For every good wish, I make myself dirty.

[CONCLUSA] Evelyn Tiffany Applegarth & Ryoga Hasegawa @ streets | 22/05/2020 dalle 17:20

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    Ryoga Hasegawa
    L’Arakawa notturna era esattamente come la maggior parte delle altre zone di Tokyo: sveglia, come se l’alternanza giorno-notte nella megalopoli giapponese fosse una mera questione di quantità di luce senza alcuna altra implicazione.
    Fortunatamente si trattava di una circoscrizione già di norma meno frequentata rispetto a quelle da lui bazzicate di solito, ma Ryoga era dell’idea che l’attenzione non era mai troppa quando si trattava di andare a reclamare brandelli di carne umana. Stavolta quindi non ebbe remore nel guardarsi attentamente attorno, scrutando intensamente i dintorni rischiarati dai lampioni fin dove la vista riusciva a spingersi: qualche pedone attraversava la strada a passo di marcia, testa bassa e mani ben strette intorno alle borse, sperando di non imbattersi nei tipi loschi che a quell’ora cominciavano a uscire dalle loro fogne, le finestre delle case erano ancora quasi tutte illuminate e le auto sfrecciavano con la fretta di chi ha un incontro serale di lavoro o la cena a riscaldare in forno. Poco distante, la voce di un bambino capriccioso infastidiva un cane che abbaiava come un forsennato.
    Sebbene stesse facendo del suo meglio per resistere, Evelyn era tutt’altro che indistruttibile e sempre più sull’orlo di una visibile crisi di nervi. Se non fosse stato parte della Coltre delle Nubi, Ryoga sarebbe rimasto sbalordito dalle condizioni in cui si era ridotta, ma purtroppo non era la prima volta che vedeva un ghoul ad un passo dall’azzannare alla gola il primo sciagurato di turno. C’erano così tanti motivi per cui potevano ritrovarsi a trascinarsi per strada senza neanche ragionare…
    Ma non era quello il caso, erano troppo vicini per mandare tutto a monte: la Coltre avrebbe sicuramente messo fine a quell’incubo.
    «Perdonami, ma è solo per una questione di sicurezza.» disse, un attimo prima di avvolgere la mano destra intorno al braccio di Evelyn appena sopra la piega del gomito, cercando di non stringere né starle più vicino del necessario.
    Era troppo traballante e troppo visibilmente al limite, voleva solo la sicurezza di poterla sostenere se le gambe di lei avessero ceduto o immobilizzarla nel caso in cui fosse partita all’attacco.
    Se Evelyn glielo avesse permesso, avrebbe a quel punto continuato la sua marcia fino a raggiungere una via parallela al Sunrise; pur essendo nel pieno dell’emergenza era meglio non svelare il coinvolgimento del locale a una perfetta sconosciuta, le avrebbe chiesto di aspettarlo lì mentre lui si faceva consegnare la carne.
    «Dammi un momento.» si fermò nello spazio tra due palazzi, una stradina non troppo diversa da quella in cui si erano incontrati, e tirò fuori dalla tasca lo smartphone per comporre rapidamente un numero. «Sono Hasegawa. Scusa l’ora ma ho un’emergenza, puoi farmi trovare una cena per uno? Sarò lì in due minuti.»
    Ecco, parlare in codice era una delle cose che gli riuscivano più difficili. Ryoga non era la persona più intelligente del mondo.
    Intascò il telefono, rivolgendosi di nuovo ad Evelyn. «Stavolta devi aspettarmi qui, ci sono dei protocolli che devo seguire. Mancherò al massimo cinque minuti.»
    Lasciare a piede libero una mina vagante gli causava un nodo alla gola, ma non aveva scelta.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Evelyn non era molto presente con la testa per accorgersi di come fosse Arakawa quella notte: sentiva il vociare in lontananza, vociare che le faceva salire brividi incontrollabili lungo la spina dorsale, senza che potesse fare molto per evitarli. Udiva un cane abbaiare ed un ragazzino rispondergli a tono, sentiva le auto sfrecciare, le luci dei fari abbagliarle la vista, il tutto mentre Ryoga le faceva strada e si premurava di, probabilmente, tenerla sotto controllo stringendola con un braccio. Fosse stata più in sé probabilmente quel gesto l'avrebbe spiazzata, ma era più di là che di qua in quel frangente ed era difficile per lei mostrare emozioni del tutto umane. In quel momento, dopotutto, più di tanto umana non era. Lasciò quindi che il braccio altrui le cingesse il corpo fragile e tremacchiante, mentre tentava di mantenere una parvenza di sanità camminando un po' barcollante su quei décolleté che aveva deciso di indossare quel giorno, giochicchiando distrattamente con le dita delle mani per tenersi occupata. Il volto non guardava mai dritto dinanzi a sé, piuttosto rifletteva lo sguardo verso il cemento scuro e leggermente umido, lasciando che qualche ciocca di capelli scivolasse in avanti ed oscurasse maggiormento il volto deturpato dall'angoscia, la disperazione, la paura e la fame. Gli occhi ancora coperti dagli occhiali da sole non cennavano a tornare normali, facendo sì che, se mai qualcuno fosse passato troppo vicino a loro, potesse effettivamente domandarsi per quale motivo, con il calar del sole, Evelyn indossasse ancora un paio di occhiali. Non era qualcosa che in una situazione del genere poteva pensare, dopotutto, era l'unico modo per nascondere il kakugan. Dopo un po' di camminata, raggiunsero un posto leggermente più appartato, lontano da occhi indiscreti: Ryoga parlò al telefono con qualcuno, senza essere troppo esplicito, ma per lei era già tanto se era riuscita a mettere insieme i vari pezzi di ciò che aveva detto per comprendere totalmente quanto avesse comunicato a chi gli aveva risposto.
    Dopo un breve tempo, le rivolse nuovamente parola. Realizzare di dover rimanere sola, anche solo per un breve tempo, le fece accapponare la pelle, ma se era l'unico modo per risolvere quel che stava passando, non aveva alternative. Il volto si abbassò nuovamente verso l'asfalto, poggiò la schiena contro il muro di uno dei palazzi tra i quali si erano infilati e, senza badar troppo al terreno, scivolò verso il basso, fino a che il sedere non toccò terra. Strinse nuovamente le gambe al petto, abbracciandole, ma prima di sprofondare con la testa tra di esse, scosse leggermente il capo, annuendo. Avrebbe dovuto farlo, non poteva rifiutarsi. Cinque minuti sarebbero passati in fretta, no? Se voleva riabbracciare nonna Kasumi, avrebbe dovuto resistere. Tanto chi si sarebbe inoltrato in un vicolo buio e un po' sudicio? Di questi tempi persino lei aveva poco di cui fidarsi, sicuramente non l'avrebbe fatto qualcuno potenzialmente più in pericolo. L'avrebbe, dunque, lasciato fare: avrebbe resistito, ad ogni costo.

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    Ryoga Hasegawa
    Vedere Evelyn ridotta in quel modo era doloroso. Non la conosceva, vero, ma Ryoga non poté fare a meno di sentirsi terribilmente in colpa quando l’espressione sul suo viso si incupì, colmandosi dell’amara consapevolezza di non avere altra scelta che affidarsi a lui, che per quanto avesse dimostrato le sue buone intenzioni rimaneva pur sempre uno sconosciuto. Evelyn si rimpicciolì contro il muro, scivolando fino a sedersi per terra e rannicchiarsi in posizione fetale. Esattamente come lui l’aveva trovata neanche mezz’ora prima, solo in una strada diversa.
    Sì, vederla ridotta in quel modo era davvero doloroso.
    Ryoga si sedette sui talloni, stendendo le braccia per stringere le mani intorno le spalle della ghoul. «Un ultimo sforzo, Evelyn. Sarò immediatamente di ritorno.» volle prometterle, benché non fosse affatto sicuro che l’avesse anche solo sentito, non sembrava più neanche in grado di rispondere.
    Dopo di ciò si rimise in piedi e con passo svelto si allontanò lungo la via scarsamente illuminata, percorrendo il perimetro di un paio di blocchi di palazzi prima di raggiungere il retro del Sunrise. Durante l’ultimo tratto, quasi la lontananza crescesse in concomitanza con la sua paura di trovare il peggior scenario al ritorno, Ryoga accelerò ulteriormente il passo arrivando in pratica a correre.
    Ad attenderlo c’erano una persona fidata, una razione di cibo per una sola persona e tante domande che fu costretto a rimandare, spiegando in maniera sommaria che aveva in corso un’emergenza che non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscito a contenere.
    Fortunatamente alla Coltre erano comprensivi e pazienti e così, con la carne accuratamente incartata nascosta sotto la maglietta, finalmente poté tornare da Evelyn vittorioso.

    «Sono qui!»
    Sì, come prevedibile aveva ceduto alla paranoia e corso per tutto il ritorno; perlomeno l’intera operazione era durata circa cinque minuti, era stato di parola. Per poco non arrivò in scivolata, il sacchetto di plastica con dentro il cibo incartato già in mano, pronto ad essere consegnato alla ragazza.
    «So che sarà difficile, ma cerca di essere discreta.»
    Si sedette di nuovo sui talloni, disposto anche ad aiutarla a sfamarsi se non ne fosse stata in grado da sola; in caso contrario si sarebbe rimesso in piedi davanti a lei, così da coprirla nel caso qualcuno fosse passato nelle strade adiacenti allungando su di loro lo sguardo. L’orario e la locazione erano piuttosto sicuri, ma per sicurezza avrebbe fatto da palo finché Evelyn non si fosse sfamata.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Annuì impercettibilmente di fronte a quelle che sembravano essere parole di conforto: ancora non era del tutto andata, ancora riusciva a percepire le cose attorno a sé, ma si sentiva fiacca, stanca, sull'orlo di un'imminente crisi incontrollabile. Cercava disperatamente di stringere il più possibile la presa attorno alle gambe, le proprie mano stringevano ferocemente lembi di stoffa dei pantaloni, aggrappandosi disperatamente a quegli arti, affondando le mani nelle pieghe create dal piegarsi delle ginocchia. Poi lo sentì muovere i passi lontano da lei. Camminava e si allontanava, il suono dei suoi passi era sempre più distante, soffuso, fino a che non scomparve avvolto nel silenzio.
    Quel silenzio era dannatamente rumoroso, era ricolmo di quelle urla che rimanevano nella testa di Evelyn ma che avrebbe esternato da un momento all'altro, se solo il suo autocontrollo non fosse incredibilmente alto. Erano anni che faceva quella vita malata, alla stregua di un insostenibile digiuno auto-inflittosi come se dovesse espiare chissà quali grandi peccati. Oramai, per quanto instabile, era abituata a contorcersi dal dolore dell'astinenza, senza emettere un suono oltre ai singhiozzi di un pianto, che rappresentava per lei l'unica reale valvola di sfogo.
    Furono i cinque minuti più lunghi della sua vita. Le urla interne martellavano nella sua testa come se non ci fosse un domani e la costringevano a sopportare qualcosa che andava ben oltre il semplice dolore. Faceva male, aveva voglia di affondare le dita nella propria carne e strapparsi via lo stomaco con violenza, come se quel gesto sarebbe servito e bastato a dissipare quell'insopportabile voglia di trangugiare carne umana.
    E quando avvertì dei passi avvicinarsi, portando con sé l'odore di carne, in quel momento avrebbe voluto alzarsi di scatto e fiondarsi laddove sentiva provenire quel terribilmente delizioso odore. Non seppe nemmeno dire come riuscì a trattenersi dall'aggredire il suo salvatore, ma non si fece scrupoli nell'alzare il volto, lasciando che gli occhiali bagnati dalle sue stesse lacrime scivolassero docilmente lungo il ponte del naso, mostrando in parte gli occhi. Ryoga le disse di essere discreta e di fronte a quelle parole ingoiò a vuoto. Essere discreta quando il suo palato e il suo stomaco non assaporavano il soave gusto di carne umana da fin troppo tempo? Sarebbe stato difficile, ma ci avrebbe provato.
    Il volto di Evelyn era segnato dal desiderio di affondare i denti in quella carne. Al tempo stesso, però, gli occhi mostravano quanto tutto quello la stesse spaventando. Eppure, nonostante lo sguardo fosse titubante, le mani avevano già preso ad allungarsi verso la figura altrui, attendendo con ansia di avere tra le mani quello che l'avrebbe sicuramente aiutata a sfamarsi almeno un po'. Quando finalmente la carne era tra le sue mani, la scartò quanto più lentamente riuscì, ma non si trattenne più di tanto. E quando la vide, lì, davanti a sé, non potè fare a meno di azzannarla, infischiandosene del sangue che sarebbe colato ai lati della bocca, e che le avrebbe, con ogni probabilità, sporcato i vestiti. Cercò di darsi un contegno, ma era terribilmente difficile: più saggiava di quella carne, più desiderava continuare. Il pensiero, però, di quello che stava facendo si sovrappose irrimediabilmente alla gioia di star mangiando dopo tanto tempo. Le ennesime lacrime fuoriuscirono dagli occhi rossi di Evelyn, che strizzò come per evitare che continuassero ad uscire. Non ce la faceva. Avrebbe voluto gettare via quel pezzo di carne, ma era sempre meglio di aggredire qualcuno, quindi lo tenne stretto a sé, mentre i propri denti strappavano via, rozzamente, la carne. Il sollievo piano piano sembrava stesse arrivando... lo avrebbe davvero ringraziato come si doveva, una volta calmatasi da quelle emozioni contrastanti nelle quali ancora si crogiolava.

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    Ryoga Hasegawa
    Seppe di essere arrivato al momento giusto quando Evelyn alzò la testa, gli occhiali a scivolare sul ponte del naso rivelando le sclere nere che sarebbero valse a entrambi una sentenza di morte se fossero stati scoperti. Era visibilmente sull’orlo dell’abisso, con ogni probabilità il conto alla rovescia del suo autocontrollo vicinissimo allo zero; se avesse tardato, forse non sarebbe stato così fortunato da trovarla ancora lì, accartocciata su se stessa come spazzatura.
    Raccomandarle di essere discreta probabilmente non sarebbe servito a granché - la fame che le leggeva negli occhi non gli era sconosciuta -, ma in assenza di un posto più appartato per consumare quel pasto fuori dal comune dovevano restare vigili.
    Per quanto avesse finora giocato a fare l’eroe, Ryoga non ci avrebbe messo la mano sul fuoco che, se la CCG li avesse beccati, i suoi piedi non sarebbero stati più celeri del cervello a decidere cosa fare. E, come prevedibile, nei minuti impiegati da Evelyn per rifocillarsi lui sprofondò di nuovo nella sua ormai familiare paranoia fatta di occhiate furtive e simulazione di un atteggiamento rilassato che era quanto di più lungi dal suo reale stato emotivo. Appoggiato di spalle al muro, una gamba piegata all’indietro fino a sfiorare con la suola della scarpa destra l’angolo tra l’asfalto e i mattoni e le mani in tasca, preferiva essere scambiato per un delinquente che fa le ore piccole piuttosto che per un ghoul.
    E questo la diceva lunga, lunghissima sulla condizione di quelli come lui. Come Evelyn.
    Che mondo orrendo.
    «Meglio?» provò sottovoce a richiamare l’attenzione di Evelyn ad un certo punto, dopo essersi accertato che avesse quasi finito di mangiare.
    Il sangue le macchiava le mani e il viso compromettendo la loro copertura. Pensare che avrebbero dovuto occuparsi anche di questo prima di tornare a casa gli gelò il sangue nelle vene, un lungo brivido risalì la spina dorsale, portandolo a chiedersi perché diamine si fosse messo in quella situazione tanto difficile - domanda stupida, sapeva benissimo di essere troppo buono per non allungare una mano verso chi aveva bisogno di rialzarsi.
    “Te la sei andata a cercare.” si rimproverò da solo mentre traeva un sospiro rassegnato.
    Accidenti a lui.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Il suo corpo e la sua mente erano completamente focalizzati sul suo pasto, la figura del ragazzo sembrava essere totalmente svanita, spostandosi oltre il banalissimo secondo piano. Avrebbe dovuto ringraziarlo come si doveva, poi, per quel grandissimo favore che le aveva fatto, ma in quel momento era tra gli ultimi pensieri che occupavano la sua mente. Si sentiva più tranquilla e rilassata, il pensiero di star finalmente affondando i denti nella carne di qualcuno era quanto di più bello ci fosse per le-- no, per il suo stomaco. Perché la felicità che provava era direttamente proporzionale alla contentezza del proprio stomaco, che sembrava essere in totale distacco dai pensieri di Evelyn, che per tutto quel tempo si era schifata, denigrata e ridotta ad uno stato tale da finire molto più frequentemente di quanto pensasse in quelle condizioni. Era debole, fragile ed estremamente vulnerabile. La sua mente era drasticamente divisa in due: da un lato c'era il sollievo di potersi rifocillare, dall'altro vi era una cascata di pensieri che la facevano sentire sbagliata, mostruosa, disumana. Si domandava cos'avesse fatto nella sua vita passata per meritarsi una vita di stenti e deliri come quella che viveva ora. Alla luce del sole sembrava che la sua vita fosse perfetta, viveva in una bellissima casa con due splendidi nonni a volerle bene molto più di quanto potessero fare due genitori, aveva tutto ciò che poteva desiderare ed era invidiata da molti. Ma avere i soldi, un bell'aspetto ed una vita agiata erano insignificanti se si doveva scavare in fondo e vivere una vita fatta di terrore, insicurezze e dolore. Un dolore che nasceva dalla non accettazione di sé, un dolore che la pitturava come il mostro che non avrebbe voluto essere e che, invece, era costretta ad essere.
    Vivere come un ghoul era difficile e per nulla invidiabile, e faceva a pugni con la vita apparentemente perfetta che aveva Evelyn. Se fino ad un momento prima sembrava si stesse gustando il cibo che Ryoga le aveva portato, poco le ci volle prima che altre lacrime le solcassero il viso, mescolandosi con il sangue che le aveva macchiato parte delle guance e i lati della bocca. Le mani si strinsero attorno alla carta nel quale era avvolta la carne che le era stata portata, accartocciandola ed infine strappandola, involontariamente. Abbassò il viso, mentre con la carta cercava di pulire via il sangue da viso e mani, poco le importava se avrebbe avuto poca efficacia e le avrebbe graffiato la pelle, irritandola.
    Avrebbe voluto dire che non stava bene, che non lo sarebbe mai stata, e sfogare così la sua frustrazione. Ma la verità era che già solo il fatto di essere stata aiutata da Ryoga la faceva sentire in colpa, facendo crescere in lei il sentore di avere un grosso debito da ripagargli, impossibile da ripagare con il solo potere del denaro. Non poteva caricarlo di un altro peso addosso e buttargli addosso tutta la frustrazione che provava, tutto il dolore che sentiva e che faceva urlare il suo cuore ferito. Perciò annuì, senza mai smettere di pulire via il sangue che le macchiava la pelle.
    « S-sì, va meglio... ti ringrazio. »
    La voce inevitabilmente le tremava ancora e sapeva di non poterci fare granché: era scossa e distrutta, ma il pasto era servito per farle riguadagnare quel briciolo di sanità mentale che le era rimasta. A tentoni, recuperò la piccola bottiglietta d'acqua che aveva in borsa, assieme ad un fazzoletto di cotone che teneva sempre con sé. Non le importava se si sarebbe sporcato, ma aveva necessità di pulirsi al meglio che poteva. Bagnò, quindi, il fazzoletto che aveva estratto dalla borsa, sistemandosi prima in viso e poi "lavando" via il sangue dalle mani.
    « Mi dispiace... non dev'essere stato facile p-per te. »
    La voce stava cominciando a tremare di meno. Era abituata a stare così male, se ne sarebbe fatta una ragione. Era pur sempre meglio aver mangiato un pezzettino di carne e aver placato, per poco, la propria fame, piuttosto che aver attaccato una vittima innocente in preda al proprio delirio. Da che pulpito, poi: stava letteralmente venendo logorata dalle sue stesse emozioni e dal suo terrificante essere, non era stato facile nemmeno per lei. Eppure si sentiva in colpa e ciò non avrebbe cambiato il suo stato d'animo. Rimase rannicchiata a terra, un po' perché voleva riprendersi e un po' perché aveva bisogno di stare lì ancora un po', poco le importava se stava seduta per terra e sporcava i vestiti, erano dettagli alquanto superficiali.

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    Ryoga Hasegawa
    “S-sì, va meglio… ti ringrazio.”
    “Bugiarda.”
    Chiaramente non poteva dirlo in maniera tanto diretta, sbattere la dura verità in faccia a qualcuno ancora nel pieno dello shock richiedeva una dose di cattiveria assente in Ryoga. Ma in un primo momento i suoi occhi si assottigliarono comunque, denotando il passeggero moto di stizza che si diluì subito nel silenzio: pensava di essersela dopotutto meritata, un po’ di sincerità.
    Oggettivamente parlando, però, Evelyn non era in alcun modo obbligata a spiegare il motivo delle lacrime che le avevano solcato il viso mentre tornava padrona di se stessa. Sarebbe stato invadente da parte di Ryoga insistere, per quanto fosse proprio ciò che il suo istinto gli consigliava di fare.
    “Avrà le sue ragioni. L’importante è che non rischi più di azzannare qualcuno.” tagliò corto con se stesso.
    Già, logicamente parlando era quello l’importante.
    Il suo istinto di crocerossino poteva metterselo nella tasca dei pantaloni e concedersi finalmente di tornare a respirare con regolarità; il peggio era passato, ora dovevano occuparsi di far sparire del tutto quelle macchie di sangue e ciascuno sarebbe tornato a casa come se niente fosse accaduto.
    Già.
    «Neanche per te dev’essere facile.»
    No, non le aveva letto nel pensiero. Era abbastanza schizzato da sentire le voci dei morti e credere di essere lui stesso morto, ma la skill Telepatia non l’aveva ancora bloccata. Non si trattava neanche di empatia, Ryoga era troppo confuso dall’incomprensibile mondo delle emozioni umane per discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato nel relazionarsi a qualcun altro: anche a costo di essere respinto, cacciato o rimproverato, preferiva sbagliare e scusarsi piuttosto che perdere la sua occasione di far breccia tra le crepe degli altri e lasciarli a crogiolarsi nei pensieri negativi.
    Lo aveva imparato grazie a Risa.
    Si era lasciato scivolare con la schiena contro il muro, finendo per sedersi accanto a Evelyn e osservarla con la coda dell’occhio mentre si lavava le mani col fazzoletto imbevuto d’acqua. Sarebbe stato più saggio andarsene il prima possibile, ma per il momento la ragazza non sembrava ancora in grado di mettersi piedi.
    «Non lo è per nessuno. Quindi non vergognarti, non sono comunque il tipo che giudica gli altri.» disse in tutta franchezza, scrollando poi le spalle; per chi mai sarebbe potuta essere facile una vita passata a nascondersi e uccidere per sfamarsi?
    Ryoga però non immaginava neanche lontanamente quanto quel discorso fosse delicato per Evelyn.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Non le era mai piaciuto mentire, eppure viveva una vita in cui la menzogna era, essenzialmente, di vitale importanza. No, non era un'esagerazione: sapeva bene che se ci fosse anche solo stato il sospetto fosse stata un ghoul, per quanto lei odiasse esserlo, la sua vita sarebbe finita.
    Una piccola Evelyn avrebbe ingenuamente risposto che le bugie avevano le gambe corte, che così le era stato insegnato dai genitori, che bisognava essere trasparenti, che bisognava essere se stessi anche quando tutto il mondo ti era contro. Nel fiore dei suoi ventitré anni, comunque, quegli insegnamenti le facevano più paura che altro. Le bugie avrebbero anche potuto avere le gambe corte, sarebbe anche stato meglio se fosse sempre stata trasparente con gli altri, ma essere se stessa in un mondo come quello e non rinnegarsi era parecchio difficile. Ed era come aveva detto Ryoga: era difficile per tutti.
    Non doveva vergognarsi, le aveva detto.
    Lui non l'avrebbe giudicata, non era il tipo... così aveva detto.
    Ora come ora sapeva di non aver paura del suo giudizio. L'aveva aiutata così tanto, mettendo a rischio se stesso pur di aiutarla... solo uno sciocco avrebbe avuto paura di una persona così. Il buon animo di Evelyn cominciava a credere che, per quanto sconosciuto, quel tale non era poi così malvagio... anzi: era più difficile trovare persone gentili e disponibili come lui, di quei tempi, anziché procacciarsi del cibo per i ghoul. Una triste, forse troppo cruda, verità che ad Evelyn faceva fin troppo male. Sapere, però, che c'erano persone come Ryoga l'aveva in qualche modo tranquillizzata. Era ancora scossa, ad esser sinceri, perché sentire un tale pressione addosso non la aiutava a tranquillizzarsi del tutto, ma già solo essere cosciente e avere la compagnia di Ryoga le era di aiuto.
    Ciò che non le era d'aiuto erano i postumi di una crisi così grande da averla devastata. Il panico, il pianto e la consapevolezza di essersi, purtroppo, cibata di una parte di corpo umano avevano un terribile effetto sul suo umore.
    Volse lo sguardo al ragazzo accanto a sé, mostrandogli un sorriso rammaricato: gli occhi erano chiusi, non lasciavano intravedere le iridi smeraldine, in contrasto con i suoi tratti tipicamente asiatici, spuntati dopo che il kakugan si era prontamente ritirato nel momento in cui il suo stato d'animo era ritornato, più o meno, quello abituale.
    Avrebbe voluto continuare a sorridergli così, senza che la tempesta di emozioni che imperversava nella sua mente prendesse il sopravvento.
    Avrebbe voluto mostrargli tutta la sua gratitudine con leggerezza, stringergli la mano e promettergli che gli avrebbe ripagato quel grosso debito che sentiva di avere addosso, eppure, nel momento in cui dalle sue labbra fluì un tremolante « grazie », le lacrime tornarono a solcarle il viso, costringendola a ritirarsi di nuovo nel suo guscio. Non aveva abbracciato le proprie gambe, non aveva affondato il volto tra le proprie ginocchia, aveva solo poggiato la schiena contro il muro, accompagnando debolmente anche il capo, il cui sguardo venne indirizzato verso il cielo notturno che copriva Tokyo.
    « Hai ragione, sai... è davvero d-difficile. »
    Un singhiozzo interferì sul suo parlato. Portò le mani verso il viso, scostando gli occhiali ed asciugando alla bell'e meglio gli occhi con i palmi e le dita, non facendosi troppi problemi sul peggiorare ulteriormente il make-up.
    « E'... troppo difficile. »
    Nuda e cruda realtà, pronunciata con un tono terribilmente sconvolto. In quel momento era debole, incontrollabilmente fragile, non sapeva proprio dove sbattere la testa.
    « Ryoga-san, tu... t-tu come fai..? »
    Sapeva che era una domanda alla quale rispondere sarebbe stato, ancora, troppo difficile. Doveva ammettere che se fosse stata rivolta a lei, probabilmente l'unico suono che avrebbe pronunciato sarebbe stato quello di urla esasperate, quello di un pianto senza controllo, derivato da un peso ormai sempre più insostenibile. Ma forse, nel suo piccolo, voleva sperare che per Ryoga fosse più facile... anche se, in cuor suo, sapeva che non era affatto così.

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    Ryoga Hasegawa
    Era un discorso che si aspettava, ma questo non lo rendeva meno tragico. I suoi genitori gli avevano insegnato a non vergognarsi di ciò che era e non reputarsi un disprezzabile mostro nonostante gli indottrinamenti della società umana: una gazzella avrà sempre paura di un leone, ma ciò non rende il leone meno fiero.
    Se però Ryoga aveva consapevolezza anche dell’altra faccia della medaglia doveva ringraziare la Coltre delle Nubi, non tutti i ghoul vivevano la loro natura con la stessa filosofia che spingeva lui e Risa a cacciare senza empatizzare con le prede. C’erano alcuni, come Evelyn, che la vivevano male. Non poteva sapere quale fosse il suo reale dilemma - di carattere pratico ce n’erano troppi, di carattere etico ancor più -, ma ripensando alla frase da ella ripetuta in precedenza - non c’è altro modo - ipotizzò si trattasse del più elementare dei drammi che un ghoul potesse porsi: ad essere troppo difficile era uccidere esseri umani.
    Poteva immaginarne i motivi, sebbene non li condividesse.
    Ammazzare una creatura esteticamente simile a te è più difficile di ammazzare un maiale o un pollo.
    Per quanto lo riguardava, nel momento in cui indossava la maschera faticava a vedere la differenza tra una persona e un maiale. Anzi, almeno la persona era buona da mangiare, il maiale faceva schifo.
    Le cose realmente difficili della vita di un ghoul per lui erano altre: procacciarsi il cibo in una città che ha occhi in ogni dove, essere sempre pronti alla fuga tattica e al digiuno prolungato nel caso in cui le cose non vadano secondo i piani, vivere nell’ombra come topi, guardandosi le spalle anche mentre si va a scuola o a lavorare.
    Non era semplicemente stressante, era un inferno.
    “Ryoga-san, tu… t-tu come fai…?”
    Ryoga, che aveva seguito la linea immaginaria tracciata dallo sguardo di Evelyn verso il cielo notturno, riportò istantaneamente su di lei gli occhi, le pupille dilatate avevano cancellato buona parte dell’azzurro. Non si aspettava quella domanda. Eppure la risposta fu immediata.
    «Faccio in modo che ne valga la pena. Se non per me, per le persone che voglio proteggere.»
    Non per se stesso, il giorno in cui Ryoga avrebbe dato a se stesso un briciolo di rilevanza il mondo sarebbe finito, ma per la sua famiglia. Se loro non ci fossero state loro le cose sarebbero state… molto più spaventose.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Ci voleva coraggio per poter pronunciare parole simili, non perché fossero scandalose o al di là di ogni concezione terrena, ma perché era difficile pensare che in quel mondo crudele, qualcuno facesse qualcosa per gli altri, per la loro protezione. In un mondo egoista come il loro, dove prevalentemente chi pensava solo a se stesso aveva la meglio, Ryoga sembrava una piccola luce fioca dal calore inspiegabilmente immenso.
    Dopo quelle parole, Evelyn azzardò un sorriso tra le lacrime. Non era particolarmente felice, né aveva guadagnato un po' di gioia nel sentire il biondo pronunciare quelle parole. Ciononostante non riuscì a trattenere quel gesto, così istintivo ed incontrollabile, proprio come quando ti scivola qualcosa che tieni tra le mani e non riesci a recuperarlo dalla caduta.
    Non che fosse esattamente la stessa cosa, ma il senso era quello. Più il tempo passava, più Evelyn si tranquillizzava, e le sue parole avevano aiutato a far sì che raggiungesse uno stato di calma molto meno apparente di quanto potesse essere stato prima. La tensione che le bloccava il trapezio, o che le faceva tremare le gambe stava scemando, permettendole quindi di adagiarsi con la schiena al muro molto più comodamente di prima. Secondo dopo secondo, Evelyn percepiva la bontà di Ryoga e il suo stare in allerta non sembrava più essere necessario. Ryoga dimostrava di essere una persona affidabile e per quanto non ci si dovesse fidare di uno sconosciuto, perché di lui sapeva troppo poco per poter dare un giudizio positivo seduta stante, era inevitabile che nella mente di Evelyn si stanziasse un'unica, incontestabile sensazione. La sua testa stava urlando che di Ryoga ci si poteva fidare, che non avrebbe più incontrato un ragazzo d'oro come lui, che era stata particolarmente fortunata, perché di fronte a lei si sarebbe potuto presentare un ghoul non troppo amichevole e che avrebbe goduto della sua caduta nel limbo della pazzia.
    E da sensazione qual era, in cuor suo, Evelyn stava forzatamente aggrappandosi a questa percezione, costringendola a tramutarsi in un'irreversibile verità, al di là di ogni concezione, perché la sua mente instabile le stava urlando che aveva bisogno di una verità del genere.
    Aveva bisogno di un mondo in cui ci fossero più Ryoga e meno persone come i suoi genitori. Un mondo così, secondo lei, sarebbe stato fantastico.
    « E' un pensiero meraviglioso » si limitò a mormorare, riportando lo sguardo verso il terreno, prima di puntare gli occhi, coperti malamente dagli occhiali da sole, in direzione di Ryoga. Quel flebile sorriso che aveva accennato poco prima rimase, in un disastroso contrasto con le condizioni del suo viso: rosso per il pianto e il panico, macchiato delle lacrime grigiastre che si erano mescolate con il pastoso mascara e la matita nera che aveva messo sugli occhi; il rossetto, neanche a dirlo, se n'era tutto andato nel momento in cui aveva affondato i denti nella tenera carne umana che le era stata gentilmente offerta.
    Eppure sorrideva, seppur poco, seppur quasi impercettibilmente, seppur non fosse esattamente nelle condizioni adatte per permettersi di sorridere. Una volta messo piede fuori da quel piccolo e sudicio vicolo, quel sorriso non sarebbe più valso a niente. Eppure, in quell'istante, in quel singolo momento, era come se Evelyn si fosse catapultata in un universo alternativo, dove tutto quello che aveva vissuto non era mai esistito.
    « Vorrei avere la forza e il coraggio di pensarla come te. »
    Una verità che faceva male, al punto da averla istantaneamente scaraventata indietro nel loro mondo, in quel gelido ed oscuro mondo, apparentemente colorato ed allegro. Il sorriso scomparve, lasciando spazio al silenzio. Quando avvertì passare un'auto nella strada perpendicolare a quel vicolo, Evelyn decise che era, probabilmente, il momento di salutare quel ragazzo.
    « Comunque » pronunciò, cercando di recuperare i propri acquisti sparpagliati nelle borse posate per terra, « ti ho rubato troppo tempo-- la tua famiglia sarà preoccupata. »
    Non poteva sapere se la sua famiglia fosse preoccupata. Anzi, non poteva nemmeno sapere se la sua famiglia ci fosse ancora... il che era uno scenario terribile, ma in quel mondo orribile non era poi così difficile che fosse la realtà. Era più probabile fosse un monito a se stessa, perché sicuramente sua nonna era preoccupata per lei. Si fece forza sulle gambe, poggiando le mani al muro per aiutarsi a rimettersi in piedi, barcollando leggermente mentre ritornava a bilanciare il peso sui piedi. C'era una macchia di sangue sulla propria camicia, macchia che avrebbe potuto nascondere se avesse tenuto chiusa la felpa che le era stata data prima dal ragazzo. Di camicie bianche ne aveva tante, una in meno non faceva molta differenza... no?
    « Questa volta il taxi te lo offro io. »

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    Ryoga Hasegawa
    Non era un eroe e non voleva essere reputato speciale solo per aver affermato qualcosa che per la maggior parte delle persone era la normalità, o almeno così Ryoga credeva. Aveva, nella sua vita, la benedizione di qualcuno che amava e desiderava proteggere dalle brutture del mondo, anche al prezzo di non distogliere mai lo sguardo da una realtà corrosiva che lo logorava dall’interno.
    Più passava il tempo, più Ryoga si rendeva conto che presto o tardi qualcosa in lui si sarebbe spezzato, ma fino ad allora avrebbe resistito. Dopotutto, se era ancora lì nonostante fosse biologicamente morto doveva esserci una ragione - una ragione che non gli importava, non avrebbe sprecato tempo prezioso andando a caccia di spiegazioni.
    Rilasciò un sospiro spezzato, quasi tremante, ma per fortuna troppo silenzioso per essere udito; era sempre una pessima idea ripensare alla sua condizione di anomalia sospesa tra la vita e la morte. Meglio concentrarsi su Evelyn, sì: concentrarsi sugli altri era sempre stato più facile che pensare a se stesso.
    Evelyn che sorrideva tra le lacrime, procurandogli una fitta al cuore che si trasformò in un’espressione facciale di sincera preoccupazione. Forse non le aveva dato la risposta che cercava, forse aveva solo rovinato gli sforzi compiuti finora per rimettere insieme i cocci di lei. Quella possibilità lo agitò abbastanza da fargli prudere la nuca e dardeggiare gli occhi ad ogni suo movimento, alla ricerca di un segnale che gli suggerisse che scusarsi fosse una buona idea. La ragazza s’appoggiò con la schiena al muro e parve rasserenarsi gradualmente, infine incrociò di nuovo i suoi occhi e disse qualcosa che per poco non glieli fece strabuzzare.
    Ah.
    Quindi andava bene, non l’aveva ferita? Un altro sospiro, stavolta di sollievo, si spense nella notte. Sarebbe stato assurdo distruggere tutto per una risposta spontanea. Sollevò a sua volta gli angoli della bocca in un sorriso pacato, con un accenno di timidezza nella linea delle sopracciglia che si aggrottarono.
    «Non è niente di speciale.» cercò di sminuirsi, non perché inconsapevole di quanto fossero rare le persone buone, ma per naturale propensione a una limpida umiltà.
    Non gli piaceva essere al centro dell’attenzione.
    “Vorrei avere la forza e il coraggio di pensarla come te.”
    E ancora una volta, sul viso di Ryoga si palesarono cristalline le sue emozioni: stupore, perché non se l’aspettava, e confusione, perché avrebbe voluto dire qualcosa di incoraggiante, ma non sapeva praticamente niente di Evelyn. Non poteva intromettersi nel suo privato e darle consigli di vita, non ne aveva il diritto.
    La lasciò rimettersi in piedi e recuperare le sue buste. Finalmente appariva più stabile sia al livello fisico che emotivo, ma lui non voleva lasciare in sospeso la questione. Non voleva lasciarla andare con la convinzione di essere debole o pavida. Continuava a credere di non poter esprimere giudizi né dare consigli a una persona di cui conosceva solo il nome: quel che poteva fare, però, era condividere l’impressione che aveva avuto di lei.
    «A me sei sembrata forte e coraggiosa, Evelyn… non so se al tuo posto sarei riuscito a resistere così a lungo. Serve una gran forza d’animo per fare quel che hai fatto tu.»
    Serio in volto, quasi grave, aveva parlato con la voce ferma di chi è convinto di ciò che dice, senza perdere di vista i suoi occhi verdi schermati dalle lenti scure. Solo allora appoggiò sull’asfalto i palmi delle mani, dandosi una spinta per rimettersi in piedi e scoccare un’occhiata fugace verso la strada.
    «Sarà meglio togliere quegli occhiali e coprire il sangue.»
    Abbozzò un sorriso, non volendo farlo suonare come un rimprovero quanto più un friendly reminder che non erano ancora del tutto fuori pericolo.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Si sentiva già abbastanza in colpa ad aver disturbato una persona che potenzialmente avrebbe potuto trascorrere quella fresca serata primaverile in maniera migliore, trattenere di più Ryoga l'avrebbe fatta sentire triplamente in colpa. Era per questo motivo che, percependosi più tranquilla, aveva deciso di sua sola iniziativa che era il caso di avviarsi verso casa. Non lo avrebbe trattenuto oltre, era meglio così. Nel suo rialzarsi, però, Ryoga sembrava come se sentisse la necessità di chiarire qualcosa. Quando aprì bocca, non fu difficile per Evelyn, ancora un po' scombussolata, capire di cosa si trattasse. Era tenero da parte dell'altro tentare di risollevarla con quelle parole... forse in parte era vero, forse non lo era, ma non poteva prendersi gioco delle parole oneste di una persona che ce l'aveva messa tutta pur di aiutarla, mettendo a rischio la sua posizione di persona e cittadino di quella città. Aveva rischiato grosso, non avrebbe potuto rispondergli soltanto per dargli il contentino. Un sorriso genuino dipinse il volto sciupato di Evelyn, donandole un aspetto leggermente migliore. Come si rispondeva ai complimenti? Ne riceveva giornalmente sotto i post di B-social, ma dopo anni ancora non era abituata. Specie se si trattava di complimenti di così immenso valore. Non aveva la benché minima idea di che reazione potesse andare bene: un solo ringraziamento non sarebbe bastato ad esprimere la sua gratitudine, ma parlare apertamente ed avviare un discorso forse le avrebbe fatto inconsapevolmente dire delle cose che avrebbe voluto evitare. Perché lo sapeva che si sarebbe sminuita, e sminuendosi avrebbe, ancor peggio, sminuito gli sforzi e le parole di Ryoga. Era l'ultima cosa che avrebbe voluto accadesse.
    Inclinò il capo verso destra, senza togliersi quel sorriso dalle labbra, che si schiusero per pronunciare il « grazie mille » più sentito di tutta la sua vita. Era davvero grata a Ryoga per tutto quello che aveva fatto.
    Ma non poteva crogiolarsi in quei tiepidi sentimenti: avrebbe preferito pensare che fosse tutto finito, ma vivere in un'illusione non era congeniale. Ryoga aveva detto la verità: avrebbero dovuto sbarazzarsi degli occhiali e del sangue. Il trucco sciolto attorno agli occhi era il problema minore: si portava sempre delle salviette struccanti in caso dovesse riparare il trucco, avrebbe volentieri girovagato struccata piuttosto che con un make-up adatto per una festa di Halloween. Il sangue, invece, era difficile da mimetizzare: quel rosso intenso che macchiava la camicia bianco avorio era davvero troppo evidente. E Evelyn non aveva la benché minima idea di come potesse nascondere quella macchia. Provarci con l'acqua non avrebbe portato a nulla, ma soprattutto avrebbe potuto comportare maggiori rischi: l'espansione della macchia di sangue, quindi il renderla ancora più evidente.
    « Ah, sì-- allora, dovrei avere delle salviette da qualche parte... » incominciò, aprendo la propria borsa e rovistando alla ricerca del pacchettino dove le conservava. Mentre cercava le salviette, le venne il lampo di genio: aveva fatto acquisti tutto il giorno, poteva sostituire la camicia. Era stata così presa dall'idea di dover togliere la macchia di sangue che non aveva pensato al non toglierla affatto. « Per la camicia posso cambiarmi! »
    Detto con tutta la naturalezza del mondo. Insomma, in situazioni di emergenza non veniva spontaneo pensare che si sarebbe dovuta cambiare in un vicolo, alla presenza di un ragazzo. Non le importava assolutamente nulla. Quindi tirò fuori le salviettine dalla borsa, porgendole a Ryoga, nel mentre si accucciava per terra e con la mano libera rovistava tra le borse per vedere se c'era qualcosa di adatto. Non aveva comprato altre camicie, ma in compenso era piena zeppa di top-wear di ogni sorta.

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    Ryoga Hasegawa
    Tutta la paura di aver osato troppo intromettendosi con un commento non richiesto si volatilizzò quando vide le conseguenze delle sue parole. Il volto stanco e provato di Evelyn si illuminò, dando vita a una singolare quanto divertente dicotomia tra il make-up sbavato e l’espressione traboccante di emozione.
    Era alquanto fuori luogo come pensiero, ma vederla splendere nonostante l’inferno attraverso cui era passata gli fece realizzare quanto fosse bella. Probabilmente finora a causa della situazione rischiosa e delle emozioni forti aveva avuto il cervello troppo occupato per far caso a un fattore tanto frivolo. In effetti sarebbe bastato guardarla con più calma per intuire qualcosa di più su di lei: una giovane dal fine gusto estetico, con abiti di certo non usciti da un outlet tanto addosso quanto nella selva di buste che si scarrozzavano dietro.
    Cominciava a ricordare una delle prime impressioni che aveva avuto di lei, Evelyn non sembrava affatto una persona qualunque. Quante classi sociali potevano esserci tra loro? Una ragazza del genere doveva essere abituata a complimenti migliori di un “hai una gran forza d’animo”: bella prova, Ryoga. Se non avesse avuto la prova schiacciante di essere stato preso sul serio si sarebbe sentito un idiota.
    “Ah, sì-- allora, dovrei avere delle salviette da qualche parte...”
    «Ottimo.»
    Ottimo, annuì infilando le mani in tasca, in quel modo avrebbe almeno potuto pulirsi la faccia. Non voleva neanche immaginare cosa avrebbe pensato la gente vedendo andare in giro una giovane dall’aspetto stravolto e un ragazzo. Come minimo che era un fidanzato violento, e di farsi una nomina del genere o ritrovarsi a casa la polizia non ne aveva bisogno.
    Poco distante c’era un taxi, constatò con un’occhiata, se fossero stati fortunati sarebbero riusciti a prenderlo prima che una chiamata glielo soffiasse da sotto il nas-
    “Per la camicia posso cambiarmi!”
    «Ottim- no.» un brivido gli aveva artigliato la schiena, irrigidendolo dalla testa ai piedi. Non era affatto ottimo, non aveva firmato da nessuna parte per una parte un drama shojo. «… aspetta, ti copro!» fu l’unica idea, neanche troppo geniale, che gli venne in mente.
    Si posizionò così davanti a Evelyn, alla quale diede le spalle, sulle prime pronto a improvvisare una T pose assolutamente poco sospetta. Non era il momento adatto a farsi rimbambire, doveva prenderla come un’ultima prova da superare prima di tornare a casa.
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    Evelyn Tiffany Applegarth
    Evelyn non poteva permettersi il lusso di tergiversare su una cosa tanto importante: ora come ora non le sarebbe importato nulla di girare struccata, ma ancor meno le sarebbe importato di cambiarsi. Cambiare quella camicia, e magari gettarla al primo cassonetto disponibile, era l'unico modo che avevano per uscire da quel vicolo senza rischiare di essere scoperti ed inseguiti. La reazione di Ryoga le fece ricordare a tutti gli effetti che sarebbe stato abbastanza imbarazzante -- oltre che poco consono -- svestirsi in un vicolo. Ma doveva farlo, non poteva trattenersi. Fortunatamente Ryoga si propose di coprirla e poco dopo le diede le spalle, sistemandosi in una rigida quanto buffa "posizione a T". Se fosse passato qualcuno, la probabilità di attirare l'attenzione era piuttosto alta, ma aveva "poca" importanza.
    « Ti ringrazio » mormorò. Era davvero grata che Ryoga fosse così gentile e disponibile da aiutarla in un'impresa come quella. Era uno sconosciuto eppure si era prodigato molto più di quanto si sarebbe immaginata... una corsa gratuita sul taxi non sarebbe bastata per ripagare l'enorme debito che aveva con lui.
    Recuperò dalle borse di acquisti il primo capo che poteva facilmente abbinarsi con i suoi pantaloni: una blusa rosa cipria a collo alto, le maniche leggermente a sbuffo che terminavano più strette all'altezza dei polsi. Sfilò la giacca che le era stata prestata per poi sbottonare la camicia, facendo quanto più in fretta poteva. Lasciò la camicia a terra e si infilò la blusa poco dopo, non prima di essersi premurata a togliere l'etichetta al suo interno. Una volta sistemata la blusa, si tolse gli occhiali e passò due salviettine struccanti per tutto il viso, cercando di rimuovere quanto più possibile il make-up. Ci volle una manciata di minuti in tutto: una volta finito, recuperò la camicia macchiata da terra, la felpa di Ryoga che aveva posato sopra le buste, e i propri acquisti, avvicinandosi al ragazzo e bussando debolmente con l'indice sulla spalla destra di lui, per fargli sapere che aveva effettivamente finito di cambiarsi e sistemarsi.
    « Ho finito » lo avvisò quindi, comparendo dalle sue spalle e rivolgendogli un sorriso dispiaciuto, « mi dispiace averti messo in questa situazione spiacevole. »
    Non sapeva come avrebbe potuto reagire di fronte a quelle scuse, ma dopo tutto quello che aveva fatto per lei era il minimo che potesse fare: non immaginava neanche lontanamente cosa significasse mettersi così tanto in pericolo. Per una sconosciuta, per giunta. Ryoga doveva avere un grande cuore per spingersi a tanto, sperava davvero che ne fosse consapevole. Buttò gli occhi fuori dal vicolo, per controllare come fosse la situazione e solo in quel momento si rese conto di un taxi posteggiato poco più in là: era la loro occasione per svignarsela ed uscirne puliti e salvi.
    « Quel taxi sta aspettando qualcuno..? » domandò a Ryoga, per essere certa che potessero uscire ed avviarsi verso casa.

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    Ryoga Hasegawa
    Doveva sembrare davvero stupido in quel momento, un’amara consapevolezza che andava sedimentandosi in fondo allo stomaco mentre Ryoga aspettava che lo scorrere del tempo portasse via l’imbarazzante situazione che stava vivendo. Conosceva un discreto numero di ragazzi che avrebbero pagato per essere al suo posto, quando invece lui era imbambolato lì, rigido e teso come una scopa in mezzo alla strada, in attesa di un via libera da parte di Evelyn. Una reazione non troppo lontana da quelle tipiche dei protagonisti degli anime harem che i più bollavano come inverosimili, e invece guarda un po’ come la vita si diverte a prenderti in giro.
    Una cosa era certa: nello spiegare a Risa perché sarebbe rincasato così tardi quella sera, avrebbe omesso quel piccolo particolare.
    Per sua fortuna Evelyn impiegò solo pochi minuti a cambiarsi, così, quando avvertì la leggera pressione dell’indice sulla spalla, Ryoga si voltò con lentezza, quasi temendo nonostante tutto di trovarla ancora in déshabillé; invece incontrò i suoi occhi - di quel verde tanto insolito per un’asiatica - struccati e più rilassati e notò la blusa rosa al posto della camicia. Si sentì sollevato. Molto sollevato. Per diversi motivi. Il più importante ovviamente era che sarebbero potuti tornare a casa senza doversi per forza guardare le spalle e inventare strategie per passare inosservati, abitudini in cui ormai era specializzato ma che risultavano comunque tediose.
    Sembrava proprio che quella brutta avventura fosse finita.
    Rivolse ad Evelyn un sorriso ingentilito, finalmente libero dall’ansia che l’aveva attanagliato fino a quel momento.
    “Mi dispiace di averti messo in questa situazione spiacevole.”
    «Ho solo fatto in modo che ne valesse la pena, te l’ho detto.» ribadì in risposta alle sue scuse, dopotutto si era cacciato volontariamente in quell’avventura.
    “Quel taxi sta aspettando qualcuno..?”
    Lo sguardo di Ryoga si spostò dal viso della ragazza al taxi fermo sul ciglio della strada, non aveva ancora messo in moto, quindi probabilmente era disponibile. «Noi.»
    Normalmente avrebbe evitato una risposta tanto scontata, ma essere fuori pericolo lo aveva portato a constatare quanto fosse in effetti stanco, le spalle schiacciate dal peso della giornata lavorativa e la mente pregna di emozioni sfiancanti.
    Fece ad Evelyn un cenno amichevole col mento in direzione del taxi, invitandola ad incamminarsi prima che qualcuno soffiasse loro la corsa.
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