Dancin' queen

[INATTIVA] Elizabeth Dwight & Yonaga Kasumi - 21/07/2020 @Musique Cafè (dalle 9:42, pioggia, 29°)

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    Che nooooia. Quella mattina si era presa un colpo, anche se non troppo. Le capitava di non sentire la sveglia, e che si fosse alzata tardi non era esattamente routine, ma neanche chissà quale tremenda novità.
    Ecco, il problema era che quella mattina avrebbe pure potuto evitare di svegliarsi: non c'erano lezioni. Erano finite il giorno prima, ora erano tutti nel panico per gli esami finali. Quelli che sarebbero cominciati tra qualche giorno.
    Ma Kasumi voleva solo uscire per fare un giro, non aveva alcuna voglia di passare le sue giornate chiusa in casa a studiare. E così aveva fatto, fermandosi ogni volta qualcosa catturava il suo interesse: in pratica, molto spesso.
    Nel gruppo chat qualcuno l'aveva invitata a studiare tutti insieme allegramente col suo gruppetto, e lei aveva allegramente rifiutato perché erano tutti in competizione.
    Ci sarebbe stata una classifica e avrebbero fissato i risultati dei test in bella vista, era una guerra e in una guerra non si fa amicizia con gli avversari. Avrebbero dovuto essere le basi della guerra, quella, e sebbene fossero in piena battle royale nessuno le rispettava. Bah.
    E comunque quanto sarebbero stati difficili questi esami? Li facevano sembrare come dover arrivare primi in un concorso per pianisti, che si godessero la vita e controllassero la pressione.
    Senza accorgersi così era solo apparsa arrogante. Ecco perché Yonaga Kasumi non aveva amici.
    La maggior parte dei suoi compagni avrebbe dato un braccio per fermare il tempo, lei non vedeva l'ora di liberarsi di quella rottura e cominciare sul serio le vacanze estive.
    Voleva mangiare gelato e andare al mare.
    Non vedeva l'ora di smettere di studiare musica, così avrebbe avuto più tempo per... beh, studiare musica.
    Ok, era un piano che non suonava molto bene. No pun intended. Ma il suo pianoforte invece suonava molto bene, grazie tante, e non l'avrebbe di certo fatto da solo.
    Sua madre la voleva a Salisburgo e, pur non sapendo se Kasumi sarebbe davvero tornata a casa, le aveva già riferito di averle riempito l'agenda di "possibili" impegni per tutto agosto.
    Si sarebbe inventata qualcosa per rimanere a Tokyo. Era pur sempre un genio, l'inventiva non le mancava di certo.
    E poi aveva qualcosa di molto più importante a cui pensare, in quel momento. Tipo, al fatto che all'improvviso cominciò a piovere e figuriamoci se Kasumi si era ricordata di portarsi l'ombrello. Nemmeno sapeva si sarebbe messo a piovere.
    Aveva cominciato lentamente, con qualche goccia di pioggia che Kasumi aveva deliberatamente ignorato. Ma poi era peggiorata di colpo, il che l'aveva costretta a cercare riparo il più veloce possibile, per aspettare migliorasse almeno un po'.
    Anche se doverla evitare era quasi un crimine, era piacevolmente fresca.
    Era entrata nel primo locale aveva visto, per fortuna un cafè molto accogliente e carino. O per sfiga, perché entrare in un cafè ridendo e bagnata di pioggia non doveva essere esattamente un buon biglietto da visita.
    Non c'era molta gente lì, per cui dovette preoccuparsi ancora meno degli sguardi dei più curiosi. Ci era abituata, più che altro perché aveva l'aspetto e l'atteggiamento dei gaijin.
    Le cameriere le diedero il benvenuto, al che Kasumi poté rispondere con un «Arrivo subito!» decisamente troppo alto e allegro per gli standard del luogo.
    E fu così ricevette altre occhiate curiose.
    Certo che se voleva un autografo bastava chiedere.
    Comunque, ora doveva fare la conta dei danni e poteva guardarsi intorno. Tali danni non si rivelarono poi molti, incredibilmente: la t-shirt si sarebbe asciugata subito.
    I capelli erano umidi, per cui decise di sciogliere la coda e tenere il laccio -di un vivido viola- attorno al polso, come un braccialetto un po' stretto ma comunque carino.
    «Questo posto è schifosamente elegante.» fu il borbottio, anche se non troppo basso. Perché Kasumi non aveva il minimo tatto.
    Beh, comunque l'aveva detto con una punta di meraviglia, non aveva di certo offeso nessuno. Solo non era il suo genere di posto, più il tipo a cui sua madre cercava di abituarla a ogni costo.
    Sembrava, tipo, una sala da tè in stile occidentale ferma nel tempo da un po' troppo tempo. Qualcosa del genere.
    Sperava non fosse davvero una sala da tè, a pensarci.
    Era un locale di modeste dimensioni, ma lo spazio era stato utilizzato molto bene per dare un'atmosfera accogliente, per quanto formale.
    Non si sarebbe vergognata di essere lì in t-shirt e pantaloncini, mai.
    Comunque.
    Tavolini bianchi, un sacco di colori chiari -erano pastello? non le importava nemmeno- e piante, molte delle quali sospese. Quella roba là che faceva chic.
    E un pianoforte. Magari era solo decorativo, ma che bella coincidenza.
    Figo.
    Si era avvicinata al bancone e dopo un attimo di indecisione aveva ordinato un iced coffee, che in realtà era stata la sua prima scelta sin da subito. Mise lo scontrino nel portafogli quasi senza pensarci.
    Poi si era fatta distrarre dal pianoforte, che a quanto pareva non era solo decorativo. Ancora più figo.
    Lo capì dall'avviso scritto a mano su foglio da stampante, quindi lo prese per leggerlo meglio.
    "Chiedi il permesso prima di suonarmi, a meno che tu non sia Mozart".
    Ed era abbastanza sicuro che chi leggeva non fosse Mozart, continuava il messaggio, perché il poveraccio era morto giusto un po' di tempo fa.
    AH. Mica prendeva ordini da un pianoforte impertinente.
    Il sorriso comparso sul volto di Kasumi era tutto un programma. Il destino esisteva e quella era la prova, se quella era una sfida l'avrebbe accettata con piacere.
    C'era poca gente lì, non avrebbe avuto il panico da palcoscenico. E musicisti famosi si esibiscono per strada senza essere riconosciuti, poteva contate su un certo anonimato e poche rotture di scatole.
    In realtà niente di tutto questo passò per la testolina quasi vuota di Kasumi: voleva solo dimostrare di essere l'erede spirituale di Mozart (a chi, poi? non si sapeva) con una sicurezza in se stessa la metà ne bastava.
    L'avviso era su foglio plastificato, non poteva appallottolarlo e lanciarlo alle sue spalle come se l'avesse insultata.
    Quindi si limitò a metterlo da parte, sedersi davanti al pianoforte con solo l'imbarazzo della scelta su cosa suonare.
    Qualcosa di allegro, sicuramente: erano finite le lezioni! E lei non stava ancora studiando!
    Prima ancora potessero fermarla le note riempirono il silenzio, coprendo il brusio e l'occasionale tintinnare di vetro e porcellana.
    Sonata per pianoforte n°11, di Wolfgang Amadeus Mozart. Il terzo movimento, per essere precisi: il Rondò alla turca.
    Quella era una sfida a dir poco inutile e infantile.
    Ma che ci si poteva aspettare da una pianista come quella? Aveva ancora i capelli umidi di pioggia, in generale era a dir poco impresentabile.
    In compenso sembrava si stesse divertendo un mondo.

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    Edited by Cattleya - 4/8/2020, 23:42
     
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    Era nuovamente martedì. I miei nuovi video erano usciti due giorni prima sul mio Patreon e, l’indomani, sarebbero stati di dominio pubblico. Mi ero concessa ventiquattr’ore di riposo, il giorno prima, per essere pronta a creare altri contenuti e in quel momento avrei dovuto solo scegliere dalla mia lista d'idee, sempre in espansione, quella migliore per tempo e condizioni. Il mio periodo in Giappone stava per finire ed era il caso che dessi il massimo e cercassi di registrare almeno un video in più per il canale dei miei viaggi, dato che non sarei tornata per un po’. Eliza’s Musical World sarebbe sopravvissuto senza nuovi video registrati a Tokyo. Anzi, ritornare a casa di mio nonno e avere un grand piano a mia disposizione sarebbe stato fantastico, dopo qualche mese di astinenza. Per il canale sulla cultura, invece, avevo una lista di video a tema Giappone da completare e solo dodici giorni per farlo.
    Quella mattina avevo deciso di dedicarmi a ben due dei miei video per Eliza Travels the World: il riassunto della mia esperienza a Tokyo, del quale avrei presto iniziato a scrivere il copione, e la preparazione di due piatti giapponesi abbastanza complicati, il kamameshi e il chawan mushi. Avevo preparato tutto il necessario per quei video quella mattina, subito dopo essermi svegliata, ed ero corsa alla stazione di Edogawa, dalla quale mi ero diretta a Taito. Stando alle previsioni, quella mattina era prevista pioggia e io volevo assolutamente dei footage dell’esterno dei templi della circoscrizione prima che ciò accadesse. Avevo preso il primo treno, ritrovandomi a filmare qualunque cosa mi capitasse a tiro o potesse attirare la mia attenzione, senza sapere quanto di tutto ciò sarebbe finito in un mio video, negli archivi dei miei footage inutilizzati o nel mio archivio personale, dove tenevo i ricordi più belli.
    Spesi un’ora e mezzo alla ricerca degli istanti perfetti da immortalare, fermandomi solo quando sentii la prima goccia di pioggia cadermi tra i capelli. Avevo portato un ombrello, per precauzione, quindi lo presi e continuai a riprendere per qualche altro minuto, per poi decidermi a filmare la strada mentre tornavo alla stazione. La pioggia s’intensificava ogni secondo di più e il mio stomaco, nel mentre, decise di avvertirmi di una mia mancanza: nella fretta d’iniziare a lavorare mi ero dimenticata di fare colazione.
    Per mia fortuna, notai un locale non troppo distante, nel quale decisi di entrare. L’atmosfera all’interno era molto accogliente, seppur ricordasse una sala da tè per aristocratici del tempo che fu. In un certo senso, mi ricordava l’Inghilterra, in cui presto sarei tornata. Un senso di nostalgia per il Giappone iniziò a farsi sentire, nonostante avessi ancora una dozzina di giorni da passare a Tokyo, ma passò non appena una cameriera mi diede il benvenuto nella sua lingua materna. Ero ancora a Tokyo, in fondo: avrei potuto stare lì ancora per un po’ e non era il caso di rovinare i miei ultimi giorni rimpiangendo di non averne avuto altri.
    La sala e l’abbigliamento a tema delle cameriere mi facevano sentire quasi un’estranea. Mentre loro avevano abiti richiamanti il vintage, io avevo una t-shirt grigia con sopra la firma di Bach e una gonna nera senza un particolare motivo. A ciò accompagnavo un paio di sneakers bianche e la mia inseparabile tracolla nera, a cui se ne aggiungeva un’altra per la macchina fotografica. Ero totalmente fuori luogo, ma avrei dovuto accontentarmi finché non avessi avuto lo stomaco pieno.
    Mi avvicinai al bancone, sorridendo, e chiesi un cornetto e un caffè. La colazione nipponica mi sarebbe mancata, ma, per il momento, mi sarebbe servito qualcosa di veloce. Quel giorno avrei mangiato ciò che avrei presto provato a cucinare, quindi il cibo giapponese non mi sarebbe mancato.
    La cameriera che mi servì mi riconobbe e, approfittando della poca gente nel locale, provò a chiacchierare un po'. Si chiamava Mariko e, a quanto pare, era una pianista che seguiva il mio canale musicale alla ricerca di nuove idee e fraseggi da usare nel jazz. Mi trattenni con lei finché non mi chiese di suonarle qualcosa al piano. Ci avrei guadagnato una colazione gratuita, per quanto non avrei comunque pagato troppo, ma non fu per quello che decisi di accettare. Peccato che, mentre parlavamo, il Rondò alla Turca, allegro e prorompente, iniziò a suonare. Voltandomi non appena sentii quelle note, notai che fosse una ragazza a suonarle. Mariko mi confidò di non sapere chi fosse, ma non mi curai troppo della cosa: l’idea di suonare a quattro mani avrebbe potuto rendere più divertente qualcosa che già avrei fatto con piacere, quindi perché no?
    Salutai Mariko e mi avvicinai al piano, ascoltando la ragazza e aspettando che finisse di suonare. La sua esecuzione era stata davvero impeccabile: era andata perfettamente a tempo, senza sbagliare nemmeno una nota. Non c’era dubbio che quella ragazza sapesse il fatto suo, ma avevo visto da lei solo un’ottima esecuzione di un brano di repertorio che, purtroppo, non mostrava le sue capacità d’improvvisazione, soprattutto per ciò che avevo intenzione di suonare.
    «Un’esecuzione notevole. Complimenti!» Dissi, sorridendo e avvicinandomi a lei. «Dalla regia mi hanno chiesto d’intrattenere un po’.» Indicai distrattamente il bancone con un cenno del capo, per poi continuare. «Ti va un po’ di jazz a quattro mani?»
    Non volevo cacciarla via e l’opportunità di suonare con una persona così brava, se si fosse rivelata anche un’ottima improvvisatrice, non sarebbe stata da perdere.
    «Pensavo di suonare qualche standard abbastanza semplice, come Blue Monk o Autumn Leaves in sol minore. Che ne pensi?»
    Idealmente, se fossi stata da sola, avrei suonato qualcosa di più complesso, come Jordu, o una ballad, come Blue in Green, ma non conoscevo la mia interlocutrice. Sapevo solo che il jazz mi sembrava un ottimo modo per far felice Mariko, non quanto quella pianista sconosciuta padroneggiasse il genere. Se avessi trovato una buona jazzista, suonando a quattro mani avremmo potuto riempire il brano, aggiungendo una linea di walking bass, degli accordi di sottofondo e a improvvisare o fare il tema senza compromessi.
    Se avessi trovato anche una ragazza disposta a suonare con me, le avrei chiesto se avessi potuto sedermi alla sua sinistra e, in caso di un’altra risposta affermativa, l’avrei fatto senza problemi. Non vedevo l’ora di sedermi e suonare un po’ con lei.


    «Parlato»
    "Pensato"
    «Parlato di Kasumi»

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    Note per il lettore:

    ♪ Gli standard jazz sono brani abbastanza conosciuti da essere diventati di cultura generale (almeno tra i jazzisti). Essi sono spesso giri di accordi abbastanza complessi, accompagnati da una melodia, chiamata “tema”, che identifica il brano. La struttura di un brano jazz è la seguente:
    -Si suona il tema una volta (o due, nel caso dei blues jazz). Il tema dura tutto un giro;
    -Ogni musicista che vuole fa un assolo improvvisato. Ciò può avvenire secondo un ordine già determinato o attraverso sguardi, che dicono al momento al musicista interessato di fare l’assolo. Ogni assolo dura uno o più giri completi;
    -Si possono fare i così detti “scambi” (assoli improvvisati della durata di una frazione di giro, in cui i vari strumenti si succedono, “scambiandosi il turno per fare l’assolo”). Anche gli scambi possono seguire un ordine, per quanto riguarda gli strumenti, o avere una struttura improvvisata. Di solito, se c’è una batteria o un’altra percussione, essa si frapporrà tra gli assoli di tutti gli altri strumenti. Gli scambi possono durare uno o più giri completi;
    -Si suona il tema un’ultima volta (o due, nel caso dei blues jazz) e si conclude il brano.
    Di solito, il piano fa accordi di accompagnamento con entrambe le mani (o solo con la mano sinistra, per accompagnarsi durante l’assolo o se deve suonare il tema). Tuttavia, in mancanza di un basso/contrabbasso, la mano sinistra può fare walking bass, ossia emulare le famose linee di basso jazz che portano quel nome.

    ♪ Quanto il punto precedente possa essere conosciuto a qualcuna che ha fatto musica classica per tutta la vita è qualcosa che... spetta a te decidere, Cat, ma certamente Kasumi può aver riconosciuto la firma di Bach. Essa è composta da due pentagrammi, uno orizzontale e uno verticale, che s’incontrano formando una croce al cui centro si trova una semibreve. Ogni braccio della croce ha una chiave in posizione diversa, in modo che, leggendo da diverse angolazioni, la semibreve sia un si (naturale), un la, un do o un si bemolle, note che, in notazione tedesca, vengono chiamate B, A, C e H. Per la cronaca, il motivo formato da queste quattro note è utilizzato in alcune composizioni come tributo all’artista.

    ♪ Suonare il piano a quattro mani significa suonare in due uno stesso piano. L’espressione non è da confondere con il duo pianistico, ottenuto facendo suonare a due musicisti due piani diversi.

    ♪ Metto qui i brani nominati da Elizabeth per includerli senza distrarre la lettura:

    Blue Monk (Un blues jazz)
    Autumn Leaves (Uno standard jazz tra i più conosciuti)
    Jordu (Un altro standard jazz, un po' più complesso degli altri due)
    Blue in Green (Una ballad jazz)

    Le versioni elencate hanno il solo scopo illustrativo, dato che nel jazz c'è molta libertà di esecuzione e arrangiamento.


    Edited by Antoil69 - 6/8/2020, 15:24
     
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    “Non c’è molta gente, per cui non attirerò troppo l’attenzione” sarebbero state le ultime parole famose di Kasumi. Le ultime parole famose di una lunga lista di parole famose, quindi non avevano chissà che valore.
    Tanto per far capire, secondo la testolina vuota di Kasumi il tutto sarebbe dovuto essere più figo.
    Un po’ come quei musicisti famosi che suonavano per strada, nessuno li riconosceva e nessuno si fermava, e poi si scopriva che da lì a poco avrebbero tenuto un concerto i cui i biglietti erano finiti minimo una decade prima.
    In quel caso era ancora più figo, perché la musicista in questione era lei.
    L’erede spirituale di Mozart era arrivata per incantare tutti con la sua musica, ma nessuno se n’era accorto e nessuno avrebbe saputo l’identità della misteriosa e talentuosa pianista.
    E invece no, aveva attirato l’attenzione.
    Che disastro. Era persino troppo tardi per una ritirata strategica, doveva prepararsi a combattere.
    Uffi.
    «Un’esecuzione notevole. Complimenti!» disse una ragazza tutta sorridente e carina. Kasumi si girò per vederla meglio, ma era più incuriosita che colpita dai complimenti.
    Infatti non era per niente colpita. Riceveva complimenti da troppo tempo e non aveva voglia di fingersi una ragazza modesta e imbarazzata, che rifiutava i suoi meriti con educazione e compostezza.
    Sapeva di essere un genio, grazie mille. Andiamo pure avanti, che questa parte ormai la sapeva a memoria.
    Non aveva prestato molta attenzione nello studiare l’aspetto della ragazza, la cosa più importante era vedere si stava avvicinando e non l’aver ancora capito che volesse.
    Che figata di t-shirt, però. Le avrebbe chiesto dove l’avesse presa, se solo non avesse avuto il ribrezzo la discussione sarebbe finita col parlare di vestiti.
    Però notò le unghie della tizia, così corte doveva per forza essere una musicista. A giudicare dal commento, una pianista.
    Una rivale, quindi.
    Quel giorno voleva essere lasciata in pace. Come tutti gli altri giorni, del resto.
    Che sfiga.
    «Dalla regia mi hanno chiesto d’intrattenere un po’.»
    Ecco, appunto. Faceva schifo con le altre cose -come indovinare l’età ecc- ma in quello difficilmente si sbagliava.
    In realtà si sbagliava anche in quello, ma comunque.
    Adesso era curiosa di sapere chi fosse questa regia. Si era spostata un po’, tentando di non mandare a quel paese il baricentro e allo stesso tempo non sforzare troppo la schiena, col risultato che spiare il bancone del café non poteva essere più ovvio di così.
    Beh, comunque non conosceva nessuno, chi se ne fregava di chi fosse la regia in tutto quello.
    «Ti va un po’ di jazz a quattro mani? Pensavo di suonare qualche standard abbastanza semplice, come Blue Monk o Autumn Leaves in sol minore. Che ne pensi?»
    Pensava che non ci aveva capito proprio un accidente di quello che aveva detto, ma in che lingua parlava questa? E dire che Kasumi parlava a livello madrelingua sia tedesco che giapponese, con una buona conoscenza dell’inglese e delle parolacce in polacco.
    Ma tutto quello non aveva molto senso, e -essendo Kasumi trasparente come vetro- fu piuttosto evidente quanto quella cosa l’avesse confusa. E la stesse anche un po’ indispettendo, per questo.
    A parte sarebbe stato facile capire lo stato d’animo di Kasumi. Non si era impegnata per ricambiare il sorriso dell’altra nemmeno per un attimo.
    Non aveva mai suonato jazz, primo.
    Non suonava a quattro mani, secondo. Era una solista ed era una scelta personale, comunque, di certo non era perché era un disastro e tendeva a rubare troppo spazio all’altro pianista.
    Per il resto, la misteriosa ragazza avrebbe potuto anche parlare in turco. Non aveva certo capito perché un monaco dovesse essere blu.
    E continuava a piovere.
    Avrebbe potuto inventarsi una scusa per andarsene, ma non ne sapeva creare di convincenti. Era un sacco a disagio, ma per fortuna quello si nascondeva piuttosto bene.
    In teoria doveva prendere una pausa dal pianoforte. Anche se quella ragazza avesse parlato in giapponese -e dubitava l’avesse fatto, non era stata comprensibile- avrebbe avuto paura di bloccarsi a metà esecuzione.
    Non che l’avrebbe confessato: era un genio.
    I geni non soffrono di sindromi da burnout.
    Quindi quella fu la prima volta che osservò sul serio la strana pianista, come a volerla studiare per valutare se ne valeva la pena.
    Non doveva essere giapponese. Dall’accento sembrava… boh, forse inglese. Forse no. Non le importava.
    Fine, non aveva capito nient’altro.
    Kasumi era l’erede spirituale di Mozart, mica quello di Sherlock Holmes.
    «Ceerto, perché no?»
    Non era sembrata molto convinta.
    Doveva trovare un modo per uscire da tutto quello. Forse l’altra l’aveva fatto apposta, a metterla in una situazione tanto complicata.
    Quella sarebbe stata una dichiarazione di guerra vera e propria. Una vera sfortuna per la ragazza in questione, allora, perché Kasumi era abituata a quel tipo di guerra.
    Sarebbe uscita vittoriosa anche da quella battaglia, perché doveva sopravvivere a ogni costo.
    Si alzò, con la solita attenzione a non sforzare la zona lombare della schiena -cosa che le veniva ormai d’istinto, ma che un occhio attento avrebbe potuto notare.
    «Ma devo finire il mio caffè freddo e sono pur sempre un genio, l’erede di Mozart e tutte quelle stupidaggini là.»
    A quel punto sorrise, per quanto sembrasse un sorriso più di sfida. Indicò, con un gesto della mano, la panchetta del pianoforte in modo così teatrale da sembrare in un drama.
    «Mostrami di cosa sei capace, prima.»
    Un po’ come prova da superare, ok. Tutto per il privilegio di poter suonare con Kasumi, wow.
    Anche perché aveva davvero un caffè freddo da finire, quella non era una scusa.
    Se la tizia avesse accettato, era anche sicuro si sarebbe sentita osservata per quasi tutto il tempo dell’esecuzione. Kasumi le aveva promesso l’avrebbe studiata, quindi l’avrebbe fatto.
    Anche perché non capiva nulla del genere, almeno così poteva mettere una pezza di fortuna alla sua mancanza.
    I geni della musica non si mettevano in ridicolo, che rabbia.

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    La ragazza mi guardò con… curiosità?
    Nella sua espressione c’erano tante emozioni che una parte di me non riusciva a decifrare. Le avevo chiesto di suonare qualcosa insieme, per giunta di semplice, se avesse conosciuto il genere. Eppure, lei mi sembrava tutto fuorché cordiale. Per un istante, la pianista aveva rivolto lo sguardo e tutto il suo corpo oltre la mia figura, in modo da poter fissare qualcosa dietro di me. Supposi che avesse lanciato un’occhiata al bancone, dato che avevo appena nominato il fatto che qualcuno di loro mi avesse appena chiesto di suonare, ma non potevo saperlo con certezza. Fatto sta che la sua risposta successiva fu piuttosto eloquente.
    «Ceerto, perché no?» Inutile dirlo, era stata tutto fuorché cortese. Avevo iniziato a parlare con quella ragazza da meno di due minuti e già un’idea abbastanza chiara su di lei mi si stava facendo largo in mente. Tuttavia, la battuta che fece dopo sembrò alleviare la tensione che si stava creando tra le due perfette sconosciute che eravamo.
    Sorrisi a mia volta, trovando divertente quell’esagerato modo di presentarsi riferendosi al brano che aveva appena finito di suonare. La bravura della mia interlocutrice era innegabile, ma l’esagerazione era comunque innegabile. Mozart, dopotutto, era diventato famoso per la sua musica, non per quanto bene suonasse quella degli altri.
    Avevo preso la cosa in tono molto amichevole, ma lo sguardo di sfida della ragazza non mi era sfuggito, così come il gesto, piuttosto teatrale, con cui mi aveva invitata a sedermi al piano. Sì, la cosa si stava rivelando molto divertente.
    Avevo avuto modo, negli anni, di conoscere molti pianisti votati alla musica classica. Dopotutto, anche mio nonno lo era e avevo mosso i primi passi della mia vita musicale in quell’ambiente, distaccandomi solo molto più tardi. Avevo sempre adorato la possibilità di mostrare le mie abilità al piano attraverso brani sempre più belli e complessi, ma se c’era una cosa che odiavo di tutto ciò era quanto quell’ambiente fosse elitario. Molte persone prendevano la musica come una competizione volta all’affermazione di sé e non come un’arte. Tuttavia, ciò mi era risultato chiaro solo quando avevo deciso di prestare le mie abilità ad altri generi. Avevo imparato, negli anni, quanto fosse difficile improvvisare e applicare davvero quello che qualche insegnante di teoria mi aveva detto tempo addietro quando avevo avuto modo di affacciarmi a tutto ciò che era venuto dopo il blues.
    Avevo incontrato tanta gente votata a diventare il miglior jukebox del ventunesimo secolo senza nemmeno conoscere qualche lick elementare per accompagnare un 2-5-1 maggiore. Talmente tanta che mi bastò quel poco che vidi per capire che la mia interlocutrice potesse essere una di loro.
    «Mostrami di cosa sei capace, prima.»
    Quella frase confermò la mia teoria. Avevo invaso il territorio di un animale solitario e possessivo. Suonare contro qualcuno andava contro quello che la musica rappresentava per me, ma avevo promesso a Mariko che avrei suonato qualcosa e non mi sarei tirata indietro.
    Inoltre, non conoscevo davvero chi avevo davanti. Avevo fatto tutta una serie di supposizioni basate su una prima impressione e, per quanto la cosa mi sembrasse lampante, avrei potuto sbagliarmi, ragionando per stereotipi.
    «D’accordo!» Le risposi, amichevole come prima e cercando comunque di concederle il beneficio del dubbio. «Se cambi idea, sai dove trovarmi.»
    Mi sedetti sulla panca, prendendomi qualche istante per regolare l’altezza della seduta a mio piacimento.
    La scelta del brano da suonare fu quasi elementare per me: una ballad. Mi tornò alla mente un arrangiamento di Almost Blue per solo piano e decisi di suonare quello. Il brano non era eccessivamente veloce o tecnico, ma nessun vero musicista avrebbe mai giudicato un brano dalla sua complessità.
    Suonai naturalmente, concentrandomi sul brano e dimenticandomi momentaneamente di chiunque mi stesse guardando. In quel momento, in fondo, stavo servendo la musica, non il mio ego.
    Per quanto mi ero messa a improvvisare sul brano, tra il tema iniziale e quello conclusivo? Solo per qualche giro, ma sapevo quanto i giri di quel brano potessero essere lunghi, dato anche il tempo molto lento dell’esecuzione. Intanto mi ero divertita. Mi girai istintivamente prima verso Mariko, regalandole un sorriso, poi verso la pianista di cui ancora non sapevo il nome. Più tardi glielo avrei chiesto volentieri. Per il momento, però, era più importante ritrovarla tra la folla e vedere se fosse ancora intenzionata a suonare con me.
    Semmai l’avessi trovata, le avrei sorriso e chiesto di nuovo se si volesse unire a me. Se avessi ricevuto un altro suo rifiuto, non avrei insistito e mi sarei goduta un altro po’ di tempo al pianoforte. Tuttavia, sarebbe stato piacevole anche suonare con lei. Chissà che non potesse sovvertire le mie aspettative e mostrarmi qualche fraseggio niente male. Dopotutto, avevo solo un modo per scoprirlo.


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    Note per il lettore:

    ♪ Il 2-5-1 maggiore è una progressione di accordi presente in molti brani jazz.

    ♪ I fraseggi (in inglese "licks") sono parti della melodia di un assolo, sia esso improvvisato o no. Un musicista può anche decidere d'impararle e, ogni tanto, riproporle (o d'impararne alcune carine che sono uscite a lui stesso durante l'improvvisazione)


    Edited by Antoil69 - 9/12/2020, 16:19
     
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