The midnight gospel

Kiriyama Tsukasa & Lazar Stefanovic Khabarov - 02/04/20 @Hatomori Hachiman Shrine, Sendagaya (Dalle 22:30, nuvoloso, 15°)

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    Kiriyama Tsukasa
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    Le ventiquattro ore del giorno non erano sufficienti per adempiere a tutti i suoi compiti, cosa che stava portando Tsukasa allo sfinimento. Ma finché non lo dava a vedere, ed evitava di preoccupare gli altri, andava bene.
    Forse perché era Izanami, il futuro capoclan di una famiglia come i Kiriyama, dove un solo secondo di distrazione gli sarebbe costato l’essere schiacciato dai doveri.
    Forse perché Tsukasa era naturalmente una persona incapace di dire no, quando gli si chiedeva un favore. Cosa che portava la gente, per dirla in maniera carina, a sfruttarlo come un mulo.
    Per un sacco di motivi, i suoi doveri e impegni sembravano non finire mai. Il loro numero era inferiore solo a quello delle preoccupazioni che lo tormentavano. Gli avevano già detto non era naturale avesse già la maturità di un uomo adulto, ma non poteva farci molto.
    “Va al tempio di Hachiman sulla strada per tornare a casa”. Le parole del suo rivale, poco prima della fine della partita di shogi, l’avevano riportato alla realtà in maniera quasi brutale. Non era sua abitudine giocare così sovrappensiero da avere il pilota automatico, ma quel giorno gli sembrava inevitabile.
    Stava vincendo quella partita, ma la vittoria non era di sicuro meritata. Di certo non se la stava godendo, come non era riuscito a gioire della sua ammissione all’università che tanto voleva frequentare.
    “Prega per vincere il torneo se sei così preoccupato. È un kami, vedrai non gli importerà molto dell’orario.”
    Tsukasa avrebbe dovuto chiedere un miracolo, più che la protezione di Hachiman.
    Il suo avversario non aspettò nemmeno una sua risposta. Dichiarò la sua sconfitta e, lasciato con l’ingrato compito di mettere a posto le pedine sulla scacchiera, Tsukasa lo vide prendere le scale per uscire. Non gli rimase che un insopportabile amaro in bocca, come se ad aver perso fosse stato lui.
    Era effettivamente tardi per visitare il santuario di Hachiman. I servizi chiudevano alle cinque del pomeriggio, rendendo una visita notturna più unica che rara.
    Ma che male gli avrebbe fatto?

    La fede di Tsukasa era solo di facciata. Agli occhi degli altri era meglio professarsi shintoista, ma la verità era che si rifiutava di credere i kami esistessero. Se fossero esistiti davvero, Tsukasa avrebbe serbato solo rancore verso i loro confronti fino a rendersi il sangue veleno.
    Sarebbe stata la soluzione più semplice, e avrebbe avuto qualcuno con cui prendersela per la morte di Akira, ma non sarebbe stata quella giusta.
    Avrebbe preferito visitare la tomba di Akira, piuttosto che il santuario di un kami. Ma se c’era un momento in cui si poteva convincerlo a pregare a un santuario era proprio quello.
    Il torneo lo preoccupava. Avrebbe voluto non iscriversi, perché la data di inizio coincideva con le prime lezioni universitarie. Era riuscito a entrare in un’università tanto prestigiosa come la Keio, sarebbe anche stato il caso di impegnarsi per avere dei buoni voti.
    Bene, Hayato aveva distrutto i suoi piani con la pacatezza di un uragano. Non solo l’aveva praticamente costretto a iscriversi al torneo, aveva continuato dicendo non c’erano speranze lui passasse al 5° dan, ma se otteneva un solo punto di demerito poteva considerare i suoi fondi per l’università tagliati di netto.
    Tsukasa non aveva alcuna intenzione di sfidarlo, sapeva ne era capace.
    Un solo capriccio di Hayato bastava perché l’intero clan si dovesse muovere per accontentarlo. Il più delle volte, quindi, era meglio tenerlo di buonumore. Il che si traduceva in una passeggiata in un campo minato, con il terrore di perdere una gamba da un momento all’altro. Come minimo.
    Gran motivo per cui non invidiava per niente Shinya e Shuya. Ed era abbastanza sicuro i gemelli non invidiassero Izanami.
    Gli dava ragione.
    Nessuno, effettivamente, invidiava molto Izanami. Non quando doveva trattare con una persona tanto imprevedibile come Suzaku, per cui era difficile persino capire che gli passasse per la testa.
    Come aveva previsto, al santuario di Hachiman non c’era nessuno. L’aria della sera era fresca e il silenzio era quasi innaturale. A osare interromperlo c’era solo il frusciare delle foglie e il rumore dei suoi passi.
    E Tsukasa fece l’errore di abbassare la guardia.
    Non del tutto, veniva pur sempre da una famiglia dove i tuoi stessi parenti potevano provare ad ucciderti. Sua madre aveva provato a farlo fuori giusto la settimana prima, in uno scontro che si era concluso con Reina che gli ricordava di buttare la spazzatura.
    Quindi.
    Ma era quasi mezzanotte, era in un santuario come se pregare Hachiman potesse risolvere tutti i suoi problemi e, come contorno di tutto, si sentiva a pezzi. Cioè, si sentiva a pezzi tutti i giorni, ma lo stress dell’ultimo periodo periodo gli stava dando il colpo letale.
    Perché c’era anche quell’altro problema. Quello che si chiamava Minami Junichi e non poteva di certo vivere nel seminterrato dei Kiriyama.
    Un problema che richiedeva una soluzione veloce, magari.
    Se Hachiman fosse esistito davvero, forse avrebbe pregato anche per chiedergli consiglio su quello. Ma non esisteva e non gli avrebbe dato alcuna soluzione.
    Si ritrovava di nuovo davanti a una soluzione facile, Hayato gli aveva già chiesto perché non l’avesse ancora ucciso, e nessuna idea di quale poteva essere quella giusta.
    Nemmeno gli Ayakashi erano esattamente a loro agio riguardo la situazione, la punizione che avevano ricevuto da Suzaku era stata a dir poco esemplare.
    Suonò la campana, che nel silenzio risuonò persino troppo rumorosa, e si mise a pregare.
    Avrebbe finito subito quell'idiozia e sarebbe tornata a casa il prima possibile.

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    Avviso! Le parti con Milo sono state scritte in collaborazione con la sua roler.

    Lazar S. Khabarov「 Echo 」
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    All’altro capo di Tokyo qualcuno rideva.
    Si trattava di una coppia di giovani uomini, ciascuno con una birra in mano. Il tintinnio ferroso delle lattine suggellò un brindisi: alla laurea sempre più vicina, kanpai!
    Lazar gettò nella loro direzione un’occhiata a metà tra l’infastidito e l’invidioso, un mix di emozioni che non si addiceva per niente a uno come lui ma a cui era innegabilmente abituato. Puoi - e devi - nasconderti dietro bellissime apparenze quanto vuoi, ma un mostro resta sempre un mostro: la fierezza del lupo sta nel rimanere fedele a se stesso anche quando si camuffa tra le pecore, parole di suo nonno che ogni tanto gli tornavano alla mente. Durante la loro ultima telefonata, мама aveva avuto la pessima idea di rimarcare quanto il suo modo di ragionare negli ultimi tempi ricordasse quello del nonno; inutile dire che Lazar aveva tagliato corto la conversazione e passato il resto della giornata ad annerire ogni cosa col suo pessimo umore.
    Ma tornando alla situazione attuale, non avrebbe finto con se stesso di non covare invidia verso chiunque sembrasse divertirsi o anche solo essere spensierato.
    Giusto quello stesso pomeriggio era uscito con alcuni colleghi, senza però riuscire a rilassarsi neanche per un momento. Tra i casi di Alexey, la lite tra le sorelle, la durezza quasi punitiva di Viktoriya nei suoi confronti e le menzogne di Ninel’, come avrebbe dovuto rilassarsi? Se tutto sembrava andare inevitabilmente alla deriva, quanto tempo gli rimaneva prima di esaurire le energie e affogare?
    Ah, che domanda stupida.
    La risposta era semplice: non sarebbe affogato e basta. Non a causa di qualche imposizione od obbligo - il ruolo di erede ricadeva ancora formalmente su di lui, pur essendo a conti fatti in pugno a Viktoriya -, ma per un semplice e genuino desiderio di proteggere la sua famiglia. La famiglia era la cosa più importante, uno ad uno i problemi sarebbero stati affrontati con la giusta attenzione. Папа aveva avuto di recente la pessima idea - Stefan e Yekaterina erano affini anche in questo, evidentemente - di commentare che era proprio quello lo spirito di un capofamiglia. Peccato che con lui Lazar fosse ben più schietto e rude che con la madre, quindi non ci aveva pensato due volte prima di mandarlo a quel paese.
    Si lasciò alle spalle gli universitari, proseguendo con una mano stretta a pugno intorno alla cinghia della tracolla dell’istituto Serizawa. Si era preso fin troppo tempo. Il pomeriggio cominciava a trasformarsi in sera e presto gli Yuurei e Milo Onishi avrebbero avuto un appuntamento al buio con Kiriyama Tsukasa.

    «Per favore, Zarya, cerca di non peggiorare di nuovo la situazione.»
    Viktoriya ce l’aveva con lui dalla notte in cui aveva arruolato Milo Onishi e Lazar non riusciva a darle torto.
    Ninel’, al contrario, sentendo quelle parole aveva sbuffato accompagnandosi con uno sventolare della mano destra che sembrava voler scacciare un insetto. «E tu potresti per favore evitare di metterci altra pressione addosso, Viktoriya? Vi aspetto sotto.» la redarguì aspramente prima di darle le spalle e uscire di casa.
    Lazar annuì, ma una volta rimasto solo con la sorella, meno collaborativa che mai, le rivolse un sorriso comprensivo. «Niente colpi di testa, promesso. Lavoriamo insieme come al solito e andrà tutto bene.»
    Ma le sue buone intenzioni si scontrarono con lo sguardo torvo della sorella meno collaborativa che mai. «Di solito non dobbiamo scarrozzarci dietro un cane da caccia.»
    “Esistono tre tipi di persone: i lupi, le pecore e i cani da caccia. In questa famiglia si allevano solo lupi e si mangiano solo pecore, e se provate a diventare cani da caccia vi spezzo tutte le ossa.”
    L’espressione di Lazar si velò di amarezza: era triste vedere come le parole di Ivan Nikolayevič Khabarov vivevano ancora attraverso di loro. «Lo terrò al guinzaglio.» tentò ancora una volta, per il bene di una famiglia di cui in quel momento era il collante.
    Senza ulteriori scambi di battute, anche loro uscirono dall’appartamento.

    Tsukasa Kiriyama era uscito ad un orario abominevole dall’edificio in cui si giocava a shogi, di cui Echo non sapeva il nome e che aveva erroneamente definito lo shogificio.
    Il gruppo si era diviso per una questione di comodità: Nebula e Megitsune ciascuna per i fatti propri, Echo e Milo insieme.
    Milo si era rivelato assai meno paziente di Echo. «Che due palle… ma non poteva andare da un’amante segreta? Sarebbe stato sicuramente più interessante degli allenamenti.» aveva sbuffato a un certo punto. «È passato così tanto tempo che facevo prima ad andare al The Annex, ubriacarmi, ballare, farmi passare la sbronza e tornare per vederlo ancora qui.»
    La risposta di Echo fu una risata smorzata dalla maschera, ma sincera. «Ma dai, anche tu vai al The Annex? Chissà se ci siamo mai incontrati.» uno come Milo era difficile da dimenticare, ma di persone nuove ne incontrava continuamente.
    «Possibile, e sempre se non sei andato nei bagni… lì ci ho fatto sesso qualche volta, non te lo consiglio.»
    «Hah, ho fatto di peggio. Impieghiamo produttivamente il tempo, ti ho mai raccontato» domanda retorica, Milo non sapeva niente di lui «di quella volta in cui il mio ex mi tradì e io mi vendicai tradendolo col suo amante?»
    Almeno si erano divertiti finché Tsukasa Kiriyama non era uscito dallo shogificio a quell’orario abominevole. Le cose non erano andate esattamente come previsto: invece di tornarsene verso Shinjuku, Tsukasa Kiriyama aveva preso tutt’altra strada. Forse aveva davvero un’amante segreta?
    No, purtroppo per Milo, Tsukasa non aveva affatto un’amante segreta. A meno che non fosse sposato con un kami. Li aveva colti alla sprovvista mandando all’aria i loro piani, così Echo si era messo in contatto con le sorelle e aveva organizzato in fretta e furia un’imboscata in piena regola: non c’era da sperare che le cose andassero per il verso giusto e che il kami di Hachiman non si infuriasse con loro.
    Quando ciascuno fu al suo posto - a parte Viktoriya, che aveva deciso di fare da palo onde evitare altre sorprese -, il primo a colpire fu Milo. Il luogo poteva essere diverso, ma non il piano: catturare un ghoul senza ucciderlo non era facile, perciò era stato essenziale procurarsi un inibitore di cellule RC - come Milo ne fosse entrato in possesso Echo non lo sapeva, ma immaginava facesse parte dell’equipaggiamento di un Investigatore tecnicamente di ronda.
    L’Investigatore aveva atteso che la preghiera si concludesse per far coincidere il suono della campana con quello del colpo sparato. Se quest’ultimo fosse andato a segno - ed Echo sperava che Milo avesse una buona mira nonostante la scarsa illuminazione - sarebbe stato il suo turno di uscire allo scoperto, la rinkaku già pronta a colpire non per ferire, ma per tramortire.
    Il suo obiettivo, arrivando di corsa alle spalle di Tsukasa, era sfruttare quei brevi istanti di effetto sorpresa e l’estensione della kagune per colpirlo di piatto con uno dei tentacoli alla tempia destra: una mossa decisamente fuori dall’ordinario per qualcuno più istruito per tagliare teste che far impattare il cervello con la parete del cranio per indurre uno svenimento.
    Davvero, non voleva tagliargli la testa né ricorrere al piano B. Se nei secondi successivi una testa fosse volata via sarebbe stata colpa della sua deformazione professionale.
    -------------------------------
    «Parlato.»
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    Edited by Yukari - 18/10/2021, 12:28
     
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    Kiriyama Tsukasa
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    Vedrai che pregare un Kami non può portare che bene, dicevano. Era per quello che era lì, oltre per il fatto che una divinità non è un impiegato con le ore pagate, quindi in teoria l’ora in cui hai bisogno di aiuto non dovrebbe importare poi molto.
    Il che aveva un suo senso, ma Tsukasa non era esattamente entusiasta di lasciare il compito di proteggerlo a qualcuno che non esisteva, e voleva solo tornare a casa presto.
    Anche quando si trattava di Hachiman, considerato il protettore del Giappone e di tutti i giapponesi.
    E se c’era qualcuno che poteva (e voleva) proteggere un clan di guerrafondai come i Kiriyama, quello era un kami della guerra come Hachiman.
    Se fosse esistito.
    Ma dato che questo non era il caso, qualcosa lo colpì al fianco e fece ben più male di quanto avrebbe dovuto.
    O forse quello era il modo più veloce per il kami di dirgli si rifiutava, in una specie di punizione karmica. Non sarebbe di certo stato Tsukasa a dire di non meritarselo.
    Doveva rimanere tranquillo. Chi mostrava debolezze come la paura era già morto.
    Chi seguiva le regole del clan sopravviveva.
    Aveva i suoi dubbi su questo, ma non aveva poi chissà quale altra scelta se non seguire l’istinto.
    Il kakugan, che avrebbe dovuto sostituire il naturale bianco della sclera e il blu delle iridi, per quel giorno decise di non attivarsi. Un dettaglio che avrebbe potuto avvertirlo di un sacco di cose, se non fosse era uno di quelli impossibili da notare.
    Doveva agire in fretta.
    Come prima cosa, lasciò la presa sulla corda della campana con movimenti il più naturali possibili, come se non fosse successo proprio nulla. Un atteggiamento che si sarebbe impegnato per mantenere, a costo di stringere i denti.
    Come se il proiettile non avesse mai centrato il suo bersaglio.
    (A dire il vero, Tsukasa non era esattamente un attore. Era abituato a nascondere qualsiasi forma di debolezza, soprattutto fisica, ed era bravo, ma a un livello ragionevolmente umano. Se ci si fosse messi a studiarlo cercando esattamente quelle incongruenze che potevano tradirlo, sapendo più o meno cosa cercare, allora era facile trovarle.
    Come quell’attimo di esitazione prima di agire. Quello che gli era servito per capire cos’era successo, aggrappando con forza la corda della campana per colpa del dolore.)
    Quindi c’era un cambio di programma.
    Ora doveva liberarsi di chiunque l’avesse colpito, poi poteva finalmente tornare a casa. Il piano era sostanzialmente quello, molto semplice, molto guidato dall’istinto…
    e molto interrotto.
    Per un semplice fattore.
    Uno molto grave e molto ansiogeno, abbastanza efficace da rompere del tutto la pretesa di Tsukasa di fingere avesse la situazione sotto controllo.
    La rinkaku non c'era.
    Non riusciva a richiamare la rinkaku.
    Fu come accorgersi in ritardo di aver ricevuto un’amputazione, una che aveva solo una spiegazione possibile per semplice associazione.
    Ma se prima aveva reagito a tutto con una specie di calma accettazione, quella di chi è consapevole non ci puoi far molto se hai una lista di nemici che attraversa l’Oceano Pacifico, ora era diverso.
    Avrebbe dovuto essere capace di difendersi.
    Di risolvere la situazione, tornare a casa e far fronte ai mille doveri che lì lo attendevano. Le sue possibilità però si stavano riducendo velocemente, sempre non erano state distrutte nell’esatto momento l’inibitore di cellule RC aveva cominciato a circolare nel sangue.
    Lazar fece giusto in tempo a evitare di ritrovarsi contro qualcuno di praticamente disarmato, ma comunque in berserk.
    L'attimo di distrazione gli fece notare troppo tardi l’attacco del ghoul, così oltre al proiettile ricevette pure un colpo di rinkaku in piena tempia.
    Quel giorno era chiaramente il suo compleanno.
    Se gli si può dare un merito, è che non svenne subito. Si aggrappò a quel poco di coscienza che gli rimaneva con tutta la disperazione di cui era capace, ringhiando come una bestia sconfitta e messa all’angolo.
    Cosa vera.
    Persino quello era riuscito a peggiorare l'emicrania, che cominciava già a pulsare senza dargli tregua.
    Non poteva rimanere cosciente molto a lungo, poteva capirlo persino in quello stato.
    Il suo ultimo pensiero, prima di perdere del tutto i sensi, non volle essere nulla di carino. Per fortuna fu anche troppo incoerente e sconclusionato per avere un senso, perché non si poteva dire Tsukasa fosse nelle migliori condizioni psicofisiche possibili.
    Meglio così.

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    Lazar S. Khabarov「 Echo 」
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    Nessuna testa era stata recisa nel rapimento di Tsukasa Kiriyama. Quanto all’essere maltrattata, sarebbe stato ipocrita affermare che non avesse fatto male; probabilmente il poveraccio si sarebbe risvegliato con una bella emicrania. Sebbene le circostanze non fossero le più appropriate, nei brevi secondi impiegati dal corpo di Tsukasa Kiriyama per afflosciarsi al suolo Echo sentì l’adrenalina condensarsi in euforia: finalmente qualcosa che filava liscio come l’olio, un’altra lite con Viktoriya era stata sventata. Non avrebbe ballato sul corpo del nemico svenuto, ma di certo avrebbe preso un profondo e liberatorio sospiro attraverso le fessure della maschera, mentre si accertava che egli fosse veramente svenuto e non stesse giocando a fare il morto.
    Scelta saggia, perché la bestia ai suoi piedi ringhiava: regredito allo stato animale, esattamente come Echo si sarebbe aspettato da un Kiriyama o un Investigatore si sarebbe aspettato da un qualunque ghoul. Non avrebbe però messo la mano sul fuoco che, al posto di Tsukasa Kiriyama, anche lui non avrebbe fatto lo stesso. Era alquanto svilente, ma che cos’altro ti resta da fare quando ti ritrovi disarmato e inerme tra le mani del nemico?
    Comunque stessero le cose, non gli piaceva che gli si ringhiasse contro. Così, guardandolo con sprezzo dall’alto in basso, occhi cremisi in occhi azzurri, disse ciò che avrebbe detto a un cane «Sta’ al tuo posto.» e affondò un calcio all’altezza dello sterno di Tsukasa per indurre lo svenimento.
    Quale modo migliore per sancire l’inizio di una nuova amicizia?

    «Forse abbiamo un po’ esagerato.»
    «Credi che stia morendo?»
    «Pff, è un Kiriyama. Manco l’inferno li vuole, quelli.»
    «Ah sì, è proprio quel che direi io dei Khabarov. Che brutta vita ci aspetta oltre la morte, fratello mio.»
    Lazar scoccò uno sguardo pungente a Ninel’, che senza ulteriori commenti scrollò le spalle e se ne andò augurandogli un buon lavoro. Quello sarebbe stato un lungo turno di guardia, pensò il russo alzando gli occhi al soffitto della casa di Junichi Minami, zona franca designata per la detenzione di Tsukasa Kiriyama. Le ore trascorse da quando avevano trasportato lì dentro il prigioniero, approfittando del favore della notte, si erano dilatate fino a diventare un’attesa insopportabile.
    Avevano organizzato i turni di guardia, sbarrato ogni possibile via di fuga, preparato una seconda dose di inibitore da somministrare se necessario e immobilizzato Tsukasa a una sedia, con delle speciali manette per ghoul in acciaio quinque. Non sarebbe stato facile continuare a procurarsi equipaggiamento di quel tipo, Milo Onishi aveva deciso di rischiare la carriera per la persona che amava. Lazar non poteva che provare un’immensa stima nei suoi confronti. Se fosse stato lui a trovarsi in una situazione del genere, a dover scegliere tra la persona che amava e un’istituzione come la famiglia Khabarov… beh, la risposta l’aveva già data anni addietro, e non ne andava fiero.
    Ancora col volto coperto dalla maschera, Lazar se ne stava appoggiato al muro accanto alla finestra dalle imposte chiuse, le braccia conserte e lo sguardo impassibile puntato su Tsukasa. Il kakugan era sparito, lasciando il posto all’azzurro cristallino delle sue iridi naturali.
    Aveva fatto avanti e indietro un paio di volte prima di fermarsi lì, in attesa, e cominciava a domandarsi se Ninel’ aveva ragione.
    -------------------------------
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    Edited by Yukari - 18/10/2021, 12:28
     
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    Kiriyama Tsukasa
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    Buio.
    Izanami sentì un fischio, acuto e fastidioso, all’orecchio destro. Poi, come una specie di sua fedele compagna, si svegliò anche l’emicrania, un dolore così improvviso non gli permise di fare subito i dovuti collegamenti. Tipo ricordarsi cosa era successo poco prima, al santuario.
    Ma il dolore era una cosa positiva. I cadaveri non provavano dolore.
    Non sapeva quanto tempo ancora lo separava dalla tomba, ma per il momento era ancora vivo. Quello poi sarebbe stato un modo pessimo di morire, anche se avesse ritrovato Akira in una fantomatica aldilà non avrebbe fatto altro che rimproverarlo. Sarebbe stato un po’ ridicolo, forse, perché Tsukasa non riusciva a immaginare una versione di Akira a ventun’anni, l’età che avrebbe dovuto avere. Per lui il fratello maggiore continuava ad avere quindici anni.
    E l’immagine più vivida nella sua memoria rimaneva sempre la peggiore, quindi aveva paura. Non lo voleva rivedere così.
    In quel momento, ancora troppo provato per riprendere del tutto conoscenza, si chiese se Akira l’avesse davvero perdonato. O se lo stesse attendendo, braccia aperte verso il minore, per vendicarsi.
    Per averlo ucciso.
    Per aver permesso a una tradizione tremenda di proseguire, anche se dopo quello non era più stato capace di mangiare nulla, facendo così fatica era quasi una tortura.
    Beh, buongiorno fiorellino.
    Il risveglio non fu dei migliori. Si ricordò troppo tardi della situazione in cui era finito, dopo aver già aperto gli occhi. Altrimenti avrebbe avuto più di un dubbio, se gli conveniva o meno continuare a fingere di essere svenuto.
    Il problema non si pose nemmeno, ormai era troppo tardi.
    Più prendeva consapevolezza, più il dolore si faceva forte. L’emicrania non era sola, il dolore si diradava anche dal petto e il sapore del suo stesso sangue in bocca gli faceva schifo, così aveva anche capito il perché della nausea. I danni non erano dei peggiori, in conclusione.
    Lo sguardo andò prima alle manette con cui era stato legato alla sedia, come se in quel momento potesse sopportare solo la realtà subito vicina a lui. Le vide e la sua espressione rimase impassibile, in apparenza prendendo la cosa con estrema filosofia.
    O come se non si fosse ancora reso conto delle conseguenze di tutto quello. Una delle due.
    Fatto stava che, con un movimento ai limiti del lento, quando mosse quelle manette non ci fu la minima intenzione di liberarsi, quanto più qualcosa di molto vicino alla curiosità. Ma le manette fecero un rumore metallico che gli diede fastidio, dove per abitudine nascose persino quella reazione, e si ripromise di non farlo più.
    A quel punto serrò le labbra, riducendo la bocca a una linea dura.
    Ma non sarebbe stato lui a dire non se lo meritava. Si meritava persino peggio. Izanami lo aveva accettato molto tempo prima, quando si era reso conto le regole del clan non garantivano davvero la sopravvivenza. Nemmeno quella del più forte.
    Si decise ad alzare lo sguardo, puntandolo direttamente alla maschera del suo -presumeva- rapitore. Mancò di reazioni degne di nota persino in quel frangente, ma la maschera era inquietante.
    Finalmente le iridi blu di Izanami incrociarono quelle azzurre di Echo.
    Anche se in quel momento Tsukasa aveva ben poco di Izanami.
    «Aspetti da tanto?.»
    La voce gli uscì più provata di quanto avrebbe voluto, pronunciandosi in una domanda che di fuori luogo aveva tutto.

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    Lazar S. Khabarov「 Echo 」
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    Ninel’ aveva torto. Grazie al cielo. Quella notte si era trasformata in un roller coaster di emozioni per Lazar, profondamente preoccupato dall’equilibrio precario del rapporto con le sorelle; si sentiva come un equilibrista inesperto, lì lì per precipitare ad ogni vibrazione che faceva tremare la corda. E così, quando Tsukasa Kiriyama diede i primi segni di risveglio, avvertì un nodo allo stomaco sciogliersi, rivelando l’apprensione che aveva inconsciamente covato fino a quel momento.
    Doveva andare tutto bene-... no: sarebbe andato tutto bene, tutto secondo i piani.
    La scena che fece da sfondo al ritorno nel mondo dei vivi di Tsukasa Kiriyama non era delle più incoraggianti, ma neanche delle più preoccupanti. Forse, se la famiglia Kiriyama si premurava di svolgere qualche indagine sulla vita privata delle loro vittime, avrebbe riconosciuto l’appartamento di Junichi Minami e cominciato ad unire i puntini che tracciavano il percorso che aveva guidato fino a lui i suoi aggressori. Ma se collegarli a Minami non sarebbe stato difficile, lo stesso non valeva per il vero obiettivo dei fratelli Khabarov: la stazza di Echo era più che sufficiente per catalogarlo come gaijin, tuttavia gli anni passati in Giappone avevano mitigato l’accento che influenzava la sua parlata giapponese, rendendo più difficile identificare la sua nazionalità. Chiaramente non era al livello di Ninel’, ma neanche a quello di Viktoriya. Stava nel mezzo, come sempre, nella più scomoda delle posizioni. La quale era comunque meno scomoda di quella di Tsukasa, i cui occhi azzurri finalmente si aprirono su uno scenario sulla falsariga di Saw.
    Ogni uscita blindata, manette in acciaio quinque e un carceriere che sembrava più il buttafuori di una discoteca.
    Buongiorno, principessa.
    Lazar non lo avrebbe biasimato se avesse deciso di tornare a dormire. Così però non fu: Tsukasa alzò la testa e, dopo aver scoccato un’occhiata impassibile alle manette, incontrò lentamente lo sguardo di Echo, in gran parte celato dalla maschera. Il russo non si era mosso di un centimetro, disposto a concedergli qualche minuto per riprendersi e metabolizzare la situazione.
    Tsukasa doveva essere ben consapevole di cosa lo aspettava, poiché, indipendentemente da quale fosse l’obiettivo dei rapitori, per diventare nemici volontari della famiglia Kiriyama era necessario soddisfare due requisiti: essere ben organizzati e avere fegato. Il primo gli era stato ampiamente dimostrato, adesso stava a Echo dar prova del secondo.
    «Abbastanza. Ti sei preso il tuo tempo.»
    La voce era asciutta, tuttavia attraverso le fessure della maschera Tsukasa avrebbe potuto notare un assottigliarsi degli occhi chiari di Echo, come se stesse sorridendo. Finalmente accennò un primo movimento, raddrizzandosi e muovendo un primo passo verso di lui.
    «Ma non importa, di tempo da dedicarti ne ho più del necessario. Gradisci da bere? Ci aspetta una lunga conversazione.»
    Una lunga conversazione che sperava di cominciare col piede giusto. I Kiriyama non erano famosi per l’attitudine alla diplomazia, ma Tsukasa, per quel poco che aveva avuto modo di vedere coi suoi occhi, non sembrava esattamente il tipico Kiriyama standard.
    -------------------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."
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    Kiriyama Tsukasa
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    Aveva sempre dato per scontato non avrebbe vissuto a lungo. Non sarebbe stato molto saggio, considerato il cognome che portava.
    Era come una maledizione.
    Solo che, in quel caso, la maledizione se l'erano gettata da soli e con pure la pretesa fosse per il bene di tutti. L'unica differenza, a voler essere sinceri, era che aveva sempre dato per scontato sarebbe stato ammazzato sul posto.
    Il rapimento era una novità a cui non si era preparato, e dire sembrava proprio il passatempo preferito di ogni Kiriyama.
    Diventava più facile capire perché, in fin dei conti, la calma che stava dimostrando Tsukasa non era solo un'abitudine per colpa delle tradizioni -fingere di essere padrone di quella situazione in particolare, parlando tra noi, era ridicolo-, ma la tranquilla rassegnazione di chi non vedeva via d'uscita. Non ci sperava nemmeno.
    Ragionava come se fosse già morto.
    Il sacrificio in nome della famiglia, del resto, lo insegnavano sin da quando erano bambini. Lo si fa in silenzio e si viene facilmente dimenticati, in questo modo si evita di trascinare altre persone nei propri errori.
    In effetti, sperava Shoko non l'avesse aspettato sveglia come suo solito. Era una speranza piuttosto vana, ma era comunque qualcosa.
    Più tardi la sorella si accorgeva della sua scomparsa e meglio era per tutti.
    A Tsukasa non poteva importare di meno di che fine avrebbe fatto lui, ma le sorelle dovevano stare il più possibile alla larga dalla questione.
    Non che fosse nella posizione ideale per mettersi a contrattare, però.
    O chiedere dove fosse.
    Perché no, anche guardandosi attorno -il giusto per vedere ogni uscita blindata- non aveva la minima idea di che luogo fosse quello.
    Quindi poteva solo immaginare il motivo per cui era lì, solo che la lista di possibili risposte era così lunga non provò nemmeno a tirare a indovinare.
    «Abbastanza. Ti sei preso il tuo tempo.»
    Nel dirglielo aveva... sorriso? Era difficile capirlo quando la persona davanti a te indossava una maschera, ma dall'assottigliarsi degli occhi sembrava proprio così.
    Voleva evitare, però, di interpretarlo come un buon segno. Ci mancava solo cominciasse a rilassarsi in una situazione del genere.
    Disse chi per poco non chiese scusa al suo rapitore.
    Sarebbe stato più per istinto che qualcosa di davvero ragionato, ok, ma sarebbe stato in ogni caso molto ridicolo e molto fuori posto.
    Per fortuna si fermò con largo anticipo.
    C'era un limite a tutto, anche alle buone maniere.
    Purtroppo non si poté fare una danza davvero sincronizzata, ma come Echo fece un passo verso di lui, Tsukasa si appoggiò un po' di più allo schienale della sedia. Era ammanettato lì, non poteva fare molto per indietreggiare.
    Si pentì poco dopo del movimento, perché risvegliò dolore in muscoli che non sapeva nemmeno gli stavano facendo male. Dove aveva ricevuto il proiettile, e il molto probabile inibitore, c'era direttamente uno spettacolo di fuochi d'artificio che non aveva badato a spese.
    Anche lì ci volle un serio sforzo per tenerselo per sé, e anche in quel caso non era sicuro di esserci riuscito del tutto. Benissimo, essere il disonore della famiglia era stato il suo sogno fin da quando era bambino.
    Per un momento tornò a ringhiare, un verso gutturale proveniente dal fondo della gola, ma si fermò subito dopo essersi reso conto di quello che aveva fatto. Se ne pentì quasi subito, troppo provato per pensare di nascondere anche quella reazione, e si limitò a spostare lo sguardo verso il basso.
    Da quel momento, si disse, avrebbe ammirato solo il pavimento ai suoi piedi.
    Poteva atteggiarsi nel modo più diplomatico che poteva, ma una bestia rimaneva pur sempre tale. E in quel momento era una bestia a cui bastava poco per farlo mettere sulla difensiva.
    A fare attenzione, nella reazione di Tsukasa si sarebbe anche vista una certa mortificazione. Di chi non avrebbe voluto come prima risposta ai pericoli proprio quella.
    Essere un Kiriyama faceva schifo.
    «Ma non importa, di tempo da dedicarti ne ho più del necessario. Gradisci da bere? Ci aspetta una lunga conversazione.»
    E la possibilità di togliersi, almeno in parte, il sapore di sangue dalla bocca? Sì, grazie, per favore e anche subito. Il sapore di ferro e sangue lo stava facendo stare più male di tutto il resto messo insieme, il che diceva già tutto. La gola era così provata ogni parola sembrava graffiarla ulteriormente.
    Ma era troppo ottimista, come cosa, per non pensare ci fosse qualcosa sotto. Era abbastanza comprensibile non fidarsi di qualcuno che l'aveva colpito con la kagune alla tempia, dato un calcio in pieno sterno e, in generale, rapito. Per non parlare dello sparo di pistola.
    Aveva i suoi buoni motivi per pensare fosse una trappola.
    La sua prima risposta, quindi, fu un semplice scuotere la testa. Non molto forte, perché di stare peggio per colpa sua non aveva alcuna intenzione.
    «Mi piacerebbe molto, grazie, ma non ho intenzione di tradire nessuno.»
    Fu molto... abbattuta, come risposta.
    Ma ne era davvero convinto. Anche se si parlava della famiglia che detestava tanto, le regole erano regole. Andava tutto bene.
    No, non andava tutto bene. Niente era sotto controllo. Niente lo era mai stato, se non da sempre almeno da sei anni ormai.
    Al massimo avrebbe dovuto prepararsi al peggio, e non sarebbe stata la prima volta veniva torturato.
    E ne sarebbe valsa la pena?
    Certo che sì, non sarebbe stato il suo egoismo a buttare via secoli di tradizione. Se era così che doveva finire, allora andava bene.
    Lo avrebbe accettato.
    Senza commettere alcun errore, senza alcun rimpianto.
    (Peccato il numero dei suoi rimpianti era lo stesso dei suoi nemici).

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    Lazar S. Khabarov「 Echo 」
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    Era contento di non avere alcun legame con Tsukasa Kiriyama, perché di persone che avrebbero volentieri gettato la propria vita per il bene della famiglia ne aveva già un paio nella famiglia ed era doloroso. Maledettamente doloroso, del tipo che Lazar avrebbe voluto dare fuoco al concetto stesso di Khabarov anziché vedere suo padre o sua sorella immolarsi per uno stupido ideale.
    C’era stato un tempo in cui anche i Khabarov erano stati di quello stesso, lurido stampo dei Kiriyama: spietati assassini disposti a tutto pur di mantenere la propria posizione di potere, tanto da arrivare ad avere una reputazione a dir poco negativa tra i ranghi di Opera.
    I famigerati Khabarov, i quali, per essere tenuti a bada come i cani affetti da rabbia che erano, Opera aveva dovuto trasferire su un’isola al largo delle coste russe, ad un tiro di schioppo dal Giappone. Praticamente in esilio, anche se in via ufficiosa e non ufficiale.
    Lazar non avrebbe mai permesso il ritorno di simili usi, e trovava disgustoso che esistessero ancora clan tanto marci da ridurre i propri membri a mera carne da macello.
    Nessun valore, che si trattasse di onore o rispetto di un regolamento interno, poteva sostituire le persone.
    Niente avrebbe ridato Tsukasa Kiriyama ai suoi cari se Echo, Megitsune o Milo Onishi avessero perso la pazienza e deciso di dare un taglio netto alla sua testa.
    Lazar pensava che mettere davvero la famiglia al primo posto significasse esattamente questo.
    Queste erano le parole che avrebbe voluto vomitare addosso a Tsukasa, ma chi era lui per dire agli altri come dovevano vivere? In realtà si conosceva abbastanza da sapere che presto o tardi non si sarebbe più trattenuto, ma per il momento doveva attendere e cercare di non mettersi subito così apertamente contro di lui.
    Sapeva però che preferiva vederlo ringhiare piuttosto che arrendersi così facilmente, come se la possibilità di sopravvivere a quell’incontro non fosse neanche contemplabile.
    Era difficile torturare qualcuno privo di speranza, ma Lazar non era lì con l’intento di torturare. Non era il suo stile. Lui era più per il sano trovare un accordo che renda felici entrambe le parti, perché si sa che chi è soddisfatto tende a lavorare meglio.
    «D’accordo, se ci ripensi fammelo sapere.»
    Scrollò le spalle, disinvolto, prima di tornare a sedersi davanti a Tsukasa; gambe accavallate, gomiti sui braccioli e mani poggiate in grembo, Echo sembrava la persona più rilassata del mondo.
    «Allora parliamo. Per prima cosa, permettimi di presentarmi. Non posso dirti il mio vero nome, ma almeno l’alias sì. Quindi sentiti libero di chiamarmi Echo.» e accompagnò la presentazione con un inchino educato. «Hai idea del perché tu sia qui? O la lista è troppo lunga?»
    Lo sbuffo di una risata si infranse contro la maschera di Echo; i crimini dei Kiriyama erano un labirinto in cui non era facile orientarsi.
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    Kiriyama Tsukasa
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    Era cresciuto ed era stato abituato alla violenza, usata in modo così naturale avrebbe potuto essere la seconda lingua del clan Kiriyama.
    Forse era anche per quello, perché in ogni momento si aspettava esplosioni di violenza che continuavano a mancare, che l'intera situazione aveva finito per confondere Tsukasa.
    A una tortura avrebbe saputo come rispondere. Sopportare il dolore fisico non era nulla, mordersi il labbro fino a spaccarlo per non urlare era solo una conseguenza naturale. Qualsiasi prezzo poteva essere pagato, se era per il bene del clan, e Tsukasa -più per indottrinamento che spirito di sacrificio- era ben disposto a pagarlo. A sopportare e sacrificare, come aveva sempre fatto, finché non sarebbe morto.
    Perché il sacrificio di ogni membro era comunque importante. E se non lo fosse stato sarebbe stato terribile, le conseguenze quasi insopportabili.
    «D’accordo, se ci ripensi fammelo sapere.»
    Ma a quello non sapeva come rispondere. A quello non era per niente abituato.
    E l'unica conclusione a cui era arrivato, alla fine, era che non avrebbe dovuto fidarsi. Che tutto quello servisse solo per fargli abbassare la guardia, così da rendere più facile e veloce il momento in cui sarebbe crollato.
    Sapeva di dover apparire padrone della situazione. Ogni momento di esitazione, di debolezza, incideva con cura i kanji del suo nome sulla lapide.
    Ma era una consapevolezza molto debole, ed era più forte quella che era già morto e fare così avrebbe solo rimandato l'inevitabile.
    Quindi, quando tornò ad alzare lo sguardo verso il ghoul che l'aveva rapito, Kiriyama Tsukasa era sembrato più genuinamente smarrito che un mostro appartenente a un clan di bestie.
    Chi sembrava padrone della situazione, perché in effetti lo era, era il ghoul gli era seduto davanti.
    «Allora parliamo. Per prima cosa, permettimi di presentarmi. Non posso dirti il mio vero nome, ma almeno l’alias sì. Quindi sentiti libero di chiamarmi Echo.»
    Ricambiò l'inchino di Echo con un breve cenno del capo. Una cortesia per una cortesia.
    «Tsukasa.»
    Doveva già saperlo, ma gli sembrava in qualche modo maleducato non presentarsi a sua volta. Come se qualcosa del genere potesse smussare gli angoli della sua pessima reputazione, chiedere scusa per i ringhi da bestia ferita fatti in precedenza.
    Aveva evitato di presentarsi come Yako -Yako era, del resto, tutto ciò che i Kiriyama voleva dai suoi membri e solo quello- e soprattutto come Izanami. Non perché sperasse Echo fosse all'oscuro di trovarsi davanti il futuro capoclan, ma perché avrebbe solo sporcato quella nomina.
    Un tempo il titolo di Izanami era appartenuto a suo fratello, e Akira lo aveva tenuto con orgoglio, rispettandolo e facendolo quasi splendere. Lo affidavano a lui e lo sporcava di vergogna e debolezza, facendosi persino rapire. Era l'eredità di Akira ed era riuscito a rovinare e uccidere persino quella.
    «Hai idea del perché tu sia qui? O la lista è troppo lunga?»
    A giudicare dallo sbuffo di risata, Echo doveva davvero trovare divertente quella situazione. Poteva permetterselo, certo, perché non era lui quello ammanettato, ma non mancava mai di lasciare Tsukasa quasi interdetto. E di nuovo, molto confuso.
    No, non aveva idea del perché fosse lì, ma bisognava dargli il merito almeno aveva voluto pensarci. Non per molto, però, perché l'intera operazione gli era costata solo l'ennesimo spettacolo pirotecnico da parte della sua emicrania.
    Sospirò, sconfitto.
    «Mi dispiace» e lo era davvero, ma non si sarebbe stupido se Echo non gli avesse creduto.
    Non si sarebbe stupito nemmeno se, all'ennesima risposta negativa, la recita sarebbe crollata ed Echo avesse avuto un'esplosione di ira. Non perché sembrasse davvero possibile -più passava il tempo, più Echo non sembrava affatto come la maggior parte dei ghul con cui Tsukasa aveva a che fare, anche dopo tutto quello gli aveva già fatto- ma perché era ciò a cui era stato abituato.
    E il suo istinto gli diceva era meglio evitare qualsiasi cosa potesse mettere a prova la pazienza dell'altro, in un modo molto simile a quando si ritrovava ad avere a che fare con Suzaku.
    «Temo la lista sia davvero troppo lunga.»
    Era molto lunga per quanto ne sapeva lui, e lui non sapeva nemmeno tutto. Forse sapeva più di molti altri, essendo lui Izanami, ma era ben poco rispetto a Suzaku. Il clan non diffondeva le sue informazioni a ogni membro proprio per scenari come quello.
    Se uno crollava, non doveva portare il resto della famiglia con sé.

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8 replies since 27/4/2021, 15:20   303 views
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