maschera da ragazza allegra, sorridente e fatta da sé per confrontarmi di nuovo col marcio che c’era sotto. Avrei tanto voluto poter dimenticare ma sapevo che avrei dovuto sforzarmi per ricordare ogni cosa. Lo dovevo a Emily, a tutto il bene che mi aveva dato e a tutto il male che aveva ricevuto. Altre persone come David e Lindsay avrebbero dovuto ricevere gioia, idee o ispirazione dai miei contenuti e tutto ciò sarebbe stato il mio modo di provare a rimediare, almeno in parte, al danno che avevo causato. Era mio dovere trascinarmi a casa, anche passando per i vicoli che Google Maps mi consigliò per far prima. Era mio dovere cercare di dormire e riposarmi al meglio per poter affrontare meglio la giornata successiva. Era mio dovere continuare per sempre a vivere quella vita di tante piccole contentezze e nessuna vera felicità ed era mio dovere ricordarmi di chi fosse la colpa della mia vuota esistenza.



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    Schioccai la lingua soddisfatta davanti al mio specchietto. Avevo sistemato quell'orrenda sbavatura blu a lato della bocca, grazie alla quale mi sentivo quasi come la testimone di Love Death and Robots.
    Avevo finalmente finito di stampare le stoffe per la nuova collezione del negozio, consegnato un paio di progetti arretrati e concluso con immensa gioia la mia settimana di notti in bianco. Camminavo leggera come una piuma, quasi a un centimetro da terra per la felicità, ma il suono del mio stomaco brontolante mi riportò a una realtà che odiavo: essendo un essere vivente dovevo mangiare, ma il mio cibo camminava, indossava le mie creazioni e capiva la mia lingua. Questa volta ero rimasta davvero tanto senza toccare cibo, andando avanti di caffè e pallette di zucchero, quelle che un po' allietano la fame di noi ghoul. Sbuffai, mi sistemai gli auricolari e mi diressi in fretta verso casa.

    <Sono a casa!> urlai aprendo la porta, per poi rendermi conto che l'appartamento era deserto. Shuu era dalla ragazza, ma Ai? Scrollai le spalle e mi appuntai mentalmente di ficcanasare la mattina seguente. Aveva avuto un incontro con un'altra designer quel pomeriggio, probabilmente si era fatta di nuovo trascinare a una serata alcolica da qualche parte.
    Tolsi il vestitino scozzese viola e la giacchetta di pizzo san gallo per infilarmi nella mia triste divisa da caccia: una maglia nera con dei leggings neri, una berretta nera e delle nike -indovinate?- nere. Afferrai la maschera e lasciai in bella vista sul frigo l'enorme calamita a forma di Kappa, messaggio in codice che ricordava ai miei coinquilini di evitarmi per tutta la notte. Tornavo dai pasti piuttosto scontrosa e antisociale.
    Chiusi la porta dell'appartamento a chiave dall'interno e uscii dalla finestra sul retro arrampicandomi sul tetto. Una folata di vento gelido mi fece rabbrividire, uscivo di casa sempre vestita poco, dimenticandomi che le notti primaverili non erano molto gentili con i tipi freddolosi.

    Aiutandomi con la kagune saltai da un edificio all'altro come una scimmia urbana dirigendomi verso la zona di Minato con i vicoli solitamente popolati dalla caratteristica fauna di ubriachi, drogati depressi o turisti guidati dall'omino giallo di google maps. Dopo essermi accertata di non avere tra i piedi quelli della CCG mi appostai sopra una scala d'emergenza aspettando che qualcuno passasse di lì.
    Non ci volle molto, di lì a poco qualcuno entrò nel vicolo. Era una ragazza, abbastanza carina, coi capelli chiari e una gonna di jeans. Delle tre categorie sembrava ricadere nella terza, cosa che un po' mi metteva a disagio, ma il mio stomaco mi ricordò nuovamente che quando si ha tanta fame non si può avere il lusso di perdersi in moralismi.
    Aspettai che si fosse avvicinata e le saltai davanti sfoderando la kagune. Aveva un'espressione triste, s'intonava appieno con la lacrimuccia nera dipinta sulla guancia sinistra della mia maschera.
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    Google Maps mi stava guidando a casa e cercai, per il momento, di concentrarmi solo sulla linea blu che avevo davanti. Avrei potuto arrivare alla stazione della metro di Minato in un tempo ragionevolmente breve e, poi, sarei presto tornata a Edogawa, pronta a distendere il futon nel bel mezzo della stanza che ormai usavo come uno studio e a dormire, preparandomi per l’indomani. Avevo avuto una giornata abbastanza piena e l’incontro con David e Lindsay non aveva certo contribuito a farmi rilassare, avendomi fatto tornare in mente tante cose che avrei voluto dimenticare ma che sapevo di non potere. Era giusto così, però: niente avrebbe potuto cambiare i miei errori passati e ormai avrei dovuto vivere col loro peso sulle spalle.
    Un rumore sordo improvviso molto vicino a me attirò la mia attenzione, distogliendomi dai miei pensieri. Avevo capito che provenisse dalla direzione nella quale stavo andando, quindi diedi istintivamente un’occhia-
    "Oh, no!" Una figura mascherata alta quanto me mi si parò davanti. La guardai dall’alto in basso, velocemente, notando una protuberanza poco sotto le spalle. "A ghoul." Sentii immediatamente l’istinto di scappare, ma niente: i miei arti sembravano non volermi rispondere, intenti a tremare come foglie. E, poi, era troppo vicino: ogni mio tentativo di fuga sarebbe stato inutile. Sarei stata sicuramente raggiunta da lì a poco, sia che mi fossi messa a correre, sia che fossi rimasta lì, quindi a che pro tentare? Ormai era finita.
    Era davvero finita così. Ormai avevo solo qualche altro istante per tirare le somme della mia esistenza, che si sarebbe interrotta quella notte. Non volevo, però, andarmene in un vicolo buio. Tuttavia, non spettava a me decidere. Un aneurisma nel sonno ad almeno ottant’anni da quel giorno sarebbe stato ingiusto per qualcuna che aveva denunciato alla CCG la sua ragazza e la sua famiglia, provocando almeno la morte del padre della sua amata. Non lo avrei meritato. Avrei avuto un carnefice, qualcuno che avesse potuto farmi soffrire per divertimento e fare di me uno scempio prima di porre fine all’essere ancor più misero che sarei diventata qualche minuto più in là nel tempo. Non sapevo nemmeno se mi avrebbe mangiata, dato che la propaganda della CCG andava a nozze coi ghoul violenti che non uccidevano solo per mangiare. "E se avessi trovato uno di loro?"
    Ero stata cresciuta da genitori che avevano cercato di convincermi fin dall’infanzia che i ghoul fossero malvagi: un pensiero come quello era normale per qualcuna come me, ma non lo scacciai. Avevo troppa paura per pensare lucidamente e l’animale che era in me stava prendendo il sopravvento. Mi sentivo come un gatto incapace di scattare in avanti dopo aver visto un’auto in corsa ormai troppo vicina a lui per essere evitata.
    Che cosa potevo fare in quel momento? Ormai non avevo più scampo. Avrei solo potuto mettermi l’anima in pace e rinunciare a quei sogni che ancora non avevo vissuto, certa del fatto di averne vissuti più di Emily e di essere destinata, ormai, a morire da sola in quel vicolo, compianta solo da mio nonno, che era stato troppo gentile con me per meritare un tale dolore alla sua età, e da qualche mio iscritto che non si sarebbe dimenticato di me. L’aver pensato a Emily, però, mi riportò alla mente la dura verità: la mia fine sarebbe stata per mano di un ghoul, come se tutto fosse stato previsto. Avrei subito la pena del contrappasso: sarei morta nella città che più di tutte io ed Emily volevamo visitare, per mano di un ghoul e sola come il cane che ero. Ero stata in una situazione simile, qualche anno prima, ma questa volta Emily non sarebbe venuta a salvarmi. Il mondo sembrava aver deciso il mio fato e il karma sembrava pronto a tornarmi indietro e a farmi tutto il male che meritavo e sì, avevo deciso di arrendermi.
    Non provai a scappare. Tentai semplicemente di rilassarmi e di accettare stoicamente i miei ultimi istanti, ma se la paura avesse avuto un odore, cosa confermata da alcuni studi di cui Emily stessa mi aveva parlato, la mia si sarebbe sentita fino a Manchester. Non provai neppure a convincere quel ghoul di essere veloce. L’unica cosa che cercai di fare fu trattenere a stento le lacrime perché, nonostante tutto, sentivo di essere ancora attaccata alla vita e di voler continuare il progetto Eliza. L’eredità di Emily meritava di sopravvivere e avrei tanto voluto che lo facesse, ma ormai sapevo che non ero più in condizione di scegliere. La scelta spettava al mio carnefice e io potevo solo accettare il fatto di non avere più potere sulla mia esistenza e cercare di morire in pace.
    «Soffrirò?» Chiesi, infine, in giapponese, con un tono sottomesso e spaventato che sapevo che avrebbe tradito il mio stato d’animo. Ormai stavo per morire: che senso aveva fingere di non essere spaventata dal vedere la propria vita e i propri sogni andare in fumo, questa volta per davvero?
    Sperai almeno che le mie lacrime non si vedessero troppo. Avevo tanta voglia di piangere, ma non volevo morire con le lacrime agli occhi, le stesse della maschera del mio carnefice, un altro elemento da aggiungere ai dettagli del contrappasso. Volevo per lo meno andarmene con una parvenza di dignità, se mi fosse stato concesso.



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    Mi avvicinai alla vittima, tremava come una foglia e potevo sentire l'odore inconfondibile e inebriante della paura. Detesto ammetterlo, ma quello è uno dei miei aromi preferiti. C'era però qualcosa in lei di vagamente familiare... mi ricordava qualcuno. Mi aggiustai la maschera in faccia per riuscire a guardarla meglio: era lei! La youtuber che seguivamo io e Shuu! «정말? 아이씨!» (ma sul serio? Ca**o!) feci un passo indietro, mi chinai in avanti appoggiando una mano su un ginocchio e sfregandomi la nuca con l'altra, nello stesso modo in cui ero solita fare in situazioni spinose. Cosa fai? Mangi uno dei tuoi youtuber preferiti? Eh no cavolo!
    «Soffrirò?» mi chiese con voce strozzata. La guardai sospirando e alzai gli occhi verso il cielo: queste situazioni si ripetevano spesso e le detestavo, tutto era reso più difficile. Davvero, sono il tipo di persona che se fosse umana sarebbe vegetariana. «Tu no Eliza, ma io di sicuro sì, sono settimane che non mangio...» replicai con voce lamentosa. Il concetto fu sottolineato da un brontolio sordo proveniente dal mio stomaco... arrossii sotto la maschera. Guardai dritta negli occhi la ragazza e le spiegai che lei era una delle youtuber preferite per me e un mio amico, che la seguivamo sia per i vlog sia per la musica e che fantasticavamo sul rimanere casualmente in uno dei suoi video. «M-mi piacerebbe molto se facessi u-una collaborazione col canale dei ragazzi di Secrets for the mad quello di M-momo-san» Incespicavo tra le parole per l'imbarazzo... parlare di sé in terza persona già era ridicolo, figuriamoci arraffare un'occasione simile... durante una caccia. Parlavo con una voce più alta del solito, era quasi stridula «S-sarebbe molto interessante...».
    Non riuscii più a trattenermi, ritirai la kagune e mi accovacciai a terra con le mani sulla testa. Avrei voluto levare berretto e maschera, abbracciarla e chiederle un selca e una collaborazione in modo normale. Ma ero sicura mi avrebbe denunciato, la kagune ormai l'aveva vista, non c'era ombra di dubbio che fossi uno dei "cattivi".
    Lei non poteva vedermi, ma avevo il labbro inferiore tremolante, come quando i bimbi stanno per esplodere in un pianto inarrestabile. «Non è giusto... uffa!» soffiai stizzita e respirai a fondo per calmarmi. Se fosse anche solo arrivato uno dei miei attacchi sarebbe stato il colmo. Un ghoul con gli attacchi di panico, signore e signori oggi vi mostreremo il nuovo membro della combriccola dei matti!
    «Comunque... che ti salta in mente di girare per i vicoli di notte? Che fretta hai... se vuoi ti scorto fuori da quest'area» ...sempre che tu riesca a fidarti ci me. Perché visto dalla mia prospettiva era un favore, dalla sua invece sospettavo potesse sembrare quasi una trappola. Una di quelle da psicopatico del tipo "la faccio rilassare così la carne sarà più tenera". Eh sì, una notte avevo davvero sentito quel ragionamento e non ero in grado di levarmelo dalla testa.
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    Quel ghoul mi era venuto incontro imprecando in una lingua che non conoscevo. O era una ghoul, dato il tono di voce? Sembrava arrabbiata. Che avesse avuto una giornataccia e volesse sfogarsi su di me, la povera malcapitata? Le cose non sembravano mettersi bene. Ormai non aveva neanche più senso chiedere se potessi andare a vedermela col padre di Emily dopo un viaggio rapido o uno lento e straziante. Tuttavia lo feci lo stesso: era il mio modo per rimanere attaccata alla vita, nonostante, così, le mie ultime parole non sarebbero state piene d'onore come quelle di molti altri. A che pro, però, cercarne di migliori? Lei non stava per uccidere una donna già morta?
    «Tu no Eliza, ma io di sicuro sì, sono settimane che non mangio...»
    Stentavo a credere alle sue parole. Mi aveva riconosciuta. E intendeva risparmiarmi la vita. Un contrappasso era sempre più evidente: davvero quella ghoul non voleva uccidermi? Davvero Emily mi aveva salvata di nuovo, anche senza volerlo? Se non fossi stata riconosciuta, probabilmente, sarei stata uccisa con freddezza, ma, invece che dalla sua kagune, mi ritrovai a venir colpita dai suoi complimenti.
    Ero davvero una tra le sue youtuber preferite? Davvero il mio carnefice aveva deciso di non uccidermi nella speranza che la sua fantasia di apparire in un mio video si avverasse, in un prossimo futuro? Per l'n-esima volta, quel giorno, qualcuno mi ringraziò per cose che non meritavo. Ero di nuovo io quella fantastica, quella che faceva vlogs e video musicali che la gente guardava e nessuno sapeva di Emily, ma non era il caso di dirlo a lei. Non in quel modo e non in quel vicolo. E se lei non fosse stata un'ottima confidente? E se, una volta saputo di lei, avesse deciso di soddisfare con me il suo appetito con rabbia? Mi sentivo così egoista, ma il sogno di Emily doveva continuare. Il progetto per il quale avevo ricevuto quei complimenti non era altro che l'eredità buona che Emily aveva tanto voluto lasciare e doveva continuare a qualunque costo.
    Non sapevo che cosa pensare della mia interlocutrice: i suoi modi di fare, il suo parlare con un tono di voce sempre più stridulo e incespicando sempre di più, uniti al fatto che non mi volesse mangiare, mi fecero rimanere perplessa e m'impedirono di pronunciare qualcosa che non fosse un semplice «I...» che soppressi subito. Non sapevo neanche che cosa dirle.
    Fu così che, senza che io proferissi parola, lei mi mise a conoscenza del suo desiderio, una collaborazione con Secrets for the Mad, un gruppo di creatori di contenuti che conoscevo, seppur non di persona. Loro trattavano temi molto ostici come la salute mentale, insieme a cose più leggere come la moda. Il loro stile m’interessava, ma le nostre strade non si erano mai incontrate. Era la prima volta che mi confrontavo con qualcuno di cui conoscessi l’essere ghoul, escludendo Emily, e la prima volta che tale ghoul era un mio fan. Avevo paura di rispondere male a quella ragazza. Lei era stata gentile con me e non volevo offenderla. Emily mi aveva detto che i ghoul riuscissero a fiutare la paura e io ero sicura che lei potesse sentire la mia. Temevo che qualunque cosa che io potessi dire fosse fraintesa per via di quell’aura che emanavo e che, di sicuro, se avesse potuto parlare, avrebbe urlato ai quattro venti il mio essere terrorizzata. Se le avessi detto di sì sarebbe stato per la paura, ma non volevo dirle di no perché aveva ragione: la cosa non sarebbe stata poco interessante. Un “ci penso”, inoltre, sarebbe stato un implicito no e tutti i suoi complimenti e il tempo che aveva speso a guardare i miei contenuti non meritavano un trattamento rude o superficiale. Era così difficile dirle qualcosa!
    «Non è una cattiva idea, una volta trovati i giusti argomenti.» Non avevo trovato niente di meglio da dire, ma mi dispiaceva non dirle nulla. Lei aveva deciso di aprirsi un po’ con me, uscendo dal suo ruolo di predatrice e carnefice per entrare in quello della mia fan. Tuttavia, le mie parole potevano sembrare una promessa. Non volevo prometterle niente: sarebbe stato disonesto farlo, se poi non fossi riuscita a mantenere la parola data per migliaia di motivi, primo tra tutti il fatto che gli stessi creatori che lei mi aveva nominato potessero avere altri piani. Dopotutto, i temi che trattavamo non erano gli stessi e avremmo dovuto trovare dei punti in comune prima di procedere. Se non ne avessimo trovati sarei stata disonesta e non volevo esserlo. Non mi sarei rovinata l’immagine da persona onesta con una promessa che non avrei potuto essere certa di mantenere.
    Come se lei avesse potuto leggermi nel pensiero, durante le mie parole lei ebbe una reazione ancora meno aspettata: ritirò la kagune e si sedette in terra, urlando quanto qualcosa non fosse giusto. A che cosa si stava riferendo? Aveva forse inteso qualcosa dalle mie parole? Ero forse stata ingenua a pensare che il mio intervento potesse rassicurarla sul fatto che la sua richiesta potesse essere esaudita in futuro? Avrei fatto meglio a stare zitta, rendendo la nostra conversazione un suo monologo? Mi sembrava di essere nel test della Kobayashi Maru, in attesa di scegliere di che morte morire. Istintivamente, come se non me la fossi trovata poco prima davanti con la kagune sguainata, mi fu istintivo sporgermi un po’ per osservarla meglio, chiedendomi come stesse, mentre, finalmente di nuovo in possesso del mio corpo, smisi di stringere il mio cellulare con tutta la mia forza e lo rimisi nella tracolla. Non sapevo nemmeno se chiederle se stesse bene fosse la cosa più giusta da fare. Ipotizzai il fatto che volesse resistere dal mangiarmi perché le piacessero i miei contenuti e non trovasse giusto il dover soffrire la fame così. In quello potei capirla: non era giusto che io venissi risparmiata a scapito di un’altra persona, specialmente dopo il modo in cui avevo trattato una sua simile a cui tenevo molto.
    «Comunque... che ti salta in mente di girare per i vicoli di notte? Che fretta hai... se vuoi ti scorto fuori da quest'area.»
    Di certo non mi sarei aspettata quella proposta, nonostante proprio non sapessi come il mio incontro con lei dovesse finire. Che cosa avrei dovuto risponderle? Un sì sarebbe stato di per sé rischioso, ma lei era pur sempre una mia fan, che aveva rinunciato a mangiarmi per la scarsa probabilità di comparire in un mio video futuro. Seppur la mia fiducia m’impedisse di dirle di sì, non avrei potuto dirle di no. Che cosa avrei dovuto fare?
    «Certe volte prendere una scorciatoia non aiuta, ma ho fatto tardi e ora rischio di dovermela fare a piedi fino a casa, se non arrivo alla stazione in tempo.»
    Era il momento della verità: le avrei detto di sì o di no? Ancora non ne avevo idea, ma dovevo scegliere e dovevo farlo in fretta. Decisi di non rivelarle il fatto di essere stata fuori a cena non perché fossero affari miei quanto perché lei mi aveva detto di star soffrendo la fame e non volevo infierire. Ancora ero terrorizzata e ancora credevo che lei si meritasse una possibilità. Che fare?
    «Facciamo in fretta, d’accordo?»
    Non nascosi il fatto di essere ancora evidentemente sotto shock: non ero in grado di riprendermi da uno spavento mortale nel giro di pochi istanti, ma avevo deciso di rischiare. Con Emily, farlo mi aveva portato bene e, per quanto non convenisse mai abusare troppo della propria fortuna, credevo che il suo resistere al soddisfare il suo appetito con me fosse un gesto da ricompensare con un altro po’ del mio tempo. Era vero, però, che limitare il nostro stare insieme fosse meglio per entrambe: io avrei potuto calmarmi e tornare a casa quanto prima e, forse, il non vedermi più e il non sentire il mio odore sarebbero serviti per placare leggermente la sua fame. Dopotutto, chiunque avrebbe più fame se a digiuno e davanti a un piatto invitante.
    Decisi di rimanere lì a osservarla: per quanto non mi sentissi per niente al sicuro, mi sarei mossa solo dopo di lei, camminandole dietro non appena lei avesse mosso il primo passo. L’unica cosa che non sapevo era che tentare la fuga in quel momento non sarebbe servito a nulla. La mia interlocutrice avrebbe sempre potuto raggiungermi e decidere di completare il lavoro, ma il solo fatto che fossi ancora in vita e in salute significava che lei fosse qualcuno di cui fidarsi, giusto? Non lo potevo sapere: a differenza di quanto accaduto con Emily, quello era il mio primo incontro con quella ghoul. Sarei stata costretta ad aggrapparmi a un’idea di fan buona, diversa da quella con cui aveva dovuto scontrarsi il grande John Lennon, sperando che almeno il mio istinto non mi tradisse.



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    «Certe volte prendere una scorciatoia non aiuta, ma ho fatto tardi e ora rischio di dovermela fare a piedi fino a casa, se non arrivo alla stazione in tempo.» Stazione? Piegai la testa da un lato. Era un po' tanto lontana a piedi, soprattutto perché s'era infilata in un quartiere che era un vero e proprio groviglio di stradine... Esattamente per quel motivo passavo sempre per i tetti. La squadrai dall'alto verso il basso con una mano che grattava pensosa il mento, o meglio quello della maschera, e decisi che tentare di portarla in braccio non avrebbe dovuto essere troppo faticoso... almeno non per un breve tratto. Ero a digiuno e dubitai che la quantità industriale di caffeina che mi circolava nel sangue potesse reggermi ancora per molto. Avrei comunque potuto raccontare di quella serata a Shuu facendolo morire d'invidia. Annuii sovrappensiero, mi sembrava un'ottimo affare. «Facciamo in fretta, d’accordo?» sorrisi e mi calcai il berretto in testa per assicurarmi che nessunissima ciocca rosa potesse essere visibile e che la maschera fosse ben affrancata. «D'accordissimo, Pierrot le darà un passaggio» le dissi allegra scimmiottando un profondo inchino da maggiordomo europeo.
    Mi avvicinai a lei con passo deciso e la sollevai di peso, portandola un po' come fanno i principi delle fiabe e guardandola ridacchiai «Spero che tu non abbia paura delle altezze, perché stiamo per prendere una scorciatoia molto breve, attaccati a me» Appena visibili sotto la maschera i miei occhi si colorarono di nero e feci uscire tutta la mia kagune, sia quella destra sia quella sinistra. "Dovrò poi fare in fretta a mangiare qualcuno dopo questo azzardo..."
    Presi una piccola rincorsa e saltai da una parete all'altra facendo affidamento su gambe e sulla kagune, un po' come se fosse un piccone o un secondo set di braccia. Non fu uno sforzo immane, in fondo erano edifici molto bassi per essere in centro a Tokyo, solo 2 o tre piani, ma arrivai lo stesso col fiatone in cima. «Tutto a posto?» mi assicurai che non fosse tipo svenuta dal panico o simili per poi riprendere la mia corsa saltellante al di sopra dei tetti.

    Arrivati ai margini del quartiere e molto vicine alla stazione, scesi su una scala esterna antincendio e la lasciai a terra ansimante. Ero affaticata e mi appoggiai alle ginocchia per riprendere fiato. Tirai fuori dalla tasca uno zuccherino e lo infilai sotto la maschera, non era molto ma poteva aiutarmi. Le diedi le indicazioni per arrivare alla stazione e risalii sul tetto con un balzo. «Mi raccomando la collab! Conto su di te... addio!»
    Detto ciò sparii veloce nella notte in cerca di una cena... sta volta sarei piombata su chiunque, fosse anche l'imperatore in persona. Che poi eravamo proprio sicuri che il Giappone non fosse governato da un ghoul? Mah...

    Una volta lontana e totalmente fuori dal suo campo visivo mi tolsi la maschera, infischiandomene del buonsenso, ed esultai baciando un palo della luce che portava una lampadina guasta.
    ***
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    «Pensato»

    I got a secret for the mad

    Ghoul
    Koukaku
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    Pierrot



    Edited by attoooh - 16/5/2020, 00:51
     
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    «D'accordissimo, Pierrot le darà un passaggio»
    Dopo un inchino, la ghoul si lanciò verso di me e mi prese in braccio, sollevandomi di peso. «Spero che tu non abbia paura delle altezze, perché stiamo per prendere una scorciatoia molto breve, attaccati a me.» Non feci in tempo a dire niente, in quanto lei prese subito la rincorsa e si lanciò in aria. Non appena sentii di starmi sollevando ulteriormente dal terreno, mi aggrappai a lei con tutta la forza che avevo, intenzionata a non mollare la presa per niente al mondo. Notai subito il fatto che Pierrot, così lei si era presentata, si stesse arrampicando, saltando di parete in parete con una naturalezza che non mi sarei mai sognata, soprattutto con un essere umano aggrappato. Non parlai per tutto il viaggio, limitandomi a irrigidire gli arti il più possibile. Ormai, forse per tacito accordo, le nostre distanze sociali si erano annullate ed ero a stretto contatto col suo corpo. Lei non era la prima ghoul che abbracciavo, ma le cose erano diverse con Emily, iniziando dal fatto che lei non mi aveva mai trasportata sulla cima di un edificio. Forse, prima o poi, sarebbe successo. In fondo, una relazione interspecie doveva pur avere dei vantaggi, oltre l’essere più sicura quando si passava in coppia nei vicoli bui. Chissà che cosa tutto avremmo potuto fare io ed Emily, se fossimo rimaste insieme, se solo io…
    «Tutto a posto?»
    Pierrot mi distrasse dai miei pensieri e dall’inusuale vista dall’alto, permettendomi di rendermi conto di quanto effettivamente fossimo in alto. Lei si era arrampicata sull’edificio e io non avevo detto nulla da quando lei mi aveva sollevata da terra, non lasciandomi sfuggire né un urlo, né un mugolio, né altro. Mi ero concentrata unicamente sul panorama, mentre la mia mente aveva seguito il corso dei suoi pensieri, come se stessi semplicemente prendendo l’n-esimo aereo, diretta in chissà quale altro luogo fantastico.
    «Sì, grazie.» Risposi, leggermente ancora sotto shock ma con un tono più… tranquillo? Fu durante quelle parole che realizzai quanto velocemente il mio stato d’animo fosse cambiato. Poco prima ero malinconica, per giusti motivi, poi avevo temuto per la mia vita e, in quel momento, mi stavo fidando di Pierrot, colei che doveva essere il mio carnefice, a tal punto da affidarle la mia vita in quel viaggio e pensare ad altro nel mentre, quasi certa che sarebbe andato tutto bene. Certo, sapevo bene che lei era ancora una ghoul e che avrebbe potuto uccidermi in qualsiasi momento, ma aveva già avuto modo di farlo: perché aspettare? E, poi, non era una ghoul anche Emily? Delle due, in fondo, ero più che certa di chi fosse il mostro.
    Dopo essersi accertata di come stessi, Pierrot iniziò a muoversi tra i tetti. Lei mi portò fino a un edificio molto vicino alla stazione, dal quale scese attraverso una scala antincendio. Dopo avermi finalmente lasciata a terra, pronta a camminare nuovamente sulle mie gambe, la ghoul sparii veloce com’era comparsa, non prima di avermi ricordato della collab. Evidentemente aveva preso la mia affermazione per un sì e nemmeno un «Aspetta!» servì a fermarla. Non l’avrei disillusa, non dopo che lei si era rifiutata di uccidermi, condannando qualcun altro affinché io sopravvivessi. Avrei voluto almeno dirle dove e quando avrei filmato la nuova puntata di Asking the Locals, in modo da poter realizzare il suo sogno di comparire in uno dei miei video in forma anonima, senza che io potessi riconoscerla. Lei aveva fatto tanto per me e mi dispiacque non poter ricambiare. Avrei fatto almeno qualcosa per lei, qualcosa che non vanificasse i suoi sforzi e la sua lotta contro la fame. Dopotutto, il mio intero canale era un tentativo di fare qualcosa per ricambiare tutto ciò che una certa ghoul aveva passato a causa mia, tentativo che non sarebbe mai stato capace di avvicinarsi a ciò che avevo ricevuto. Tuttavia, per quanto inutile fosse, era mio dovere continuare a tentare ancora e ancora per tutti coloro a cui i miei tentativi avevano portato qualcosa di positivo, fosse anche un sorriso. Per farlo, però, era il caso che tornassi quanto prima a Edogawa, dove era mio dovere, per l’n-esima volta, provare a lasciarmi alle spalle quanto ingiusto fosse essere stata riconosciuta e salvata solo per quello, a discapito di un innocente, quanto ingiusto fosse essere stata di nuovo salvata da chi non avevo salvato e quanto ingiusto fosse il fatto che io stessi vivendo quella vita privilegiata grazie a un ulteriore sacrificio, la nuova preda di Pierrot, come se Emily non bastasse. Era mio dovere almeno cercare di dimenticare per quanto bastasse a prendere sonno e a dormire: l’indomani avrei avuto una giornata intensa e recuperare le energie era un must.
    Aspettai qualche istante dove Pierrot mi aveva lasciata, giusto il tempo che bastò a convincermi del fatto che lei non sarebbe tornata, poi procedetti verso la stazione della metro. Grazie alla ghoul ero ancora in tempo per l’ultima corsa: era mio dovere prenderla per arrivare a casa e riposare il più possibile, cercando di non pensare a chi, durante il mio viaggio in metro, stava morendo per colpa mia. Non avrei vanificato quella seconda possibilità. Non anche quella.




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