For every good wish, I make myself dirty.

[CONCLUSA] Evelyn Tiffany Applegarth & Ryoga Hasegawa @ streets | 22/05/2020 dalle 17:20

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    Evelyn Tiffany Applegarth
    "Respira. Ti prego, respira."
    C'erano tante cose sbagliate in quel mondo, tra le tante c'era la sua posizione: scomoda, spaventosa, qualcosa per cui lei era estremamente riluttante. Ogni giorno le notti passate a rigettare marchiavano ogni suo pensiero, non permettendole di fuggire.
    Eppure.
    Ancora una volta, era riuscita a fuggire. Non dal panico, però.
    Ancora non aveva ben chiaro quanto tempo riuscisse a resistere senza della carne, i periodi erano fin troppo altalenanti e dipendeva anche dallo stress che accumulava. E di stress, purtroppo, ne aveva fin sopra i capelli.
    Eppure.
    C'erano tante cose sbagliate in quel mondo crudele, prima fra tutte la sua incapacità a darsi un contegno. Se l'era ripetuto più e più volte che doveva darsi una regolata, che doveva imparare a non cadere in tentazione, perché se solo l'avesse fatto si sarebbe macchiata le mani di un crimine che non era pronta a sostenere. Probabilmente, purtroppo, non lo sarebbe mai stata.
    Erano desideri impuri? Impulsi disgustosi e deplorevoli ai quali non riusciva a sottrarsi, nemmeno castigandosi e forzandosi al digiuno per periodi che, ad un certo punto, le cominciavano a risultare interminabili. Voleva fuggire da quella realtà, ne era fin troppo stanca.
    Eppure.
    Dove si trovava adesso, ansimante, nascosta da tutto e da tutti nel tentativo di sfuggire a quell'orribile tentazione? In un vicolo. Il panico le offuscava la mente e la vista, non riusciva a percepire con chiarezza dove si trovasse, dove si fosse rifugiata, né tantomeno comprendeva se qualcuno l'avesse vista. Niente di tutto ciò le passava per la mente, era solo terribilmente spaventata.
    Le era capitato ancora una volta, e per lo più non aveva con sé la maschera, né un cambio di vestiti per nascondersi e non venir scoperta.
    Come nascondeva, ora, le sclera improvvisamente tinte di nero e le iridi rosso sangue? Ironico come il suo primo pensiero si fosse rivolto al suo aspetto e non al problema fondamentale: come sarebbe tornata a casa senza azzannare o attaccare qualcuno?
    Purtroppo era troppo disperata ed impaurita per riuscire a raccogliere tutta la sanità mentale rimastale e riuscire quindi a formulare un pensiero del genere.
    Adesso percepiva persino qualcosa di freddo sfiorarle la guancia destra; si passò distrattamente una mano lungo la guancia, dove aveva percepito quell'improvviso fresco. Oh no, stava piangendo? La mano, tremula, si allontanò dal viso, andando a stringere la lunga gonna nera che indossava quel giorno, mentre la mano sinistra venne poggiata all'altezza del cuore, che in quel momento stava battendo all'impazzata. Cercò di fare respiri profondi e lenti, in modo tale da calmare il respiro, ma era come se riuscirci fosse diventata l'impresa del secolo.
    Le gambe le tremavano, le ginocchia sbattevano tra di loro... e poi cedettero: la schiena, poggiatasi al muro del palazzo che dava al vicolo, cominciò a scivolare piano piano, fino a che il sedere non cadde rovinosamente al suolo, incurante di quanto poco igienico fosse quel posto.
    Tentò ancora di respirare profondamente, ma nonostante i mille tentativi non riusciva proprio a farselo passare.
    Non poteva nemmeno chiedere aiuto, non in quelle condizioni.
    "Cosa faccio?" fu l'unico pensiero che le passò per la testa. Sentiva le vie respiratorie occludersi e la sua bocca si spalancò nel tentativo di raccimolare quanta più aria riuscisse. Si sentiva soffocare, i polmoni bruciavano-- perché? Perché le stava accadendo tutto quello? Doveva essere una normale giornata di shopping, non desiderava altro.
    Eppure.
    Le borse coi vestiti appena acquistati caddero a terra: non sapeva dire se i vestiti al loro interno erano usciti, aveva solo sentito il rumore della busta di carta sfregare contro l'asfalto. Evelyn si raccolse in avanti, poggiando la fronte sulle ginocchia, lasciando scivolare le ciocche di capelli corvini in avanti, coprendole il viso ormai paonazzo.
    Ora come ora desiderava solo che qualcuno la trovasse. Magari qualcuno che non avrebbe chiamato la CCG solamente guardandola negli occhi.

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    Ryoga Hasegawa
    D’accordo, doveva ammetterlo: era stanco. Stanco morto. Stanco e morto. Passare la notte a perlustrare la baia di Tokyo in cerca di cadaveri con Akari e andare a lavorare il giorno dopo si era rivelato più pesante del previsto. Un lieve ma insistente mal di testa gli torturava le tempie da tutto il pomeriggio, i muscoli indolenziti delle gambe si lamentavano come se avesse corso una maratona e, in generale, si sentiva intontito.
    Normalmente non sarebbe stato un problema… nell’eventualità in cui, appunto, fosse stato normale. Il fatto è che normale non lo era più da anni. Ryoga era una persona piuttosto energica, aveva imparato ad esserlo per ravvivare le giornate un po’ grigie di sua sorella, perciò sentirsi fiacco lo demoralizzava parecchio. Non gli capitava di sentirsi così da quando era stato accettato per il lavoro all’host club e, di conseguenza, si era dovuto abituare alla nuova routine. La soluzione a quell’enigma non poteva che essere una: il suo corpo stava decadendo. Il che era pure ovvio, considerato che era morto.
    «Stai staccando, Hasegawa?»
    “Non è il caso di pensarci ora.”
    Con un cenno del capo e un sorriso cortese ma sterile, Ryoga fece quel che sapeva fare meglio: mascherare il malessere. Non aveva voglia di sentirsi chiedere che cosa non andava, non aveva voglia di spiegare che il mondo gli era crollato addosso e non aveva voglia neanche di mentire. La sua testa e i suoi problemi erano affar suo.
    Salutò i colleghi, raccattò la sua roba e, al rifugio da occhi indiscreti sotto il cappuccio della felpa, sgusciò fuori dal locale senza alzare lo sguardo alla graduatoria degli host. Conosceva già la sua posizione, di salire o scendere non gli importava finché guadagnava abbastanza da poter mantenere la famiglia; in realtà le cose di cui non gli importava erano decisamente troppe, soprattutto se riguardavano lui nello specifico, ma non poteva farci niente se trovava poco stimolante concentrarsi su se stesso, no? In quell’esatto momento però gli importava delle sue gambe, e hey, questo è un passo avanti!
    Minato era grande, ma non così tanto da non poter essere attraversato a piedi. Quanto a Ryoga, la sua mente claudicava già in direzione del letto, con due brevissime soste in camera e in salone per salutare la madre e la sorella prima di una deviazione di pochi minuti sotto la doccia più bollente della sua non-vita.
    Almeno finché il destino - era abbastanza fesso da crederci? - non decise che quel letto non lo avrebbe visto per un po’.
    In pratica gli sfrecciò davanti, quella ragazza, tagliandogli la strada appena un secondo prima che Ryoga fosse troppo vicino per evitare lo scontro. Probabilmente non lo vide nemmeno, ma solo per un momento lui vide il suo volto, deturpato da un’espressione che per poco non gli gelò il sangue nelle vene.
    Sgranò gli occhi, fissandola istintivamente mentre veniva fagocitata dal buio di un vicolo che incrociava la strada che stava percorrendo. La perse di vista e rimase lì, imbambolato a guardare il vuoto in attesa di niente. Un po’ l’allegoria della sua vita, insomma. Gli era parso di vedere le sclere nere, ma era accaduto troppo velocemente per esserne certo.
    Rischiava di avere a che fare con un’umana.
    Ma gli era sembrata davvero sconvolta.
    Ma poteva essere umana.
    Ma poteva essere in pericolo.
    “... sono un irresponsabile ipocrita.”
    Almeno aveva la correttezza di ammetterlo. Prima o poi si sarebbe liberato di quell’incosciente bisogno di dare una mano al prossimo pur di sentirsi a posto con la coscienza.
    Si addentrò a sua volta nel vicolo e quando, poco più avanti, finalmente la ritrovò, la convinzione di aver fatto la scelta giusta cominciò a radicarsi in lui. Sembrava avere un malessere o qualcosa del genere; difficile a dirsi vedendola solo di spalle.
    Cominciò ad avvicinarsi lentamente, con passi leggeri ma udibili. Non era sua intenzione apparirle accanto all’improvviso o, viceversa, fare troppo rumore col rischio di spaventarla. Si fermò ad un paio di metri di distanza, sedendosi sui talloni senza rifletterci troppo. In quel modo, trovandosi quasi alla medesima altezza, magari sarebbe apparso più innocuo.
    «Hai bisogno di aiuto?»
    Aveva detto la prima cosa che gli era venuta in mente. Sì, insomma, non tutti i giorni ti capita di tentare di soccorrere una ragazza in un vicolo. E poi Ryoga rimaneva Ryoga, fondamentalmente un po’ scemo.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Doveva cercare di non stringersi troppo contro le proprie gambe, altrimenti l'occlusione che sentiva al petto sarebbe soltanto che peggiorata, per via delle gambe che pressavano pericolosamente contro il seno appena accennato. Tremava come una foglia, e ciò che la spaventava maggiormente era la consapevolezza di non riuscire a controllarsi nel caso qualche umano si fosse palesato di fronte a lei. Si era nascosta nel primo vicolo tra palazzi che aveva trovato, convinta che questo l'avrebbe aiutata a non dare nell'occhio. Il fatto che non riuscisse a calmarsi e che il panico fosse tanto forte quanto insopportabile erano un dettaglio “superficiale”. Perché diciamolo chiaramente, superficiale non lo era proprio per nulla.
    Eppure ogni sua paura si amplificò magicamente nel sentire dei passi, leggeri, accompagnati poco dopo da una voce.
    Una voce di uomo, per essere precisi. Il che l'aveva messa piuttosto in soggezione, tanto che non riuscì a trattenere un sobbalzare impaurito, con le braccia che strinsero, poco dopo, la presa in maniera maggiore attorno alle proprie gambe, affondando maggiormente il viso contro le proprie ginocchia. I tremolii aumentarono e dalla sua bocca fuoriuscì qualche singhiozzo, non permettendole di nascondere il fatto che stesse piangendo. Si morse violentemente il labbro inferiore più e più volte, tanto da avere la certezza di averlo martoriato al punto da averlo fatto sanguinare. Purtroppo qualche goccia del suo sangue non avrebbe affatto contribuito a placare la fame esagerata che la stava facendo disperare a tal punto, così come nemmeno del caffé sarebbe stato in grado di placare quella voragine che aveva al posto dello stomaco.
    « Ho f-fame... »
    Un balbettio sommesso, appena appena sussurrato, uscì incontrollato dalle sue labbra. La voce le tremava forse anche più di quanto non stesse già facendo il proprio corpo. Nel momento in cui realizzò di aver parlato, la presa sulle proprie gambe si fece ulteriormente forte, al punto che l'aria cominciava inesorabilmente a mancarle. I respiri si fecero, di conseguenza, sempre più pesanti, accompagnati da quell'astinenza per nulla giovevole. Da quanto non mangiava, effettivamente? Sumire le aveva detto di non fare complimenti e di cibarsi del corpo che le aveva procurato, ma Evelyn aveva rifiutato, provando a cibarsi, piuttosto, di un'insignificante insalata. Quella volta però era di mare! Eh, i grandi cambiamenti.
    « Non ce la faccio più... »
    Un altro sussurro che avrebbe di gran lunga evitato di pronunciare. Ma ehy, non stava quasi più avendo controllo— grazie al cielo stava evitando come la peste di alzare lo sguardo, non aveva la garanzia che la persona venuta in suo soccorso fosse un ghoul come lei, e sapeva in che stato erano i suoi occhi in quel momento. E no, non per le lacrime che avevano sicuramente fatto sbavare gran parte del trucco, era chiaro. Il fatto che avesse comunque tutta questa forza di volontà che riusciva a controllare l'istinto di voltarsi a guardare il ragazzo era a dir poco lodevole— ma quanto avrebbe resistito ancora?

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    Ryoga Hasegawa
    Pensandoci bene aveva fatto una domanda davvero stupida. Una ragazza si affloscia in un vicolo, chiaramente preda di un attacco di panico o crisi di qualche tipo, e lui chiedeva se avesse bisogno di aiuto. Ovvio che avesse bisogno di aiuto, genio!
    Il punto era semmai come poteva aiutarla lui, che, per quanto si sforzasse di sembrare socievole e alla mano, in realtà non era tanto più capace di sua sorella nei rapporti umani.
    E ora, davanti a una sconosciuta che soffriva in maniera tanto evidente, si sentiva impotente. Avrebbe dovuto avvicinarsi e accertarsi delle sue condizioni in prima persona oppure era meglio mantenere le distanze, in modo che non si sentisse braccata da uno sconosciuto? O era meglio chiamare un'ambulanza? E qual era il numero del pronto soccorso…? E se fosse svenuta prima dell’arrivo dei medici?! Non aveva la benché minima idea di come rianimare una persona-...
    No, doveva stare calmo. Non era il momento di perdere il sangue freddo. In fondo doveva fare quel che reputava saper fare meglio: concentrarsi appieno su qualcun altro anche a costo di perdere cognizione di sé, era l’unico modo che aveva per rendersi utile.
    Così continuò a fissarla, registrando mentalmente ogni suo minimo movimento o sussulto. A giudicare dalle borse sparse per terra doveva essersi sentita male mentre faceva compere, e da com’era paralizzata non pareva conoscere soluzione al suo malessere, dunque forse poteva escludere asma e cose del genere. Ciò che lo spaventava veramente era l’eventualità si trattasse di un infarto, in quel caso ogni secondo sarebbe stato estremamente prezioso.
    Ma a quel punto la ragazza, dopo essersi ulteriormente rannicchiata come se avesse voluto dissolversi, mormorò qualcosa. Ryoga assottigliò gli occhi, ripetendosi quella manciata di sillabe confuse finché non riuscì a dar loro un senso: ho fame, aveva fame.
    … Ah. Tutto qui?
    L’espressione del biondo mutò radicalmente, assumendo le sfumature dell’imbarazzo. Da bravo idiota, era saltato subito al worst case scenario e perso una decina d’anni di vita immaginandosi già in centrale a dover raccontare una storia dal finale tragico.
    All’imbarazzo subentrò poi il sollievo: almeno era un problema risolvibile! Le avrebbe comprato qualcosa da mangiare, anche se…
    Ed è lì che il suo viso cambiò ancora, stavolta in preda alla confusione. Non si sarebbe sorpreso se fosse stata una senzatetto, ma quella ragazza sembrava tutt’altro che povera, difficile credere che non avesse soldi per comprarsi del cibo.
    Si guardò intorno, la mente sfiorata dall’agghiacciante sospetto che potesse trattarsi di una trappola, ma con un sospiro constatò che gli unici presenti erano loro due.
    E allora che diamine…?
    Non gli restava che un’opzione, ovvero che ella fosse una ghoul in crisi d’astinenza. In tal caso eccome se avrebbe potuto aiutarla, anche se Arakawa era abbastanza distante… per prima cosa doveva però accertarsi che fosse la verità.
    Si rimise in piedi, ancora una volta facendo attenzione a non essere più rumoroso del dovuto, e con un paio di falcate superò la corvina portandosi davanti a lei. A quel punto si sedette di nuovo sui talloni, inclinando la testa per cercare di incontrare il suo sguardo; ma no, era troppo chiusa in se stessa per riuscirci, avrebbe dovuto osare un po’ di più - e più tardi si sarebbe scusato.
    «Non voglio farti del male.» disse con voce morbida, facendo del suo meglio per sembrare convincente e rassicurarla. «E non penso tu voglia farne a me. Credo di conoscere quel tipo di fame, quindi lascia che ti aiuti.»
    Non poteva tradirsi più di così. Ammettere di essere un ghoul sarebbe stato troppo pericoloso se ella si fosse rivelata umana.
    Se la ragazza non lo avesse scacciato, le avrebbe con delicatezza sfiorato la tempia destra per invitarla ad alzare la testa.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Chissà che bella opinione doveva avere quello sconosciuto di lei. La sua testa era in uno stato di confusione tale che comprendere quanto quell'affermazione non potesse avere senso per nessuna persona normalissima era totalmente fuori dai suoi pensieri. Probabilmente non riusciva nemmeno a passarle per l'anticamera del cervello, e proprio per questo non si trattava di un problema che riusciva a porsi.
    Non aveva idea di chi fosse l'altra persona, era ignara della sua natura-- e proprio per questo doveva evitare di alzare lo sguardo, doveva evitare di farsi vedere. E se fosse stato un ghoul, non l'avrebbe comunque reputata una fortuna: proprio perché ghoul avrebbe potuto deriderla, ritenerla debole ed approfittarsi del suo stato di debolezza per fare chissà che cosa. Peggio ancora, quello poteva essere il suo territorio di caccia, e magari quel tizio in realtà si sarebbe approfittato di lei per mangiarla-- oppure si sarebbe arrabbiato, perché si arrabbiavano i ghoul se si fosse osato calpestare il loro territorio e cacciare in zone marcate già da qualcun altro.
    ... purtroppo aveva una visione decisamente inumana e poco positiva dei ghoul, pur essendolo lei stessa e vivendo sotto lo stesso tetto con altri ghoul. E la sua immaginazione non aiutava di certo ad alzare quell'opinione così bassa e negativa che aveva. Era un gioco di fiducia quello, e lei di fiducia verso il mondo ne aveva ben poca, soprattutto in quel momento. Non avrebbe saputo come continuare, si sentiva intrappollata, non sapeva come scappare né come calmarsi.
    Eppure, contro ogni sua previsione, quella persona insistette: lo sentì avvicinarsi e posizionarsi proprio davanti a lei, superando il suo corpo e le borse oramai sparpagliate per terra. Udendo il rumore dei suoi passi e dei vestiti che strofinavano tra di loro, rabbrividì, e non fece che chiudersi ancora di più in quell'abbraccio nel quale si era autoimposta di sprofondare, affondando malamente il volto contro le ginocchia, il naso ormai insinuato tra le gambe, ancora coperte dalla stoffa morbida e nera del capo che indossava.
    Lo stato di sorpresa aumentò dopo le parole pronunciate dal ragazzo. Conosceva quel tipo di fame, aveva detto. Il tono era dolce, estremamente tranquillo-- aveva paura, continuava ad averne, e non riusciva ad alzare il volto, ancora estremamente spaventata da tutto quello che era accaduto nel giro di pochi minuti. Il battito del suo cuore accelerava di secondo in secondo, non permettendole di chetarsi definitivamente. Dubitava ci sarebbe comunque riuscita, anche se la persona di fronte a sé fosse stata sua nonna Kasumi o Sumire. Però riusciva a pensare un po' più razionalmente: se stava fingendo e voleva cogliere l'occasione di assalire una ragazza in difficoltà, doveva congratularsi con lui perché, in quello stato, non avrebbe mai pensato che fosse quello il suo intento.
    I dubbi persistevano, i tremolii di mani, braccia e gambe non cessavano; si morse nuovamente le labbra, ormai troppo martoriate per avere un aspetto decente. Alla fine, però, decise di scostare il volto dalle proprie gambe: non lo avrebbe fatto se solo non stesse soffocando da sola, lì chiusa in se stessa e rannicchiata al punto da esercitare sempre più pressione sul diaframma e sui polmoni. Il volto non venne comunque alzato di troppo: gli occhi erano strizzati per paura di mostrarsi, il volto aveva assunto una colorazione rossastra piuttosto evidente, e la frangia risultava scompigliata e leggermente bagnaticcia, il tutto dovuto al sudore freddo che quell'attacco di panico le aveva causato. Dalle ginocchia si poteva intravedere solo il ponte del naso, gli occhi strizzati e il trucco leggermente sciolto; dalla punta del naso era tutto ancora sotterrato tra le ginocchia, la schiena arcuata in avanti per non alzarsi troppo; gli occhi si schiusero piano, mostrando impercettibilmente, e tra le ciglia bagnate dal pianto, le sclera nere. Tremava ancora e non riusciva a fermarsi, la bocca annaspava nel tentativo di riprendere aria che immancabilmente non riusciva a raggiungerla del tutto a causa della posizione in cui era ancora messa. Il problema era mostrare gli occhi, eppure aveva troppa paura per alzare oltre il proprio volto.
    Aveva quindi deciso di fidarsi, tanto se doveva morire, essere denunciata o fare qualsiasi altra brutta e terribile fine, qualsiasi cosa avrebbe fatto sarebbe servito soltanto a ritardare la sua atroce fine, tanto valeva porre fine alle proprie sofferenze quanto prima.

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    Ryoga Hasegawa
    Male, male, male. Le fugaci occhiate allarmate di Ryoga dardeggiavano ormai da una parte all’altra del vicoletto in maniera quasi febbrile, preda di un altalenante timore che qualcuno li adocchiasse e si mettesse in mezzo. Non voleva ritrovarsi nella terribile condizione di dover difendere un umano da una potenziale ghoul affamata o lasciare quest’ultima al suo infausto destino pur di salvarsi la pelle. Era qualcosa che semplicemente non sarebbe riuscito a fare, che non avrebbe fatto neanche avendone la possibilità: sarebbe stato come infangare la memoria di suo padre.
    Era quindi essenziale che niente andasse storto e nessuno li vedesse, per fortuna l’ora tarda e la zona poco centrale giocavano a loro favore. Che pessimo momento per imbattersi in qualcuno con un dilaniante bisogno di cibo, però… la sua sfortuna non lo tradiva mai.
    E sì, nel momento in cui la giovane sollevò la testa quanto bastava per confermare la sua ipotesi il tempo parve fermarsi, schiacciato dal peso di troppi interrogativi a cui doveva dare una risposta. In fretta. Non avevano tutta la notte, anzi chissà quanto poco tempo aveva a disposizione lei prima di dare di matto, di ghoul che perdevano la testa ne aveva visti parecchi lavorando per la Coltre delle Nubi.
    La sua espressione non cambiò quasi per niente quando i suoi occhi incontrarono quelli della sconosciuta: bianco e azzurro adesso si specchiavano in nero e rosso, un contrasto che la diceva lunga. L’unico cambiamento fu il lento abbassarsi delle sopracciglia, come chi ha appena compreso appieno la situazione.
    «Ce la farai.»
    Fu la prima cosa che disse. Spontaneo e diretto, senza neanche avere bisogno di rifletterci. Era abituato ad essere quello forte, quello che in qualche modo risolve da solo le situazioni complicate senza coinvolgere chi voleva proteggere. In quel momento anche la corvina rientrava tra le persone che Ryoga voleva proteggere.
    «Conosco chi può aiutarci, ma si trova ad Arakawa. Pensi di farcela fino a lì o preferisci aspettarmi qui?»
    Bene, adesso faceva pure gli straordinari. Ma voleva credere che ne sarebbe valsa la pena.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Non era ancora arrivato il momento di ritenersi al sicuro, purtroppo per lei. C'erano ancora tante cose che non andavano, primo tra tutto la sua totale incapacità di rendersi conto che quel ragazzo era lì effettivamente per aiutarla e che, di conseguenza, avrebbe dovuto smettere di pensare non sarebbe stato così. La coltre di pensieri offuscava il suo giudizio già da sé vacillante, una fitta nube di illogicità che inneggiava il biondo che si era offerto di aiutarla, ma che al tempo stesso mostrava una costante titubanza, complice la debolezza che in quel momento stava affrontando la povera Evelyn.
    Avrebbe avuto di gran lunga bisogno di uno schiaffo morale, di una tirata di capelli, di qualsiasi cosa che le avrebbe concesso di rinsavirsi. Non sarebbe bastata la sola forza di volontà.
    Gli occhi intrisi di lacrime, bloccate tra i grumi di mascara formatisi tra le ciglia a causa del pianto, cercarono di trovare una stabilità in quelli altrui; tremacchiavano persino le palpebre e lo sguardo non era per nulla fermo. Decise di alzare ancora un po' il capo, facendo spuntare il piccolo naso all'insù oltre le ginocchia, lasciando anche intravedere le labbra rosee e tremanti, ora martoriate dal continuo mordicchiarle e rosicchiarle. Oltre ad avere il rossetto nude leggermente mangiucchiato ed ora a chiazze sulle labbra imperfette.
    Fece un respiro profondo per calmare singhiozzi e fiatone, prima inspirò tremacchiante e poi espirò piano, accompagnando il gesto con una breve chiusura degli occhi, giusto per trovare la pace che stava cercando, soprattutto per poter rispondere come si deve all'altro. Anche se, a dire il vero, le parole le mancavano e di fronte al bel gesto altrui aveva ben poco da dire se non un tacito ringraziamento, che poco dopo si fece coraggio e bisbigliò, continuando a respirare profondamente. Non aveva voglia -- né il coraggio, ammettiamolo -- di riporre totale fiducia in quel ragazzo, era una mossa a dir poco avventata, ma in una situazione di emergenza come quella aveva ben poco da fare e l'unica soluzione era affidarsi all'unica persona che stava dando il meglio di sé per aiutarla. O almeno, quella era la visione forse surreale che si era fatta di lui. Un po' come un eroe che appariva soltanto nei momenti del bisogno.
    Forse la sua immaginazione si era spinta troppo il là, visto che non dava proprio l'idea di essere un eroe, somigliava più ad un normale ragazzo in vacanza studio, proveniente da chissà quale altro paese. Il giapponese lo parlava piuttosto bene, decisamente meglio di quanto potesse fare lei, ma non era il caso di analizzare la performance verbale di quel ragazzo.
    Prima che potesse dire ancora qualcosa, il corpo scosso dai sussulti di Evelyn smise, per diversi secondi, di tremare. Prima che potesse anche solo pensare di sentirsi anche un minimo tranquilla, il mondo le parve cascare sul capo, e la pressione che avvertì la portò istantaneamente a ritrovare rifugio tra le ginocchia e quell'abbraccio terrorizzato a cui si era abbandonata fino a poco prima. Sarebbe rimasta da sola, quindi? Avrebbe dovuto aspettarlo per chissà quanto tempo, fino a che non sarebbe arrivato da solo ad Arakawa -- sempre se non aveva capito male, non era facile prestare attenzione ad ogni singolo dettaglio nel bel mezzo di una crisi -- e poi ritornato con, probabilmente, i rinforzi?
    Cosa doveva spingerla a dargli fiducia? E se non fosse andato ad Arakawa, ma si fosse allontanato per chiamare la CCG? Se stesse solo fingendo di comprendere come si sentisse e di volerla aiutare--
    ... si sentiva orribile. Ora tutti i dubbi e i pensieri infelici su quella terrificante situazione erano momentaneamente mutati in umili "faccio proprio schifo". All'autocritica avrebbe potuto fare un baffo, quello era vero e proprio autodenigrarsi. Così si doveva fare, complimenti Evelyn: sempre sul pezzo!
    Non poteva, però, permettersi di abbandonarsi a quella scia di pessimismo: avrebbe preferito lottare a denti stretti, piuttosto che lasciar andare quell'unica ed improbabile scintilla di speranza. Dopotutto non ne valeva la pena: se avesse dato ascolto a quel ragazzo, c'erano probabilità che fosse una trappola e che per lei non sarebbe potuta finire bene, ma al tempo stesso poteva essere che quel ragazzo facesse sul serio, che la capisse e che volesse darle sinceramente una mano. E in tal caso si sarebbe data dell'orribile arpia senza fiducia per il resto dei suoi giorni. Mentre ripagava un eventuale debito per averle salvato la vita.
    La sua mente stava davvero viaggiando verso mondi che mai avrebbe pensato di valicare, ma era questo il brutto gioco a cui si sottoponeva senza un controllo ogni volta che aveva un crollo: non avendo controllo di molte delle sue azioni e dei propri pensieri, i voli pindarici erano parecchi, molti più di quanti si sarebbe mai potuta immaginare. Fortuna voleva che ogni volta che stava meglio era come se resettasse ogni pensiero estraneo.
    Allentò la stretta delle proprie braccia attorno alle ginocchia, allungando a tentoni una mano verso la piccola borsa di Chanel che indossava ancora a tracolla, giacente a terra e sistemata blandamente sul fianco destro; una volta raggiunta la borsa, svitò il bottone che la teneva sicuramente chiusa, intrufolando a casaccio una mano all'interno, facendovi uscire una custodia scura che aveva tutta l'aria di essere una custodia per occhiali.
    Sollevò il capo di poco dalle proprie ginocchia avvicinando il cofanetto verso il viso ed aprendolo, estraendovi un paio di occhiali da sole.
    « V-vengo anche io » aveva mormorato ancora incapace di scandire bene le parole senza lasciarsi andare ai balbettii, indossando con ambo le mani gli occhiali da sole dalla montatura piuttosto grande, lenti a goccia con un effetto ombré che dal nero sfumava in un delicato grigio chiaro, effetto che lasciava intravedere moderatamente la parte dello zigomo e l'occhiaia. Non avrebbe potuto sopportare l'essere lasciata da sola, né l'idea di doversi affidare ciecamente alle parole di quello sconosciuto. Perché, anche se all'atto pratico stava venendo aiutata, lei non aveva idea di chi fosse e con il tempo aveva imparato a diffidare di chiunque, persino dei parenti. Non avrebbe potuto dire di potersi fidare, quindi, di un totale estraneo.
    Così, piano piano, rimise la custodia all'interno della borsa e, poggiandosi con una mano a terra e l'altra contro il muro della palazzina, cominciò a rialzarsi in piedi, senza badare a recuperare, per il momento, le buste in cartone dei suoi acquisti, le gambe deboli che la sostenevano a fatica. Ce l'avrebbe fatta, poco le importava se le gambe la reggevano ben poco: aveva chiaro bisogno di trovare una soluzione al suo problema.

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    Ryoga Hasegawa
    Non era riuscito a convincerla. Non c’era niente di cui stupirsi, considerando le pietose condizioni in cui verteva. Ryoga conosceva molto bene la sensazione di disperazione del non vedere via d’uscita da una situazione di estremo pericolo: almeno per una volta poteva affermare di capire. Quando era stato il suo turno di rischiare seriamente la vita se l’era dovuta cavare da solo, perciò, forte di quei traumatici ricordi, la sua determinazione a fare qualcosa di buono per la ragazza divenne ancor più salda.
    Trasmettere il proprio stato d’animo attraverso un semplice sguardo era difficile, soprattutto quando l’interlocutore era preda di emozioni tanto violente. Ciononostante ricambiò lo sguardo che gli fu rivolto senza vacillare, con austerità.
    Il viso di lei era ridotto un disastro: il kakugan troneggiava su un miscuglio di lacrime e trucco, in quelle condizioni sarebbe stato impossibile andarsene in giro. Se non fosse riuscita a calmarsi non avrebbe avuto altra scelta che lasciarla lì, pregando di ritrovarla al ritorno.
    Ma prima che potesse rimangiarsi la domanda e raccomandarle di fare attenzione mentre lo aspettava, la ragazza parve rianimarsi e raccogliere quel tanto di coraggio che bastava a tirare fuori dalla borsa un paio di occhiali da sole, decisa ad accompagnarlo fino ad Arakawa.
    Ovviamente non si fidava al punto da mettersi nelle mani di uno sconosciuto, e come darle torto. Nessuno vorrebbe ritrovarsi aggrappato a una flebile speranza in attesa di un miracolo. Ma un paio di occhiali da sole non sarebbe mai stato abbastanza per affrontare un viaggio in metropolitana di quasi un’ora…
    Ryoga sentì sulle spalle il peso di una inevitabile sconfitta.
    Imitò i suoi gesti, raccogliendo dall’asfalto le buste prima di mettersi in piedi davanti a lei, in modo da coprirla nel caso fosse passato qualcuno. Per il momento andava tutto bene, ma presto sarebbero dovuti tornare sulla strada principale.
    «Non possiamo prendere la metro, ci scoprirebbero subito.» affermò senza mezzi termini, la situazione era troppo grave per addolcire la pillola. «Chiamerò un taxi, in auto dovremmo metterci circa venti minuti. Facciamo così, indossa questa e copri la testa...»
    L’unica soluzione che gli venne in mente fu abbassare la zip della felpa, sfilarsela e prestarla a chi ne aveva sicuramente più bisogno. Avrebbe avuto un po’ freddo con solo la camicia addosso, ma le priorità al momento erano altre.
    Se la ragazza avesse accettato la felpa, avrebbe preso dalla tasca dei pantaloni lo smartphone per prenotare un taxi, spiegandole nel frattempo il piano. «Ti porto alla Coltre delle Nubi. Si occupano di aiutare i ghoul in difficoltà, avranno sicuramente del cibo da parte...»
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Forse Evelyn non era perfettamente consapevole dei rischi che comportava seguire l'altro, del resto non riusciva a pensare razionalmente a cosa fosse giusto o meno fare in un contesto del genere. Aveva voglia di seguirlo e, per quanto si ritenesse grata del suo aiuto, aveva anche bisogno di accertarsi che fidarsi di lui sarebbe stato corretto. Non poteva permettersi errori, non in quella situazione, e per riuscire a dire di no alla proposta dell'altro doveva ammettere di essersi impegnata abbastanza per contrastare tutta la confusione che il panico ancora in corso aveva generato. Stato confusionale a parte, Evelyn aveva ben poca voglia di ritornare sui suoi passi e valutare nuovamente se fosse giusto o meno quello che aveva già deciso. Un altro flebile « grazie » fuoriuscì impercettibilmente dalle labbra martoriate dai violenti morsi di Evelyn, quantomeno era gentile. O si stava particolarmente impegnando per rendere possibile quella percezione in Evelyn.
    Il ragazzo mise il primo punto alla situazione, quindi, cancellando l'opzione metro dalla possibile scelta del mezzo di trasporto. Diceva che li avrebbero scoperti subito, e pensandoci bene in quell'istante fu piuttosto evidente fosse una scelta saggia. Evelyn non ci era arrivata, doveva ammetterlo.
    Rimase comunque in silenzio, senza proferire alcuna parola, cercando di sorreggersi sulle sue gambe, senza contare sul contributo del muro, anche per valutare quanto fosse effettivamente stabile per effettuare un qualsivoglia spostamento; le gambe continuavano a tremare, comunque, e ciò definiva poca stabilità ed equilibrio. Le fu chiaro in pochi istanti che muoversi sarebbe stato parecchio difficile, oltre che estenuante per il suo fisico già provato dal panico e dalla fame.
    Cercò di non farci caso, piuttosto concentrandosi su quanto avesse da dire il biondo: annuì, flemmatica, cercando di recuperare le borse dalle mani altrui, che le aveva raccolte per lei. Prima che potesse comunque farlo, Ryoga le illustrò le sue intenzioni: un taxi era sicuramente la via più sicura per affrontare un viaggetto da Minato ad Arakawa, perciò non obiettò in quanto fu piuttosto d'accordo. Rimase, però, sorpresa del suo offrirle la felpa per coprirsi. Non si aspettava ci tenesse tanto a corprirla e a non farla riconoscere da nessuno e ciò, per quanto ancora diffidente, le permise di abbassare un minimo la guardia, reputandolo almeno un po' più degno di fiducia di quanto fosse il suo pensiero fino a poco prima. Cercò di azzardare un sorriso, un po' titubante, accettandò la felpa altrui e, barcollando un po', mettendosela sopra le spalle, sistemando il cappuccio sopra il capo, coprendo la frangia e parte degli occhiali, mantenendo lo sguardo basso per nascondere quanto più le era possibile i propri occhi ancora vittime del kakugan.
    Eppure non aveva modo di stare tranquilla, non del tutto: la proposta definitiva di Ryoga era quella di portarla alla Coltre delle Nubi. Il nome le era familiare, ma non fu quello il vero problema, piuttosto il suo aver parlato di cibo. Desiderava cibo, quello era piuttosto evidente, ma la sola idea la fece paralizzare. Strinse istintivamente le mani in pugni saldi, pugni che avevano intrappolato i lembi scialbi dei pantaloni stropicciati, abbassando maggiormente il volto al suolo. Se i tremori prima erano concentrati solamente sulle gambe, dopo la "terribile" notizia questi avevano coinvolto anche le braccia e le spalle divennero incontrollabilmente rigide. Aveva paura, non voleva realmente mangiare-- chissà chi erano quelle persone. Per quanto fosse l'unico modo, il fatto che si trattasse di persone non riusciva a fare spazio alla ragione: ogni briciolo di buonsenso sembrava starla abbandonando lentamente, lasciandola in uno stato di confusione forse maggiore rispetto a quanto era precedentemente.
    Cercò di contrastare quei pensieri e il suo costante vacillare: l'unica via fuori da quella spinosa situazione era riuscire a mangiare qualcosa. Le era già capitato, aveva già mangiato prima di allora, ne era consapevole. Con conseguenti conati di vomito e sensi di colpa terribili, ma lo aveva fatto per sopravvivere. Doveva solo convincersi definitivamente che quella era l'unica soluzione che aveva per ritenersi salva. Con qualche problemino ed un nuovo trauma da collezionare e tenere nascosto dentro di sé.
    « E' l'unico m-modo... è l-l'unico modo. »
    Non si era per nulla accorta di averlo pronunciato a voce, tanto era scossa. Però stava facendo uno sforzo immane per convincersene e, quindi, seguire definitivamente l'altro. Doveva farlo, se voleva salvarsi.

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    Ryoga Hasegawa
    Non c’era molto altro da analizzare in quella situazione, se non constatare che, fortunatamente, la ragazza sembrava in grado di reggersi in piedi senza attirare troppo l’attenzione. Sarebbe stato piuttosto problematico andarsene in giro con una persona a stento in grado di camminare.
    Nonostante le loro possibilità di farcela fossero aumentate, Ryoga non riusciva a calmare l’inevitabile e profonda ansia che risaliva dallo stomaco e irrigidiva gli arti. Sentiva il bisogno di muoversi, di guardarsi continuamente intorno per accertarsi nessuno li vedesse, ma non poteva: sarebbe stato come piantarsi una bella bandiera rossa sulla testa.
    Per il bene di entrambi doveva mantenere la calma, dare l’impressione di avere la situazione sotto controllo e convincere la ragazza che sarebbe andato tutto bene. E comunque sarebbe davvero andato tutto bene, sua madre e sua sorella lo aspettavano.
    Con una pressione sul pulsante Conferma prenotò il taxi, che, stando alla app, sarebbe stato lì in quattro minuti. Bene, avevano giusto il tempo di prepararsi adeguatamente e tornare sulla strada principale.
    Ryoga ripose lo smartphone in tasca e riportò la sua attenzione sulla ragazza. Avrebbe sbrigato delle frettolose presentazioni se non avesse colto quel quasi impercettibile movimento delle labbra, che sembravano ripetere la stessa frase più volte.
    È l’unico modo.
    Non conoscendo le problematiche personali della giovane, diede per scontato che si riferisse all’andare alla Coltre delle Nubi. Che avesse qualche remora in proposito? Beh, anche se così fosse stato avrebbe dovuto mettere tutto da parte, non era nelle condizioni di poter decidere. L’alternativa era cacciare senza maschera, ben più pericoloso nonostante l’ora abbastanza tarda.
    Doveva distrarla, perdersi nelle considerazioni personali, specialmente dando loro voce, era rischioso e avrebbe potuto spingerla a isolarsi.
    «Mi chiamo Ryoga.» procedette dunque. «So che non è facile affidarsi a qualcun altro, ma che ti piaccia o no ti aiuterò a uscire da questa situazione. Tu cerca solo di fare del tuo meglio per non attirare l’attenzione, okay?»
    Avrebbe atteso una reazione, una qualunque reazione per assicurarsi che la ragazza fosse del tutto cosciente della situazione in cui si trovava, prima di stendere il braccio destro nella sua direzione per invitarla a procedere, senza però osare più di sfiorare il tessuto della felpa.
    «Il taxi sarà qui a momenti, dobbiamo tornare indietro.»
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Il limbo nel quale stava sprofondando era buio, umido, terribilmente spaventoso e lugubre. Si stava abbandonando a troppe sensazioni sbagliate, pensieri negativi uno dietro l'altro che facevano capolino ogni frazione di secondo, non dando spazio ad Evelyn di avere una singola certezza. La paura la stava inghiottendo, più di quanto le fitte allo stomaco non stessero già facendo. Forse erano quasi più gestibili quelle dei pensieri che le scorrevano in testa con la stessa velocità di un treno ad alta velocità.
    La sua attenzione venne comunque richiamata dal ragazzo. Diceva di chiamarsi Ryoga-- quindi era giapponese? Non avrebbe scommesso un singolo centesimo, i capelli biondi sembravano davvero naturali. E non aveva nemmeno fatto caso a quanto chiari fossero i suoi occhi, troppo presa a pensare alla sua vita e a se stessa per poterci realmente prestare attenzione. Scostò lo sguardo dall'asfalto per puntarlo su di Ryoga, facendosi coraggio; deglutì a vuoto, percependo la gola talmente secca che la propria saliva sembrava più cartapesta che un liquido. Quella sensazione di ruvido e bruciore le fece storcere il naso ed aggrottare le sopracciglia in una smorfia di dolore, che sciolse e distese dopo qualche istante.
    « E-Evelyn » bisbigliò, cercando di prendere coraggio. La voce era, purtroppo, spezzata dalla secchezza della propria gola, che l'aveva fatta sembrare rauca. Diede qualche colpo di tosse, leggero, parandosi la bocca con la mano sinistra, per potersi schiarire la voce. Avrebbe dovuto seguire Ryoga ed arrendersi all'unica soluzione che le era stata posta davanti. Era l'unica cosa che poteva fare se voleva continuare a vivere la sua vita e permettere che tutto l'incubo che stava ancora vivendo appartenesse soltanto ai propri ricordi più brutti. Annuì piuttosto lentamente alle istruzioni ricevute da Ryoga in merito a come procedere per raggiungere Arakawa in tutta sicurezza. Doveva solo impegnarsi a fondo per non dare nell'occhio, giusto? Non era facile, ma ci avrebbe provato. Ne andava della loro sicurezza, dopotutto.
    « Okay... grazie » mormorò ancora, dando una breve occhiata al braccio destro del ragazzo e decidendo quindi, una volta recuperate pian piano le borse dei suoi acquisti, di muovere qualche passo verso l'uscita del vicolo buio e sporco nel quale aveva trovato rifugio.
    Ryoga stava dimostrando ogni secondo di più quanto fosse realmente disposto ad aiutarla, ed Evelyn si stava sentendo in colpa per la diffidenza dimostrata. Diffidenza che, a dirla tutta, ancora non l'abbandonava. Avrebbe dimostrato ogni briciolo di riconoscenza una volta che si sarebbe accertata che le sue intenzioni erano reali, molto più di quanto dimostrato fino ad ora. Non poteva, per nessuna ragione al mondo, permettersi di fidarsi ed affidarsi al cento percento a lui, le era stato insegnato così.
    Raggiungendo la strada, mantenendo lo sguardo basso e cercando di barcollare il meno possibile -- cosa che, purtroppo, era accentuata dai tacchi che indossava, nonostante fossero piuttosto bassi --, una macchina passò davanti ad entrambi: aveva troppa paura per alzare lo sguardo, quindi l'unica cosa che vide furono le ruote e i cerchioni. Scostò di poco il viso verso la propria destra, alla ricerca di una conferma da Ryoga, prima di fare qualsiasi mossa avventata.

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    Ryoga Hasegawa
    Evelyn?
    In effetti non avrebbe detto che fosse straniera, non con quella corporatura esile, la pelle pallida e i capelli nerissimi e lisci; sembrava semmai una normalissima ragazza giapponese con la singolarità di occhi dalla forma piuttosto occidentale. O forse lo era davvero, giapponese, ma con dei genitori particolarmente eccentrici? Ma poi, chi era lui per parlare? Abbonato alla definizione di gaijin - e di conseguenza al trattamento ad essi riservato - sarebbe stato ipocrita da parte di Ryoga cambiare improvvisamente idea su qualcuno solo perché la forma mentis giapponese era alquanto chiusa nei confronti del resto del mondo.
    «Ringraziami quando saremo al sicuro, Evelyn.» nonostante il sorriso bonario che le indirizzò, il tentativo di smorzare la tensione sarebbe miseramente sfociato in una magra figura nel momento in cui tentò di pronunciare il nome della ragazza.
    Ed eccola, la prova incontestabile dell’essere giapponese di Ryoga: il bel nome di Evelyn era diventato un pastrocchio di lettere dal sapore di compressa per il mal di stomaco. La parentesi presentazioni fu fortunatamente chiusa in fretta, prima che Ryoga avesse ulteriore tempo di affossare il morale già basso di Evelyn.
    Il taxi rispettò la tabella di marcia, fermandosi poco distante da loro con addirittura un minuto di anticipo. Prima però di aprire la portiera o dare un qualunque segnale ad Evelyn, Ryoga allungò lo sguardo sul conducente.
    Un uomo avanti con l’età, stempiato e palesemente annoiato ricambiò il suo sguardo discreto, riconoscendo in loro due probabili gaijin in cerca di un taxi, lo salutò in maniera cortese chinando la testa e, infine, si mise a trafficare con la radio.
    Ryoga approfittò al volo della situazione per bisbigliare alla vicina Evelyn «Evita di parlare, cercherò di attirare l’attenzione.» dopodiché aprì la portiera e la invitò a salire.
    Si sarebbe seduto per ultimo, chiudendo lo sportello prima di sporgersi leggermente tra i sedili con un sorriso di circostanza che andava da un orecchio all’altro.
    «Buonasera!» esordì, ricevendo in cambio un saluto meno entusiasta ma professionale. «Siamo diretti ad Arakawa, l’indirizzo è...»
    Se il suo piano avesse funzionato, la sua faccia da gaijin avrebbe occupato per gran parte del viaggio lo specchietto retrovisore e l’attenzione del conducente. Sperava solo che l’odore della carne in un abitacolo tanto piccolo e chiuso non mandasse in tilt Evelyn.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Una fulminea constatazione che di fronte a lei aveva un vero e proprio giapponese, non solo di nome, ma dalla pronuncia del suo nome, estremamente "giapponese". Non era in vena di sorridere, scherzare o ridere, ma per un istante le ricordò come sua nonna pronunciava il suo nome i primi mesi di convivenza. Ciononostante aveva poco tempo per pensare alla pronuncia del proprio nome: la fame non lasciava spazio al suo intenerirsi, né al suo essere nostalgica e a far riaffiorare ricordi di un passato già piuttosto lontano. Però pensare a qualcosa di bello e un minimo positivo poteva, forse, aiutarla a mantenere la calma e a non impazzire. Il contributo di Ryoga già stava facendo il suo effetto: non era nel migliore degli stati, ma già aveva smesso di piangere, pur rimanendo piuttosto rigida di fronte all'idea di doversi, purtroppo, arrendere a quella fame che le lacerava lo stomaco e la stava facendo impazzire. Si voleva davvero del male per costringersi a digiuni così lunghi e forse doveva dar più ascolto alle ramanzine di Sumire, che si impegnava davvero tanto per procacciarle il cibo di cui necessitava.
    Ryoga, comunque, le confermò che l'auto appostatasi poco distante da loro era proprio il taxi che aveva "chiamato" poco prima: si scostò per accertarsene, ma poco dopo si riavvicinò a lei per bisbigliarle le sue direttive. Doveva solo mantenersi silenziosa, mantenere lo sguardo basso, non comunicare né fare nulla di avventato che avrebbe potuto esporla. Lo capiva. Non avrebbe fiatato, quindi: si stava davvero affidando a Ryoga, più di quanto avrebbe mai potuto credere possibile. Non ancora del tutto fiduciosa e piuttosto diffidente, si fece accompagnare all'auto, ringraziando il biondo con un flebile cenno del capo, prima di infilarsi nell'auto, sistemandosi sul sedile posteriore situato proprio dietro il sedile del guidatore. Tentò di non alzare di troppo lo sguardo, ma cercò di scorgere con la coda dell'occhio quanto stava facendo Ryoga: una volta entrato nell'auto, si sporse con il volto tra i sedili, ingaggiando una conversazione con il tassista. Evelyn si abbandonò sul sedile, cercando di resistere alla voglia di saltar addosso all'autista e divorarlo: lo stomaco le faceva male, tanto da ritrovarsi costretta a stringere i denti tra loro, affondandoli di tanto in tanto nelle labbra, non preoccupandosi di lacerarle ulteriormente, nonostante fossero già più che martoriate. Avrebbe evitato le foto per un po', oltre che a prendersene cura minuziosamente-- come se questo fosse un problema importante sul quale impegnarsi per trovare una qualche soluzione. Eppure pensare ad altro che non riguardasse direttamente la sua fame sembrava, in parte, aiutarla a stare calma e a non diventare preda della pazzia. Decise, quindi, di affidarsi totalmente a Ryoga: più scorreva il tempo, più le sembrava darle maggiori prove a testimonianza del fatto che di lui, in un modo o in un altro, poteva fidarsi. In cuor suo stava sperando di non starsi sbagliando.

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    Ryoga Hasegawa
    La tensione si tagliava col coltello. Non era la prima volta che gli capitava di trovarsi in una circostanza metaforicamente e non claustrofobica, la sua vita era costellata di occasioni in cui si era sentito mancare l’aria, a cominciare dalla notte in cui suo padre era venuto a mancare.
    Ad essere sotto pressione, di conseguenza, Ryoga era abituato; con la pelle d’oca solcata da brividi, il mal di testa pressante e una sensazione di calura che non sapeva come dissipare, manteneva la sua faccia di bronzo intatta, sorridendo e scoccando occhiate a destra e a manca a ogni nuova svolta.
    Si era proprio calato nella parte del turista idiota, per quanto la parlata impeccabile attestasse la sua nazionalità giapponese senza lasciar spazio al dubbio; forse però poteva passare per un mezzo giapponese che visita la capitale per la prima volta.
    L’importante era che gli occhi del guidatore si staccassero dalla strada solo per posarsi con crescente fastidio sull’idiota che gli ostruiva la visuale.
    L’importante era che Evelyn passasse inosservata come un fantasma.
    Oltre alla propria, Ryoga sentiva anche la sua, di agitazione. Sin da bambino aveva esternato una spiccata empatia, finendo puntualmente per essere contagiato dalle emozioni altrui al punto di non saperle più distinguere dalle proprie; in quel caso non aveva però bisogno di nessun sesto senso per sapere quanto la povera ragazza alle sue spalle stesse soffrendo in silenzio.
    Come diavolo si era ridotta in quello stato? Avrebbe avuto tutto il diritto di chiederlo più tardi, ma prima dovevano arrivare ad Arakawa.
    Il tragitto fu eternamente lungo, almeno per Ryoga: venti minuti durante cui dovette sforzarsi di fare conversazione, anche a costo di chiedere informazioni su luoghi che conosceva come le sue tasche. Attraversarono i territori della CCG, quelli dove normalmente non avrebbe mai messo piede, sfrecciando su strade per fortuna quasi deserte per ben venticinque minuti prima che il taxi si fermasse all’indirizzo dato dal chiacchierone biondo, che continuò a ringraziare per il passaggio e la chiacchierata finché la portiera non fu aperta.
    Avrebbe fatto scendere per prima Evelyn, dopodiché l’avrebbe seguita. Attese che l’auto ripartisse prima di tirare un sospiro di sollievo e rivolgersi alla ragazza, cercando di incrociare il suo sguardo.
    «Siamo quasi arrivati. Ce la fai?»
    Chiaramente non aveva dato un indirizzo troppo preciso, ma erano vicini al Sunrise.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Quel viaggio fu una vera a propria tortura: tentava di non tremare, si mordeva le labbra per trattenersi dall'attaccare l'autista, stringeva il tessuto dei propri pantaloni tra le mani che, purtroppo, sfogavano parte dei tremolii che scuotevano tutto il suo corpo, assieme ai piedi che, ogni tanto, battevano debolmente contro la pavimentazione del veicolo. Ryoga si stava impegnando ad intrattenere una conversazione con il tassista, che sembrava rispondergli piuttosto annoiato e più per cortesia che per reale interesse. Si sentiva molto più al sicuro di quanto avrebbe creduto, nonostante il supplizio nel quale si stava riversando, tentando disperatamente di non impazzire con l'odore di carne fresca che le raggiungeva il naso. Non poteva mordere la persona che li stava aiutando a raggiungere il luogo che le avrebbe permesso di dar sfogo alla sua fame e di cibarsi di... una persona. Ryoga stava compiendo incredibili sforzi per aiutarla, non poteva far finire il tutto in tragedia, non avrebbe mandato a quel paese i tentativi del biondo, anche se le costava parte della sanità mentale rimastale, per trattenersi da qualsiasi tipo di azzardo.
    Una tortura durata venticinque minuti circa, venticinque minuti che ad Evelyn erano sembrati un'eternità: il tempo trascorso all'interno della vettura pareva infinito, così tanto che per poco non scoppiò a piangere. Prima che potesse versare ulteriori lacrime e disperarsi, finendo vittima della sua stessa pazzia, il taxi si fermò: questo significava che erano sempre più vicini, che finalmente avrebbe potuto porre fine a tutta la sofferenza che, purtroppo, si era autoinflitta. Non avrebbe mai voluto fare nulla del genere, ma non aveva scelta. L'alternativa era finire sbattuta a Cochlea, e sinceramente voleva evitare di perdere la sua immagine, la sua libertà, la sua vita. Tutto perché era nata nella famiglia sbagliata.
    Scese dall'auto sotto invito di Ryoga, attendendo che anche il ragazzo facesse lo stesso, prima di osservare l'auto allontanarsi, con sguardo particolarmente assente. Venne riportata alla realtà dalle parole di Ryoga, che le chiese gentilmente se ce la facesse a proseguire.
    « » pronunciò flebilmente, accompagnando la conferma con un leggero cenno del capo, ricambiando distrattamente lo sguardo che le era stato rivolto, prima di rivolgere il volto verso il terreno, incapace di mantenere un contatto visivo con il ragazzo. Quantomeno aveva cominciato a camminare verso la loro destinazione, sperando mancasse poco. Sentiva che mancava davvero poco al suo impazzire definitivo, perciò sperò davvero che il luogo designato distasse davvero poco da dove si trovavano in quel momento.

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