Dunque è qui che i boni vendono i loro corpi?

[CONCLUSA] Alexandre De Lacroix & Lazar Khabarov @Host Club Velvet Room | 10/04/2020, 19:30

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    Alexandre R. De Lacroix
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    K-Kuwaaaaaah. Alexandre si sentì magicamente indisposto davanti a tutta quella sicurezza. Come poter descrivere il processo mentale che si ritrovò ad attraversare il suo cervello in quel frangente se non come una ragazzina che inizia a strillare per poi strozzare la voce in fondo la gola e zittirsi di fronte alla scena troppo imbarazzante di uno shojo manga? Le sue labbra tremavano appena e gli occhi sembravano umidicci, quella sfacciataggine doveva averlo colpito per davvero. Non che non fosse comune per lui terminare una discussione in lacrime, ma questa volta era un discorso diverso.
    Come faceva dirlo con una faccia così seria senza neanche imbarazzarsi un pochino?
    Davvero alle ragazze piaceva essere chiamate principesse? Forse Alexandre conosceva le ragazze sbagliate: Chinatsu, la sua migliore amica, avrebbe accettato quel soprannome solo se la principessa in questione fosse stata la principessa Mononoke, che non era proprio lo stereotipo più Disney possibile; con Kyoko la questione sembrava già più fattibile, ma probabilmente avrebbe accettato solo se a farlo fosse stato uno dei suoi impeccabili idol dopo averla presa in sposa.
    Certo, non erano fatti suoi, visto che non gli sarebbe mai capitato di doverlo fare, ma il suo rispetto per Ryoga schizzò alle stelle: quello era un lavoro difficilissimo.
    Alexandre e il mondo femminile erano come due rette parallele che viaggiavano l'una accanto all'altra: potevano guardarsi e formare gli stessi angoli se una trasversale li tagliava a mezzo, ma capirsi e andare oltre cominciava ad essere complicato. Forse anche perché si ricordava con orrore tutte le dannate volte che suo padre aveva tentato di presentargli le figlie dei suoi amici e colleghi di lavoro totalmente incurante di qualsiasi altra cosa lui potesse aver voluto.
    "E tu, Alex, che cosa preferisci?"
    Prevedibilmente, la domanda che temeva arrivò puntuale come un orologio svizzero. Alexandre non fece niente per lasciar intendere che fosse infastidito dal quesito - perché a conti fatti, non lo era - solo che... beh, non sapeva cosa rispondere. Avrebbe voluto dire che gli piacevano i gatti, ma aveva il dubbio che se lo avesse detto poi Ryoga avrebbe pensato che gli piacevano i furry, quindi cambiò idea.
    Era ironico, in realtà. Alexandre non si era mai interrogato più di tanto sulla questione perché non era proprio il tipo che si andava a cercare l'anima gemella per strada. La sua filosofia era "se deve succedere, succederà" e si vedeva un po' da come affrontava la vita. Non riusciva a farsi piacere una persona che non conosceva, indipendentemente da quanta attrazione fisica potesse esserci nel mezzo. Certo, sapeva riconoscere una persona bella quando ne vedeva una: Ryoga era indubbiamente attraente per esempio, apprezzava attori, idol e cantanti allo stesso modo di tutti e la sua palese cotta per Mads Mikkelsen non sarebbe svanita nemmeno tra un trilione di anni; semplicemente trova appagante che tra due persone ci fosse un certo rapporto di complicità nel quale poter condividere anche... altro. Quindi se doveva pensare a cosa gli piaceva... beh, ovviamente i suoi pensieri tornavano in direzione dell'ex-fidanzato.
    Ma poteva basare la sua risposta sui ricordi che aveva di una persona morta?
    Gli faceva male il pensiero di dover ridurre Julian a quello.
    E poi di colpo...
    SBAM!
    Era seduto sul divano di villa De Lacroix, in Francia. Una luce lo illuminava dall'alto come un faretto a teatro.
    «Alexandre.» una voce emerse dalle ombre. Era familiare. Triste. Premurosa.
    Poi nell'oscurità, seduto di fronte a lui, si dipinse un altro volto. Un singolo volto che lui conosceva fin troppo bene.
    I capelli dorati e gli occhi caldi castano scuro, le mani in grembo, i gomiti poggiati sulle ginocchia, ancora giovane e bello come lo ricordava.
    Perché aveva perso la capacità d'invecchiare.
    «Io me ne sono andato da molto tempo.»
    Alexandre vacillò, ed il suo cuore ebbe un sussulto.
    Sì ritrovò a sbattere le palpebre per un istante, e di colpo la figura di Ryoga tornò a farsi vivida di fronte a lui.
    Oh. Ecco dov'era.
    Una strana sensazione di amaro gli si fece strada in bocca, ma Alex riconobbe che non era il sapore del gin che aveva appena bevuto. Era tanto che non la sentiva.
    Che non lo sentiva.
    Le luci e il soffuso brusio del Velvet Room ripresero corpo attorno a lui e d'improvviso si accorse di avere la mano destra leggermente infreddolita per aver stretto troppo a lungo il bicchiere con il ghiaccio.
    "E a te cosa piace, Alex?"
    Che sciocco. Era ovvio che non poteva davvero basare la sua risposta sui ricordi che aveva di una persona morta. Era ovvio che non potesse ridurre Julian a quello.
    Ma... se glielo avesse chiesto Julian cosa avrebbe risposto?
    Davvero non ci credeva che era andato a disturbarlo per una cosa stupida come quella.
    "Grazie", pensò, con un sospiro. "Non mi merito affatto che tu stia ancora qui a vegliare su di me".
    Si ritrovò a tamburellare leggermente le dita sulla liscia superficie del tavolo, per far in modo che si riprendessero dall'intorpidimento generale, e d'improvviso un sorrisetto furbo gli tagliò il volto. Se, fra tutti, c'era una persona che avrebbe preferito vederlo felice piuttosto che a piangersi addosso, quello era di certo lui.
    «Scoprilo.» rispose semplicemente, con un'audacia che aveva sfoggiato solo nei suoi giorni migliori e nemmeno si ricordava di avere.
     
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    Quella era stata una domanda piuttosto vaga, lo riconosceva, ma proprio tanta vaghezza era in realtà il suo punto di forza: ognuno era libero di interpretarla come preferiva. Superata l’iniziale sorpresa per essere stati presi in contropiede, il più delle volte i clienti finivano per fornire molteplici spunti di conversazione.
    La tecnica della domanda a bruciapelo gli era stata suggerita da un collega, peccato che Ryoga non avesse ancora capito se la persona in questione avesse davvero voluto dargli una mano oppure affossarlo ulteriormente. Come se ce ne fosse stato bisogno, poi, considerato quanto poco era richiesto.
    Provando a mettersi nei panni della persona a cui era rivolta, però, Ryoga stesso non avrebbe saputo cosa rispondere. Doveva ammetterlo: al contrario di quanto fingeva, neanche lui si conosceva così bene. Al di là dell’apparenza di uomo sicuro di sé, con una gloriosa faccia da schiaffi e una discreta dose di fascino, alla sua veneranda età non aveva molti interessi che non implicassero la sua famiglia. La famiglia era un tema tanto ricorrente quanto soffocante nella sua vita, ma non l’avrebbe mai ammesso: non c’era spazio per le fragilità quando due persone dipendono quasi in tutto e per tutto da te.
    Non poté fare a meno di chiedersi se Alexandre e il suo amico, così esplicitamente stranieri, si fossero lasciati alle spalle le rispettive famiglie per trasferirsi in Giappone. Entrambi parlavano un ottimo giapponese, dunque erano lì da anni oppure avevano studiato la lingua con grande dedizione. Lui non riusciva neanche a immaginare la possibilità di non vivere sotto lo stesso tetto con Risa, pertanto non poteva fare a meno di ammirare - e sotto sotto invidiare - chi aveva la possibilità e il coraggio di compiere il grande passo che da bravo giapponese avrebbe dovuto fare molto, molto tempo addietro.
    Si dispose ad attendere con pazienza, avendo già intuito che Alexandre fosse caratterialmente molto diverso dalla clientela tipo a cui era abituato. Gli avrebbe lasciato i suoi spazi e i suoi tempi, evitando di diventare una presenza invadente o, peggio, di contagiarlo con la sua ansia da prestazione. Dopotutto era lì per fargli compagnia, passare un’ora piacevole dimentichi dei propri problemi e delle incombenze del mondo esterno. Al contatto con lo schienale Ryoga rilassò le spalle, senza accennare altri movimenti o cambi nell’espressione.
    Le lancette dell’orologio correvano più veloci del necessario in direzione della loro deadline, ma Alexandre sembrava preso da un’indecisione tanto profonda che Ryoga cominciò a mettere in dubbio il proprio operato. Aveva sbagliato di nuovo, vero? Stava per perdersi come al solito in un fitto rimuginare, quando…
    “Alexandre.”
    … quella non era la voce dell’amico di Alex.
    No. No, God, please no.
    Inevitabilmente Ryoga sbatté le palpebre in preda alla sorpresa, ma essendo abituato a non vedere ciò che sentiva non commise lo sciocco errore di cercare con lo sguardo la fonte di quel richiamo. Le sedute spiritiche le faceva sua sorella, non lui. E non durante il lavoro, soprattutto. A parlare era stata una voce maschile, troppo giovane per appartenere a un uomo adulto. Qualcuno aveva deciso di riemergere dal passato nel momento meno opportuno.
    Ovviamente non avrebbe commentato niente al riguardo, sperava anzi che Alexandre non si fosse proprio accorto della sua reazione. Per un po’ gli era parso addirittura alienato, ma l’imprevedibile intervento della persona - Ryoga si rifiutava di appellarsi a loro con altri epiteti - aveva avuto il potere di far scoppiare la sua bolla di interiorità e riportarlo al presente… in un modo che ammutolì Ryoga.
    Da dove era sbucata fuori quell’audacia, così all’improvviso? Il biondo si ritrovò a nascondere una risata divertita dietro il polso, ancora appoggiato di fianco alla bocca.
    Bella uscita, gli era piaciuta.
    «Beh, se sei qui immagino ti piaccia…» il tuo stesso sesso? No, niente domande retoriche né imbarazzanti spunti di conversazione, Alexandre sembrava già abbastanza fuori posto senza toccare tasti potenzialmente sensibili. «il Giappone. Dalla, suppongo, Francia a qui è una bella gita. Lavori qui? Sai, hai l’aria della persona distinta che non riesci a immaginare fuori da un contesto di un certo livello. Non so, avvocato di successo, bancario, scienziato della NASA, ambasciatore… roba del genere.»
    Quante cavolate intendeva sparare con la speranza di farlo sorridere? Parecchie.
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    Alexandre R. De Lacroix
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    Ovviamente non si era accorto del turbamento esistenziale di Ryoga. Ovviamente. Perché era così preso a sperare che il ragazzo non avesse notato il suo, che tutto il resto era passato in secondo piano. Preoccupazione alquanto futile, si direbbe, ma fino a che nessuno avesse saputo niente l'universo sarebbe filato più liscio in una crêpe in padella.
    Alexandre non era sicuro cosa implicasse l'aver avuto quel flashback, ma per qualche motivo si rilassò enormemente. Come se avesse ricevuto una scarica di endorfina. Non ebbe nemmeno bisogno di scoprire il tatuaggio e ricadere nel suo solito tic nervoso di stringersi il braccio al petto come faceva quando era agiato.
    Perché... non lo era. Non più.
    La realizzazione che Ryoga lo vedesse come una sorta di avvocato d'oltremare in vacanza nelle terre d'oriente lo fece sentire, per un attimo, il protagonista di un libro di Dumas, e lo spinse a sorridere timidamente, divertito da quella sottospecie di fraintendimento.
    «Quindi pensi che io sia... elegante?»
    Questa sì che era buona. Doveva prendere appunti.
    Ora che ci pensava, apparentemente era una sensazione che gli altri avevano spesso quando lo vedevano tirato a lucido. Non che al ricercatore dispiacesse, però cozzava un po' con la sua vera personalità di bradipo in pensione che veniva fuori non appena si toglieva la camicia.
    Beh, l'unico motivo per cui era finito in Giappone era perché sua madre era metà giapponese. Se sua madre fosse stata italiana sarebbe finito in Italia, se fosse stata argentina sarebbe finito in America del Sud. Dietro non c'era nessuna particolare scienza ragionata, era solo stato il suo bisogno di allontanarsi dalla Francia, a spingerlo lì. Probabilmente questa era una rivelazione che avrebbe potuto scioccare il biondo, ma non tutte le famiglie erano esattamente... unite.
    «Sono giapponese per metà.» Alexandre non si fece particolari problemi a dirlo. Scrollò semplicemente le spalle. Ora, avrebbe confuso il giovane host con quelle parole? Sapeva di non sembrarlo per nulla, perché sfortunatamente era la fotocopia di suo padre, però non si poteva certo dire che l'altro ragazzo facesse la sua parte ad assomigliare a un "made in Japan" di marca, ecco.
    «...Però effettivamente lavoro qui, e sono uno scienziato.» mormorò infine, socchiudendo gli occhi con un'espressione quasi afflitta, come se - in fondo - un po' gli bruciasse che Ryoga ci avesse azzeccato praticamente al primo colpo.
    Non approfondì, perché tutte le volte che diceva che lavorava alla CCG i suoi amici cominciavano a guardarlo con occhi vacui e privi d'interesse, quindi non era sicuro di volere che la cosa si ripetesse anche quella sera. Col senno di poi il motivo era ovvio che dici Alex
    «Ma ho una collezione piuttosto vasta di camice hawaiane a casa!» concluse, con tono leggermente più concitato, manco fosse una cosa di cui andare fieri. Tuttavia, Alexandre era piuttosto geloso delle sue camice, non gli importava granché di ciò che Ryoga avrebbe potuto pensare di lui, tanto non lo avrebbe più rivisto. Per carità, gli sembrava un bravo ragazzo e tutto, anzi era anche piuttosto gentile e sostanzialmente era stato bene, erano solo il posto e la situazione che... non facevano per lui. Poi, si sarebbe ben guardato dal dire una cosa del genere di fronte a Lazar, più per il terrore che venisse a casa sua e gliele buttasse via tutte che per il timore di apparire sciatto, ma tanto ora Lazar non c'era... e un proverbio piuttosto famoso diceva che quando il gatto non c'era, i topi ballavano e facevano festa fino al mattino.
    «Nemmeno tu sembri tanto giapponese, però.» ribadì, da ultimo, poggiando una guancia sul palmo di una mano, un po' allentato dai fiumi dell'alcool, quasi a volersi lavare via le sue colpe precedenti.
     
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    “Quindi pensi che io sia... elegante?”
    «Lo penso, sì.»
    Era quasi tenero il modo in cui Alexandre aveva reagito al suo delirio, con un sorriso timido che rendeva la sua immagine ancor più principesca. Ryoga non ricordava di aver avuto clienti così… era difficile trovare un aggettivo adatto a esprimere il senso di morbidezza che Alexandre ispirava.
    Nella sua mente, avvelenata da vent’anni di pregiudizi contro gli esseri umani, cominciava a farsi strada l’ipotesi che Alexandre potesse essere tutto sommato piacevole da avere intorno, privilegio che Ryoga concedeva a pochissimi umani.
    Stava cambiando idea un gran numero di volte quel giorno, seppure in maniera infinitesimale. Il punto è che, sebbene non l’avrebbe mai ammesso, era davvero difficile mantenere ferree posizioni annerite dall’odio quando ti trovi davanti qualcuno che sembra capace di smantellarle, per di più in maniera del tutto inconsapevole.
    Doveva dare a Cesare ciò che è di Cesare: Alexandre era carino e apprezzabile, ma questo era quanto. La loro conoscenza si sarebbe esaurita a quel tavolo e l’umano non avrebbe mai avuto modo di dimostrare a Ryoga che le basi della sua vita non erano solide come pensava.
    «Davvero sei mezzo giapponese?» le pupille di Ryoga si dilatarono per la sorpresa, annerendo per un momento l’azzurro delle iridi.
    Lo sguardo che rivolse ad Alexandre dopo quella rivelazione fu forse un po’ invasivo, ma la curiosità di individuare tratti giapponesi nella sua figura era troppa per resistere: la pelle chiarissima non aveva niente a che fare con l’incarnato tipico degli asiatici, così come gli occhi smeraldini dalle pagliuzze dorate e il viso dalla forma ovale, per non parlare della cascata di capelli rossi. La corporatura robusta non era un buon indicatore di etnia, ma di certo faceva la sua figura quando c’era da rimorchiare qualcuno. Ammesso che Alexandre fosse il tipo che andava a rimorchiare, e, a dispetto del luogo in cui si trovavano, non sembrava proprio il caso.
    «Non l’avrei mai detto...»
    Disse. Sembrava essersi dimenticato di essere un giapponese biondo, cosa che gli venne prontamente fatta presente poco dopo. Adesso poteva dire di capire un po’ meglio coloro che nel corso della vita avevano dubitato delle sue parole quando asseriva di avere solo alla lontana sangue gaijin, che però per uno scherzo del destino aveva comunque determinato la sua palette.
    La precisazione sulle camicie hawaiane arrivò, provvidenziale, a sdrammatizzare dopo il lancio della bomba sul suo mestiere e strappò una risata a Ryoga, evitando che Alexandre si vedesse rivolta l’ennesima occhiata strabiliata. Insomma, uno scienziato, per di più così giovane! Mica si incontrano tutti i giorni gli scienziati, e Alexandre lo diceva come se fosse stata una cosa da niente, al pari di, boh, un host.
    «Credo che uno scienziato in camicia hawaiana sia una delle cose più memorabili che potrei vedere nella vita.» Ryoga recuperò la sua abituale espressione pacata e sorridente, ma con ancora un visibile guizzo di curiosità negli occhi. «Ammetto che crea un po’ di soggezione realizzare di star parlando con uno scienziato, soprattutto considerando quanto sei giovane. Spero che non ti crei situazioni spiacevoli nei rapporti con gli altri…»
    Mettersi nei panni dell’interlocutore era una cosa che faceva su base giornaliera, perciò non poteva fare a meno di chiedersi se la stessa soggezione che lui aveva rischiato di provare prima dell’accenno alle camicie fosse una costante nella vita di Alexandre.
    Peccato per quel che venne dopo.
    «… per quanto mi riguarda puoi stare tranquillo, mio sexy scienziato okay, forse aveva esagerato; agitò per aria una mano, come a spezzare l’atmosfera, mentre soffocava una risata. «Scusa, scusa. È stato più forte di me.»
    La sua natura di casanova doveva venire fuori mediamente ogni dieci minuti, come un istinto ossessivo-compulsivo. Sperando di non aver offeso in alcun modo Alexandre, non aveva infatti ancora capito se apparteneva a quella fetta di clientela che non gradiva le pick-up lines, Ryoga colse l’opportunità di cambiare argomento.
    «Comunque hai ragione, nemmeno io sono del tutto giapponese. Diciamo al novantanove percento, con un retrogusto di Francia… ma non l’ho mai vista. Anzi, dovendo essere preciso non sono mai uscito dal Giappone.»
    Cambiò posizione, incrociando le braccia sul tavolo come chi si prepari ad ascoltare.
    «Immagino che tu di francese non abbia solo il nome. Com’è?»
    In effetti Alexandre non aveva detto chiaro e tondo di essere francese, solo di avere un nome francese. Avrebbe potuto provenire da qualunque parte del mondo, ma Ryoga si augurava che non fosse così.
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    Alexandre R. De Lacroix
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    Sexy.
    Mio. Sexy. Scienziato.
    Non solo elegante, pure sexy. Il cervello di Alexandre andò un attimo in overload e smise anche di ricordarsi anche come si facevano le addizioni più semplici. Dalla sua testa proruppe un figurativo sbuffo di fumo, e lo scienziato si sentì avvampare le guance, manco fosse improvvisamente diventato un treno a vapore. C'era da dire che il rosso aveva una consapevolezza di sé stesso pari a quella di un pesce: certo, stava attento a non farsi crescere la barba perché non gli piaceva e si teneva in ordine i capelli perché buona fortuna a non farlo quando li hai mossi, però non aveva un account instagram sul quale postare i selfie o ricevere likes, né altri bizzarri stratagemmi per aumentarsi l'autostima, visto che non era una statistica di un gioco.
    E quindi non sapeva come rapportarsi con i complimenti. Realizzare che certa gente lo vedesse in certi modi gli faceva acquisire coscienza di una cosa che solitamente ignorava: un po' come un bambino a cui viene di colpo rivelato che Santa Claus non esiste dopo che ne ha data scontata l'esistenza per anni. Mayhem. Caos.
    Per l'amor del cielo adesso sembrava finito in uno di quei dating sim a cui giocava ogni tanto, nella route in cui prima o poi deve esserci la scena in cui rimani bloccato nel laboratorio con il love interest di turno. Abort, abort.
    Non era fatto per emozioni simili.
    Soprattutto perché era... strano?
    Però... non era neanche del tutto sgradevole?
    Insomma, meglio sorvolare.
    Tuttavia, la correzione che Ryoga, come se avesse paura di colorare fuori dai bordi, lo fece immediatamente scattare sull'attenti, strappandolo dalle crudeli grinfie dell'imbarazzo che già stava pregustando la sua cena.
    Oh? Ma dai, quindi era una mezza recita? Alexandre lo scrutò con un velo di curiosità. Giustamente, era un host. Doveva comportarsi come piaceva ai clienti. Ecco il motivo per cui gli aveva chiesto cosa gli piacesse poco prima. Interessante, ma... chissà qual era la sua vera personalità?
    Perché di certo ad Alex sarebbe piaciuto parlare con quella, pur essendo conscio che con un'ora di tempo le lancette volavano in fretta e non sarebbe stato sufficiente a conoscere nessuno.
    Cioè, non che volesse veramente conoscerlo, però...
    Al di là di quello, no. L'essere "giovane" di solito non gli creava nessuna situazione imbarazzante, anche perché alla CCG erano tutti giovani. C'era passato anche lui, entrando all'accademia praticamente diciottenne, quindi lo sapeva, però a volte vedevi dei ragazzini di neanche sedici anni maneggiare dei fucili e delle pistole e ti chiedevi... se tutto quello avesse un senso.
    O meglio, lui se lo chiedeva. E se lo era chiesto anche il primo giorno in cui gli avevano messo in mano una pistola a proiettili Q al poligono di tiro della commissione anti-ghoul francese, cosicché imparasse a centrare i bersagli. Era sicuro che molta altra gente lo considerasse normale.
    Per contro, non sapeva che idea precisa avesse il biondo degli scienziati, ma Alexandre poteva assicurare che non fossero un covo di pazzi maniaci con l'hobby di dissezionare rane. Cioè, c'erano anche quelli, ma erano loro la minoranza, non il contrario.
    Mica pensava che andava al mare in cravatta?
    «Allora la prossima volta verrò qui con una di quelle.» mormorò sorridendo, e... non seppe nemmeno cosa lo spinse a dire una cosa del genere. Alexandre era perfettamente conscio che non ci sarebbe mai tornato, eppure... a volte per lui era più facile sciogliersi con una persona che non conosceva che con, ipoteticamente, un collega di lavoro con cui aveva una media dose di confidenza. Come dietro ad un confessionale.
    Il fatto che anche Ryoga avesse discendenti francesi lo sorprese... e gli fece anche storcere un pochino il naso. Non lo diede a vedere e rimase pressoché impassibile, sollevando solo le sopracciglia di qualche millimetro, ma era innegabile che tutte quelle somiglianze lo mettessero a disagio.
    «Oh wow, quindi siamo compatrioti alla lontana.»
    Eh già, proprio wow.
    Aggiungiamo anche una risata isterica la prossima volta?
    Alexandre si soffermò a pensare per qualche momento, picchiettandosi l'indice dalla mano destra sulla guancia.
    «Beh, come ogni altro paese. — esordì infine, forse piuttosto deludente per uno come Ryoga che sembrava aspettarsi chissà quale rivelazione. — Tutti dicono che Parigi è la città dei sogni e dell'amore, ma quando ci vivi e ci nasci anche addormentarsi all'ombra della torre Eiffel diventa normale.»
    La famiglia De Lacroix, dalla parte di suo padre, non era prettamente aristocratica, ma era sempre stata molto benestante e Alexandre, che aveva sempre vissuto in una bella zona di Parigi, ricordava di averla sempre potuta vedere dalla finestra, da lì il paragone. Chissà, magari alla fine quell'uomo si era risposato e aveva avuto pure un altro figlio, a cui avrebbe lasciato in eredità il cognome che lui si vergognava a portare. Pensarci era così sgradevole.
    Alexandre scosse appena la testa, e poi rilassò leggermente le spalle.
    «Detto fra noi, è perfettamente uguale alla Tokyo Tower.» sussurrò, come se stesse cercando di rivelargli un segreto. Il che non era per niente vero. La Torre Eiffel era meno circondata da palazzi e grattacieli, e svettava sulla rive gauche con una maestosità che la Tokyo Tower non avrebbe mai potuto avere, ma Alexandre non avrebbe mai speso buone parole per la Francia. C'erano... troppi posti infestati da fantasmi. E a lui le case stregate non piacevano molto.


    Scusa se ho risposto in fretta ero ispirata, duh?


    Edited by Ryuko - 4/2/2022, 14:55
     
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    Inutile dire che le sue aspettative erano così alte da sfondare la volta celeste, ma la sua maschera di compostezza non fu incrinata neanche dalla più trascurabile delle crepe: come ogni vero giapponese, anche lui era fatto al novanta percento di repressione edulcorata con termini come buona educazione e sobrietà. Intrattenere una conversazione con un gaijin non era cosa di tutti i giorni; con un francese, poi, non gli era mai capitato, era dunque naturale che Ryoga volesse approfittarne per chiedere una volta per tutte un parere a qualcuno che la Francia l’aveva vissuta sulla propria pelle.
    Ma, aspettative a parte, Ryoga rimaneva una persona giudiziosa e coi piedi ben ancorati al pavimento. Non si aspettava che Alexandre cominciasse a tessere le lodi della sua terra natale per un semplice motivo: è inevitabile considerare normale il luogo in cui si è cresciuti, indipendentemente da quanto esso sia oggettivamente bello. Persino lui, che abitava in una delle città più apprezzate all’estero, doveva impegnarsi per trovare i lati positivi di vivere in una città caotica e frenetica come Tokyo, soprattutto per un ghoul.
    “Oh wow, quindi siamo compatrioti alla lontana.”
    Eh sì, wow.
    L’espressione era rimasta pressoché invariata, se non per un fievole sollevarsi delle sopracciglia, eppure Alexandre sembrava tutto fuorché colpito favorevolmente. Gli diede quella fugace e tenue sensazione di parlare molto poco volentieri della Francia, come chi scappi da un passato che torna insistentemente a galla; ma quella, appunto, era solo una fugace e tenue sensazione, probabilmente alimentata dalla voce maschile udita poco prima. Era assai più probabile che Alexandre credesse che gli fosse stata rifilata una bugia per farlo sentire più a suo agio - e come dargli torto, considerando il contesto e la probabilità estremamente bassa di incontrare un giapponese dalle origini europee? Era uno scienziato, no? E gli scienziati amano le probabilità, o almeno così si è portati a credere dopo anni di rappresentazioni mediatiche fuorvianti. Ma quella era la nuda verità, e che ad Alexandre andasse più o meno bene non aveva importanza.
    Infine, come supposto, già nell'esordio sembrò mettere le mani avanti, facendo così affiorare un sorriso divertito sul volto di Ryoga.
    «Immaginavo.» non c’era delusione nel tono. «Dev’essere però bello addormentarsi all’ombra della torre Eiffel. Potresti farlo anche qui, ma Tokyo è molto pericolosa negli ultimi tempi. Piuttosto opterei per una serata a base di letto caldo e serie TV. O origami. O ikebana. Sì, ho hobby molto virili e sociali.»
    L’arte dell’ikebana era qualcosa che aveva appreso da sua madre, che a sua volta cercava di replicare goffamente ciò che vedeva nei programmi televisivi o nei tutorial su YouTube. Ryoga era sempre stato attratto da ciò che incarnava i concetti di grazia ed eleganza, forse perché gli veniva spesso attribuiti solamente in virtù del suo aspetto fisico pur non sentendoli affatto suoi. Al contrario, si reputava una persona abbastanza piatta e poco stimolante, e da quando aveva cominciato a lavorare come host l’opinione che aveva di se stesso era addirittura peggiorata a causa del continuo mettersi a confronto coi ben più popolari colleghi.
    «E tu, riesci a ritagliarti un po’ di tempo per gli hobby o il tuo amico ti trascina spesso nei gironi infernali della socializzazione? A tal proposito! Perdona la franchezza, ma…» ancora una volta, con quell’atteggiamento di confidenza che si stava divertendo a creare, si allungò leggermente verso il centro del tavolo e abbassò la voce «puoi confermarmi che siete solo amici? È successo diverse volte che avessimo coppie come clienti e non vorrei creare situazioni spiacevoli.»
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    Alexandre R. De Lacroix
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    Quando quell'"immaginavo" di Ryoga colpì duro e freddo sulle sue orecchie, Alexandre si sentì quasi sprofondare in un vortice di vergogna. Doveva essere piuttosto avvilente chiedere di Parigi e della Francia e sentirsi rispondere che oh sì, era proprio uguale a qualsiasi altra città. Sebbene il biondo non sembrasse deluso, né dalla voce, né dal viso, niente gl'impedì di sentirsi un'infame per aver risposto in modo così banale. Insomma, Parigi!
    Anche se lui la considerava normale, forse avrebbe potuto fare uno sforzo per non deludere quel povero ragazzo che con i suoi complessi non c'entrava niente. Mai una volta che ne combinasse una giusta.
    Fortunatamente, ancora una volta, Ryoga si dimostrò più che capace di annientare l'imbarazzo di una conversazione cambiando discorso con una facilità per lui invidiabile.
    «Ikebana...?» per quanto potesse essere effettivamente meraviglioso addormentarsi all'ombra della torre Eiffel, l'ultima parola distolse la sua attenzione da quello che di norma gli avrebbe perlomeno fatto aggiungere un'altra osservazione o due sulla Francia. Nella sua occidentale ignoranza sapeva cosa fossero gli origami, mentre non era certo di essere ferrato sull'altra terminologia. Era sicuro che fosse qualcosa sui fiori, forse sua madre gliene aveva parlato qualche volta, ma - come comprensibile - erano entrambi due individui dall'animo ben poco artistico, e quando si vedevano non era molto il tempo che passavano a chiacchierare su cose che non fossero biologia o - in generale - scienza. Cenare con loro doveva essere un vero incubo. Tuttavia, prima che potesse inquisire su cosa fosse, Ryoga lo colse in contropiede con un'altra delle sue domande a trabocchetto.
    Alexandre s'irrigidì sulla sedia, e si lasciò sfuggire un lieve colpo di tosse imbarazzato, assumendo nel lasso di tempo di quattro secondi un colorito compreso fra le diciotto e le venticinque sfumature di rosso.
    C-C-Che razza di domanda era?!
    N-Non aveva mai pensato a Lazar in quei termini e...
    Ok, forse lo aveva fatto, ma non era quello il punto!
    Le sue iridi smeraldine dardeggiarono impacciate entro il perimetro della stanza, finendo per posarsi infine sul suo bicchiere con ormai pochi rimasugli di ghiaccio. Ah, come avrebbe voluto sciogliersi lì dentro anche lui.
    «So fare le barchette di carta.» rispose, atono, tutto d'un fiato, cercando di ricordarsi come cavolo si faceva a respirare. Bella risposta di senso compiuto. Adesso magari avrebbe potuto connettere le sinapsi.
    Anche se, con il cuore che se ne andava per i fatti suoi, non era molto facile.
    Hobby. Forza Alex, non è difficile pensarci: non hai degli hobby con cui fare colpo? Oltre a dormire stravaccato sul divano, guardare serie tv spiaccicandoti su un cuscino e prenderti cura del tuo gatto? In qualche modo te li sarai fatti gli addominali che nascondi sotto la camicia, no?
    Ah sì, giusto. Il ricercatore si ritrovò a ringraziare quel provvidenziale e silenzioso intervento della sua coscienza. «Uhm, faccio sub. E nuoto.» azzardò, nonostante si sentisse ancora le guance andare a fuoco e le funzioni celebrali su un altro pianeta. Di solito, quando rivelava quello, scatenava una cascata infinita di esclamazioni meravigliate e domande a cui non gli faceva schifo rispondere. Forse poteva andare per calmare le acque. «Comunque no. Cioè sì, voglio dire, siamo... siamo solo amici.» spiegò, o almeno ci provò, vista la poca convinzione nelle sue parole. Almeno dalla parte di Lazar era sicuro che fossero amici, quanto a lui... beh, lui non era importante. Essere amici andava più che bene.
    D'altra parte, era strano che Ryoga chiedesse una cosa simile, no? «...è una domanda strana da fare. Ti è davvero successo sul serio? Di creare delle situazioni spiacevoli, dico. Credevo non poteste... avere relazioni con i vostri clienti?» domandò. Da una parte era davvero curioso, dall'altra c'era l'urgenza di cambiare discorso perché... per la miseria era patetico.
     
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    Ryoga non conosceva ogni sfumatura del colore rosso, ma era certo che in pochi secondi le gote di Alexandre avessero sperimentato tra le diciotto e le venticinque gradazioni differenti. Notevole, doveva essere una quirk. Persino l’esitante accenno all’ikebana gli era morto sulle labbra, destinato a restare privo di forma.
    Se non fosse stato irrispettoso nei confronti di un estraneo, oltre che decisamente fuori luogo, Ryoga si sarebbe concesso il sorriso a mezzaluna di chi ti ha letto dentro; al contrario, tenne su la sua maschera con incontestabile maestria, senza che neanche una crepa ne intaccasse la seraficità. Una comare vestita da angelo. A furia di fingere sarebbe prima o poi impazzito, ma per fortuna non è questo quel giorno.
    Con enorme sorpresa di nessuno, aveva fatto centro. Era stata una reazione prevedibile? Un po’ sì, ma in fondo non c’era niente di male; anzi, gli rendeva solo il lavoro più facile.
    Alexandre era paradossale e contraddittorio nel suo essere ermetico in merito ad argomenti personali, ma al contempo alla ricerca di contatto con uno sconosciuto con cui sembrava restio a condividere qualunque informazione. In parole povere: era in un host club per conoscere qualcuno, senza però parlare di se stesso. L’incubo di ogni host.
    “So fare le barchette di carta.”
    Che sapeva un po’ di quei momenti in cui tutti i tuoi amici vantano di saper fare cose fantastiche e a te non resta che dire “Io una volta ho vomitato”.
    Quell’affermazione gli strappò una risata. «È un inizio. Sapessi quanti aeroplani di carta ho fatto planare sulle teste dei miei compagni di classe, era un buon modo per farmi buttare fuori e saltare le interrogazioni.»
    Dignità: annientata. Povero Alexandre, doveva aver studiato come un matto per diventare uno scienziato e ora si ritrovava al tavolo con un bulletto ignorante. L’incubo di ogni scienziato?
    E se prima aveva avuto la cortesia di tenere per sé la soddisfazione di aver colto nel segno, quando Alexandre spostò volontariamente l’argomento sull’amico dal forte accento slavo Ryoga non si preoccupò più di nascondere l’espressione sorniona, assottigliando gli occhi e arcuando un angolo della bocca.
    Alexandre aveva aperto il vaso di Pandora.
    «Forse.» disse Ryoga con invidiabile nonchalance. «O forse stavo solo tastando il terreno.»
    O forse aveva in programma di ucciderlo in una maniera un po’ meno convenzionale per un ghoul.

    Chi invece aveva in programma l’omicidio di Alexandre De Lacroix in una maniera assolutamente convenzionale per un ghoul era Lazar Khabarov, il quale, puntuale come un orologio svizzero, tornò al tavolo nel peggiore dei momenti, ovvero proprio mentre Ryoga finiva di parlare.
    «Mой друг!» esclamò, agitando una mano all’altezza del volto in segno di saluto.
    Bene, adesso anche l’host sapeva che era russo. I loro sguardi si incontrarono per un momento e Lazar, inconsapevole salvatore della patria, mise fine a quel colloquio appoggiando disinvolto una mano chiusa a pugno sul fianco e l’altra intorno allo schienale della sedia del biondo.
    «Mi spiace rompere l’idillio, ma hai sforato di cinque minuti, mio caro.» strizzò l’occhio ad Alexandre, chiaramente aveva altro da dire ma si stava trattenendo.
    Ryoga fece un cordiale cenno di diniego. «È stato un piacere sforare di cinque minuti, non preoccupatevi.»
    Il demonio era tornato ad essere un angelo, peccato che i problemi di Alexandre non fossero finiti lì.
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    Alexandre R. De Lacroix
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    Alex si trovò a ringraziare per l'ennesima volta in meno di un'ora la superba capacità di sdrammatizzare dell'host.
    Che non solo si dimostrava sagace, ma addirittura rideva alle sue battute. Anche se non sempre erano volontarie era sempre meglio di quel lungo ed imbarazzante silenzio che a volte segue ad una frase detta proprio col proposito di far ridere. Il ricercatore preferì non rivelare che lui avesse imparato a costruire le barchette di carta per riempire la piscina del suo vecchio liceo: impresa fallita ancora prima di cominciare quando l'allora rappresentante di classe aveva fatto notare a tutti che poi - per quanto potesse essere divertente come scherzo per i docenti di ginnastica - avrebbero dovuto probabilmente pulirla come punizione.
    Come già detto, Alexandre aveva sempre avuto la fama di studente modello, ma non per questo non aveva fatto le sue cazzate, visto e considerato che la scuola era spesso anche l'unico posto in cui sfuggiva a quell'aria stantia e soffocante che si respirava dentro le mura di casa sua, che nemmeno la torre Eiffel fuori dalla finestra riusciva a far diventare più leggera. Semplicemente la sua aria innocua e pseudo-angelica aveva sempre fatto in modo che i voti cattivi in condotta se li prendessero gli altri, mentre lui al massimo si beccava l'occhiataccia dal professore di turno e la classica ramanzina sulla scia del "non farti influenzare", ma era meglio non fare la lista delle stupidaggini che avesse combinato a scuola anche per cose molto meno etiche che saltare le interrogazioni, quindi di certo non si sarebbe scandalizzato per degli aereoplanini di carta.
    Magari lui e Ryoga avevano in comune più cose di quanto il ragazzo potesse immaginare (ahah no).

    La frase criptica del biondo lo lasciò appeso alla necessità di sapere cosa intendesse come un pesce attaccato all'amo.
    Forse? Tastando il terreno? Per cosa? Che voleva dire?
    Alexandre raddrizzò la schiena, incrociò le braccia sopra il tavolo e s'impettì sulla sedia, parzialmente offeso da quella dichiarazione. Santo cielo! Non lo stava neanche facendo, ma perché flirtare con i ragazzi doveva essere così... complicato? E loro che si lamentavano delle donne! Era pronto a mettere le mani sul fuoco che fosse molto più semplice.
    Cosa voleva dire Ryoga tuttavia, non lo seppe mai, perché proprio in quell'istante una voce fin troppo familiare disse qualcosa di incomprensibile in russo ed Alexandre si sentì morire dentro.
    Oh no. No, no, no. Pessimo tempismo.
    Lo scienziato alzò lo sguardo e successe proprio quello che temeva. Lazar era lì, in piedi, alle spalle di Ryoga, i capelli blu oltremare a risplendere sotto le luci dorate del Velvet Room come uno sprazzo di sole che si specchia nell'oceano al tramonto, gli occhi celesti e il viso tagliato in due da un'espressione sorniona. Il suo cuore fece un tuffo.
    Quei due sembravano un quadretto di giovani e moderni galantuomini: raffinati, vestiti di tutto punto e sopra un nostalgico sfondo di un salotto della Belle Époque.
    Eppure il suo sguardo indugiò sulla figura del ragazzo in blu un secondo di più.
    La domanda che gli aveva posto l'host tornò a riaffiorargli alla mente con la persistenza di un dannato demonietto che normalmente avrebbe alloggiato silenzioso su una delle sue spalle; non aveva ancora passato quelle sue improbabili emozioni sotto il tritacarte, altro che rompere l'idillio, se c'era qualcosa che stava per rompersi quello era definitivamente lui.
    Per colpa di Ryoga.
    E della sua stupida domanda.

    «Dare la colpa a me non è un modo molto carino per farmi sapere che in realtà hai sforato e sei tu quello in ritardo. – ribatté Alexandre, per nulla colpito da quell'audace occhiolino fatto apposta per fargli saltare i nervi. Si alzò educatamente dalla sedia abbandonando il suo bicchiere ormai vuoto e, con un cortese inchino tipico da giapponese che non era, salutò l'host che gli aveva fatto compagnia. – Ti ringrazio per la compagnia, Ryoga-san. È stato un piacere conoscerti.» mentì, con eleganza. Non per Ryoga che, poverino, non aveva fatto niente, ma per tutto ciò che la loro conversazione aveva comportato. Quella realizzazione che faceva male come una mano nello stomaco che ti rimesta le viscere.
    Il fatto che sì, lui e Lazar erano solo amici. Purtroppo.
    Alexandre nascose il suo turbamento dietro un sorriso pieno di buchi, e poi si rivolse al russo. Non vedeva l'ora di chiudersi la porta di casa propria alle spalle e concludere quella serata. «Ti sei divertito?»
     
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    Ryoga non aveva l’ardire di affermare che al termine di quei sessanta minuti più cinque la sua comprensione della persona che l’aveva sfidato a scoprire le sue preferenze fosse completa. La comprensione che aveva degli altri in generale non sarebbe stata mai completa per nessuno, neanche per quanto riguardava se stesso o sua sorella, quindi figurarsi un perfetto sconosciuto. Ma almeno poteva avere l’ardire di affermare di aver scoperto quel che gli interessava, per quanto potesse essere interessato a una presenza evanescente, un mero passeggero della sua vita.
    Quei sessanta minuti più cinque lo avevano divertito più del previsto - forse un po’ a spese del povero Alexandre. Gli dispiaceva abbastanza da provare senso di colpa? Solo finché non si ricordava di avere davanti un umano. Quindi no, non gli dispiaceva.
    Alexandre non era una brutta persona, tutt’altro: sembrava piuttosto sensibile e delicato, forse un po’ sbruffone nel suo cercare di tenere testa alle persone mordaci come Ryoga stesso o il suo amico russo, ma non era quel tipo di persona che getta benzina sul fuoco del suo odio nei confronti degli esseri umani.
    Dunque non era colpa di Alexandre se alla fine tutto era andato a rotoli, la colpa era solo sua che viveva di rancore e pregiudizio. Se ne rendeva perfettamente conto, sì, ma questo non cambiava niente. Al massimo era l’ennesima conferma che quel lavoro non faceva proprio per lui: non puoi prenderti cura delle persone quando sei portato a distruggerle.
    Un’altra cosa che Ryoga non avrebbe mai avuto l’ardire di affermare era di essere una brava persona.
    Imitò i movimenti del rosso, mettendosi in piedi e ricambiando l’inchino pur non amando le formalità. «Grazie a te» sorrise con garbo prima all’uno e poi all’altro «vi accompagno al banco.»
    Il russo però si intromise prima che avesse anche solo il tempo di muoversi. «Nessun bisogno, ho già pagato io per entrambi.»
    Ah, quindi era pure sugar daddy. Che belli gli stereotipi sui russi. Aveva comunque senso, dal momento che era stato lui a trascinare Alexandre in quella situazione spiacevole.
    «Allora lasciate che vi accompagni all’ingresso.» si corresse, non prima di aver intercettato lo sguardo del collega alla cassa, che silenziosamente gli confermò che nessuno stava cercando di truffarlo. Dunque si avviò verso l’ingresso, dando ai due lo spazio necessario a riprendere i botta e risposta di cui sembravano non stancarsi mai.
    «Credo di aver finalmente trovato il mio personale Nirvana.» era stata infatti la risposta alla domanda di Alexandre.
    Chissà se il russo era anche solo un minimo consapevole di cosa passava per la testa del suo amico. Si salutarono sulla porta, ma prima di lasciarli andare Ryoga rivolse un ultimo sorriso al francese.
    «Spero manterrai la promessa, Alex.» disse, sibillino, senza illudersi di rivederlo davvero.

    [...]

    Lazar Stefanović Khabarov non era stupido. Semmai era distratto.
    L’educazione ricevuta dal nonno l’aveva reso un cacciatore degno di lavorare per Opera, attento a non trascurare qualunque dettaglio i suoi occhi avrebbero potuto cogliere e a prevedere le mosse delle sue vittime basandosi su pattern ricorrenti. Dunque non aveva mancato di notare certi elementi che ricostruivano un quadro che gli avrebbe di certo fatto comodo.
    Sapeva che Alexandre nutriva un qualche interesse nei suoi confronti - pur essendo all’oscuro dell’intensità di tale interesse - e intendeva sfruttarlo per completare l’opera che aveva lasciato a metà un mese e mezzo prima. Non che Alexandre fosse una preda ostica, anzi la sua arrendevolezza faceva decisamente compassione, ma Lazar pensava che una morte dignitosa fosse il modo giusto per andarsene, quindi non gliel’avrebbe negata. Normalmente sarebbe stato più indulgente, ma in quel caso aveva troppo da perdere per lasciarsi andare ai sentimentalismi.
    Rodion non avrebbe avuto ragione.
    «Allora, esperienza da non ripetere mai più?» esordì una volta che furono soli, camminando con passo rilassato verso la metropolitana.
    Non avevano concordato cosa fare dopo l’host club, non ufficialmente almeno.
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    Alexandre R. De Lacroix
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    Sentirsi complici di qualcosa, ogni tanto, era carino.
    Per questo l'ultima frase di Ryoga lo fece sussultare come uno sciocco e gli dipinse un sorriso timido sulle labbra. No, davvero, non era niente di eclatante, ma Alexandre era una persona semplice e gli bastavano delle frasi stupide come "spero manterrai la promessa", "spero ti ricorderai di me ogni volta che metterai una camicia a fiori anche se qui non ci volevi venire" e via discorrendo, per sentirsi anche un minimo importante.
    Perché, a dire il vero, nemmeno lui avrebbe potuto avere l’ardire di affermare d'aver compreso la persona che aveva avuto davanti per un'ora più cinque minuti. Anzi, forse, non aveva manco iniziato a comprenderla. La sostanziale differenza fra il ricercatore della CCG e l'host del Velvet Room era, tuttavia, che al primo non importava un fico secco. Del resto non c'era davvero bisogno di comprendere una persona per farsela piacere, e Alexandre aveva appena deciso che Ryoga gli piaceva.
    E, anche se quello scambio non aveva la stessa valenza della promessa fra due ragazzini che avevano giurato di incontrarsi dentro la loro casa sull'albero ogni giovedì(?), perché erano entrambi due adulti grandi e vaccinati, era comunque carino immaginarsi di condividere un segreto, per quanto idiota esso fosse. Magari non si sarebbero davvero visti mai più, ma le camicie colorate di cui erano pieni gli scompartimenti del suo armadio gli avrebbero continuato a ricordare il loro incontro di volta in volta, chi poteva saperlo.
    Senza dubbio, se avesse avuto una personalità più spigliata o esuberante come Lazar, che aveva appena affermato di aver trovato il proprio personale percorso per giungere all'illuminazione fra le mura di quel locale, avrebbe tentato di rispondere per le rime, o almeno di non mostrarsi così impacciato per una banale frase come quella. Lui però, di Nirvana o dei Nirvana, aveva solo un disco.

    [...]

    Quando guardi troppo a lungo nell'abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te. Al di là di quanto potessero essere veritiere e poetiche le frasi di Nietzsche, in quel momento, Alexandre si sentiva un po' come un secchio in caduta libera verso il fondo di un pozzo di cui non riusciva neanche a vedere la fine. L'aria primaverile fuori dal Velvet Room servì a riscuoterlo solo in parte da quella valanga improvvisa di pensieri caotici in cui l'host lo aveva fatto precipitare. Altro che velluto, sotto sotto ci doveva sicuramente essere un letto di spine.
    Lazar stava camminando al suo fianco, con aria apparentemente rilassata. Il ricercatore sospettava che non fosse così, perché dal suo sguardo azzurrino s'intuiva che avesse dei pensieri per la testa; pensieri che, tuttavia, non era in grado di discernere.
    Ma dai, quindi anche lui ogni tanto si preoccupava di qualcosa?
    «Assolutamente sì. – replicò, all'interrogativo altrui, ma la risposta gli venne così di getto che persino lui stesso stesso dovette riconoscere che a parlare era stato l'istinto di non voler trovare qualcosa di positivo in quell'esperienza, per cui passo immediatamente a mordicchiarsi l'interno di una guancia, sentendosi meschino. – ...va bene, no. Non del tutto. Poi ho fatto una promessa, quindi dovrò tornarci per forza.» ammise, ma non lo disse come fosse un obbligo sgradito al quale si stava rassegnando contro la sua volontà.
    Anche perché niente e nessuno lo obbligava fisicamente a mantenerla se non il suo onore, ma per uno che metteva in ballo il suddetto anche per rollare sui gacha... l'importanza era era presto detta.
    Era difficile spiegare come si sentisse a riguardo, perché non lo sapeva neanche lui.
    «Ryoga è stato molto gentile nonostante io... uhm, nonostante tutto. È stato solo un po' imbarazzante all'inizio perché... beh, ecco, io non sono abituato a vivere la questione serenamente come fai tu.»
    O tanti altri come te.
    Evitò di dirlo esplicitamente, ma si intuiva piuttosto bene. Lui... non era abituato ad ignorare il soverchiante peso del giudizio altrui. In realtà non gli andava granché nemmeno di affrontare l'argomento, ma non si era dimenticato lo scopo iniziale della serata e - dentro di sé - sentiva di dover delle spiegazioni al ragazzo che si era preso persino la briga d'imbarcarsi in quell'inutile crociata. Magari Lazar voleva solo divertirsi a sue spese, però era buffo perché... aveva indovinato cose di lui che Alex non aveva mai detto nemmeno a gente con cui si accompagnava da anni e... lo conosceva da quanto? Un mese? Due?
    «Vedi, è da quando ho tredici anni che so che mi piacciono gli uomini. Mio padre pensava che fosse una specie di malattia, quindi... penso tu possa immaginare, dopotutto sarai nato in Russia.»
    Scrollò le spalle e, silenziosamente, si domandò se tutto quello fosse davvero necessario. Era davvero necessario che portasse la conversazione in quella direzione? Non poteva solo starsene zitto come sempre? Tessere il solito legame superficiale come sempre, così da poter diluire lo sciroppo amaro delle sue preoccupazioni in un bicchiere d'acqua dolce? C'era davvero bisogno che Lazar sapesse perché era così restio a fare amicizia? No, decisamente no. Però la stupida, sciocca e irriverente domanda di Ryoga continuava a rimbombargli in testa come un tamburo, e lui sentiva l'urgenza di mettersi dei paletti, e subito, prima che fosse troppo tardi.
    «Sai, prima... Ryoga-san mi ha chiesto se siamo amici.»
    Beh, no ok. La domanda non era stata proprio quella, ma Alex decise di rigirarla un po' per i suoi comodi.
    «Io non ho mai avuto molti amici, fra i ragazzi. Avevano sempre tutti paura che mi innamorassi di loro, anche se non è così che funziona. Al contrario, le ragazze non si facevano quasi nessun problema a spogliarsi davanti a me.» rise, sottovoce, sforzandosi di nascondere quanta tristezza gli provocasse quella stigma. Non era mai stato molto fortunato da quel punto di vista. Abbassò le iridi verdastre verso terra e calciò un piccolo sassolino al margine del marciapiede, osservandolo rotolare in strada fino a colpire la ruota di una macchina e finire sotto il paraurti.
    Fine della sua partita di calcio.
    «Lazar, noi... noi siamo amici, vero?»
    La risposta era no. E lo sapeva.
    Insomma, non si conoscevano mica da così tanto.
    Al massimo erano conoscenti.
    «Se non lo siamo... a me piacerebbe esserlo. Tuo amico, intendo.» disse, arrestandosi un momento in mezzo al marciapiede, quasi dovesse prendere coscienza di quello che aveva appena detto. E doveva farlo. Come al solito, il ricercatore aveva ben poco da offrire. Non era una persona interessante e glielo aveva già ampiamente dimostrato. D'altronde era niente più che un patetico scarto che persino un ghoul si era rifiutato di mangiare, figurarsi se poteva essere un buon amico. Ecco sì, forse era meglio che ritirasse tutto quanto. D'improvviso le sue guance si tinsero di rosso, e Alex sentì il proprio cuore prendere a colpire contro la sua cassa toracica talmente forte che percepì il bisogno di coprirlo con il suono della propria voce.
    «A...Ah. I-Io... scusa, non dovrei sfogarmi con te che non c'entri nulla, immagino. Sembravo un ragazzino delle elementari, vero? Ignorami pure, credo di essere stanco. Anzi, forse è meglio che io vada a casa. È tardi e anche tu domani avrai da fare. Non ti ho neanche ringraziato per avermi offerto... err, uhm? Da bere? R-Ryoga? Non so come dovrei dirlo esattamente... – mormorò, incespicandosi sulle ultime parole e riprendendo a camminare, mentre si passava una mano fra i capelli rossi sulla nuca, in imbarazzo come sempre quando aveva la certezza d'esser capito quanto un tedesco negli emirati arabi uniti. – Ti serve un passaggio per caso? Ti sto accompagnando alla metro, ma io in realtà sono in macchina.» concluse, con la stessa enfasi di qualcuno che sta cercando di cancellare un pasticcio, poi si infilò una mano in tasca e tirò fuori le chiavi della sua suzuki, del tutto - completamente - inconsapevole di quanto fosse vicino a non vederla proprio l'alba del domani.
     
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo
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    “Assolutamente sì”.
    Lo sbuffo di una risata da parte di Lazar riempì il silenzio con un’allegria preconfezionata. Non si aspettava niente di diverso da Alexandre, ma non per questo lo biasimava. Anzi, era abbastanza sicuro di capire come si sentiva, avendo a sua volta sperimentato in passato l’ansia di approcciarsi a quello che poi era diventato il suo stile di vita. Da allora era cambiato così tanto da sembrare un’altra persona, e chissà che reazione avrebbe avuto il francese davanti alla rivelazione che il suo spigliato ghoul preferito fosse stato un adolescente ermetico e aggressivo.
    “Poi ho fatto una promessa, quindi dovrò tornarci per forza.”
    «Va bene, va bene. Tieniti pure i tuoi segreti.»
    Con le mani sollevate a mezz’aria in segno di resa, gli occhi assottigliati sotto le sopracciglia alte ed un sorriso sagace che tagliava il volto, Lazar decise che fingersi geloso della complicità nata in sessanta minuti e cinque tra Alex e Ryoga fosse molto divertente. Naturalmente non era così e confidava che lo scienziato lo intuisse da solo dall’alto della sua incontestabile intelligenza. Umorismo a parte, infatti, tra i valori a cui Lazar dava fondamentale importanza non mancava il rispetto della libertà altrui di vivere senza restrizioni dettate dalla gelosia. Come tanti altri, anche lui era un tipo geloso delle persone che amava, ma faceva del suo meglio per non farlo pesare agli altri.
    Se sulle prime era stato intenzionato ad inserirsi nel discorso alla prima pausa prolungata, bastò poco affinché Lazar capisse di trovarsi alle porte di un lungo e sentito monologo, di quelli che richiedono tempo e luogo consoni ed un livello di confidenza che non reputava di avere con il francese. Insomma, proprio l’ultima cosa che si aspettava da una persona riservata come lui, che sembrava riluttante ad affrontare qualunque argomento che riguardasse la sfera privata. A parte il gatto Julian, ovviamente.
    Ryoga doveva avergli smosso qualcosa nel cervello, si disse il russo, perché Alexandre sembrava di punto in bianco aver dimenticato che stavano ancora camminando in mezzo alla strada, in mezzo agli sconosciuti, in mezzo a quel mondo esterno nemico capitale di ogni introverso.
    In un qualunque altro contesto avrebbe accolto con piacere l’opportunità di sbirciare attraverso uno spiraglio i veri pensieri di qualcuno, ma non in quello. Perché osservare il tuo tacchino arrostito che si agita sul piatto raccontando delle sue tribolazioni è... disorientante.
    Si morse le labbra e lo lasciò parlare a ruota libera, reprimendo l’incalzante senso di disagio che sentiva dilagare nel proprio stomaco. Alexandre blaterava di argomenti di cui lui aveva una conoscenza profonda quanto le sue cicatrici, di amicizia e di desideri troppo puri per il tipo di rapporto che avevano.
    Ogni frase era una conferma che non avrebbe dovuto esitare quella notte: Alexandre De Lacroix doveva morire.
    E lui l’avrebbe ucciso.
    «Perché non dovremmo essere amici?»
    La domanda era stata formulata con un tono scherzoso, che ne lasciasse intendere la retoricità, e accompagnata da un sorriso dalla sfumatura maliziosa che subito si addolcì. La mano sinistra del ghoul assestò una pacca amichevole sulla spalla dell’umano, con un’attenzione quasi maniacale nel dosare la forza.
    «Almeno quando sei con me cerca di farti meno problemi e dai tregua a quel povero cervello, prima che fonda.»
    E una risatina mise fine a quella parentesi, liquidando le insicurezze di Alexandre come se non avessero avuto basi solide. Quello sì che era un atteggiamento superficiale, uno che non avrebbe mai riservato a coloro a cui teneva davvero.
    Il momento fatidico si avvicinava e Lazar, con lo stomaco sempre più contratto, era pronto a propinare qualche pretesto per attirare Alexandre in trappola, sennonché la vibrazione improvvisa dello smartphone sventò il suo piano prima che potesse metterlo in pratica. Infilò una mano nella tasca del trench, intenzionato a ignorare qualunque notifica in entrata ma rimanendo poi sorpreso nel notare con la coda dell’occhio sul display una chiamata in arrivo da parte di sua sorella Viktoriya. La stessa Viktoriya che se avesse potuto avrebbe usato i piccioni viaggiatori nel 2020.
    «Solo un minuto…» si scusò, prima di mettere tra sé e l’umano la distanza necessaria ad avere un minimo di privacy.
    Il timbro di Viktoriya, solitamente pacato e misurato, rimbombò inaspettatamente acuto nel timpano di Lazar, che d’istinto corrugò la fronte sentendo il suo nome pronunciato con tono d’allarme. La telefonata durò davvero meno un minuto, al termine del quale, con un’espressione di evidente ansia sul volto pallido, il russo chiuse frettolosamente la chiamata e rimise a posto il telefono.
    «Cambio di programma!» come aveva visto tante volte fare ai giapponesi, batté le mani davanti al volto in segno di scuse. «Era mia sorella. Perdonami, Alex, ma devo assolutamente raggiungerla alla svelta.»
    Viktoriya aveva lo straordinario potere di chiamarlo sempre nel momento peggiore, in quel caso aggiungendo a una mole di problemi un nuovo problema dalle incalcolabili dimensioni. Come se non fosse stato abbastanza, ancora una volta tra gli artefici del disastro figurava lui, Lazar. Avrebbe mai preso una scelta giusta nella sua vita?
    Con le gambe già pronte a scattare, il russo attese la conferma di Alexandre che andasse bene rimandare la sua dipartita. Sfortunatamente avrebbe dovuto aspettare un altro po’, al momento c’erano crisi più gravi da sventare.
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    «Parlato.»
    "Pensato."
    Ghoul
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    "Perché non dovremmo essere amici?"
    Alexandre arrossì violentemente. Una pozza di imbarazzo così grossa che ci sarebbero potuti affondare lui, Lazar, il titanic e persino l'iceberg che lo aveva colpito. Così tanto, che per non farlo notare... dovette distogliere lo sguardo e puntarlo su una tizia random appostata a lato della strada con le amiche che, poveretta, quando se ne accorse, arrossì di rimando, lanciò uno sguardo confuso e stralunato alla strana coppia, e forse si prese una cotta per entrambi sul momento, anche se non credeva nel colpo di fulmine.
    Il ricercatore, d'altro canto, si sentì un perfetto idiota.
    E che cavolo ne sapeva, pensò, sbollendo lentamente, le labbra tirate in una smorfia che chiedeva pietà.
    O meglio no, lo sapeva. E lo aveva appena spiegato.
    Se Lazar stava cercando di veicolare una sottospecie di circolare per dirgli che avrebbe dovuto farsi meno paranoie, il messaggio era arrivato forte e chiaro.
    Aveva fatto una domanda stupida, d'accordo, aveva capito.
    Forse a qualcuno sarebbero potute suonare parole superficiali, ma - in realtà - era tutto ciò di cui Alexandre aveva bisogno in quel momento, ovvero che qualcuno lo trattasse come una persona normale e non come uno schifoso peccatore come diceva chi aveva la stessa visione di uno struzzo con la testa piantata sottoterra.
    Cioè, aveva già inteso che il russo non appartenesse a quella categoria di persone, però averne la conferma non faceva mai male.
    «Mh. – biascicò, come breve cenno d'assenso, una volta riconquistato un colorito decente. – Credo non ci sia più niente da fondere ormai.» replicò, con una lieve risata di scherno rivolta verso sé stesso.
    Nel senso, aveva fiducia nelle sue capacità intellettive, era molto bravo a risolvere tutte quelle cose che normalmente facevano impallidire le persone comuni come le disequazioni di secondo grado con le radici quadrate, ma la cosa finiva lì. A livello di relazioni umane era appetibile quanto un decotto di ortiche per colazione.
    Fortuna che ai ghoul non interessava quello.
    A proposito di lasciarsi fondere il cervello, era già pronto a contraddire ciò che aveva appena detto lasciandosi scivolare nel classico panico stagnante del non saper cosa dire dopo una conversazione pesante quando il telefono di Lazar reclamò l'attenzione del proprio proprietario.
    Il francese aveva uguale rispetto per la privacy altrui, indi per cui lo lasciò fare, in parte sollevato, e ne approfittò per spiare il proprio riflesso nel finestrino di una macchina parcheggiata a ridosso del marciapiede.
    Bene, era perfettamente uguale a quando era uscito di casa... e allora perché si sentiva così? Temeva di avere una risposta, ma non se la sarebbe data quella sera.
    La chiamata non durò eccessivamente a lungo e dopo un minuto, come aveva detto, Lazar tornò da lui, avvisandolo che tristemente era sopraggiunta un'emergenza e doveva raggiungere sua sorella. Alexandre non fallì nel notare l'espressione di livida ansia formatasi d'improvviso sul volto del ghoul e lo scrutò con un briciolo d'apprensione; era ingenuo, non scemo.
    «Ah, certo. – annuì, raddrizzando la schiena in una posa alquanto rigida, senza sapere perché. – Spero non sia successo nulla di grave.» si augurò, senza alcuna cura di nascondere la propria preoccupazione. Non aveva mai visto le sorelle di Lazar se non grazie alle fotografie sui social, in cui formavano una specie di adorabile quadretto che sembrava tradire una vicinanza familiare che Alex non avrebbe mai potuto sperimentare, ma aveva dei brutti ricordi di chiamate senza risposta o a cui sarebbe stato meglio rispondere, quindi non ci volle nemmeno provare a trattenerlo. Anche perché onestamente anche la sua psiche aveva un disperato bisogno di riposo.
    «Buonanotte allora.» salutò, chinando appena il capo in segno di rispetto, prima di guardare sgattaiolare via il ragazzo fra le persone e le strade affollate di Shinjuku. Poi con un nodo che gli stringeva lo stomaco, alzò un po' la voce. «F-Fammi sapere!»
    Poteva chiederlo giusto...?
    Erano... amici dopotutto, no?
    Probabilmente era una notte tutt'altro che buona, ma lui non poteva saperlo.
     
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