I drink my tears tonight, I drink my tears and cry

[CONCLUSA] ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX & LAZAR STEFANOVIĆ KHABAROV | STREETS - 21/02/2020 NIGHT

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    26 Y/O

    X1nxtlc
    Alexandre stava scappando dalle proprie responsabilità, e lo sapeva benissimo. In aggiunta, no, non era un'iperbole, stava fisicamente scappando e se ne vergognava a dismisura. Per contro però non riusciva proprio a farsene una colpa.
    Tra meno di quattro giorni sarebbe stato il suo ventisettesimo compleanno e, come sempre, la sua voglia di festeggiare oscillava come un pendolo fra il "non è necessario" ed il "non ho voglia".
    Non perché non avesse con chi farlo o simile, semplicemente, davvero, non gli andava (non che fosse una novità, non gli andava mai), e non riteneva che ci fosse qualcosa di eclatante nel festeggiare 27 anni. Primo, ventisette era un multiplo di tre, e ad Alexandre non era mai piaciuta quella tabellina; secondo, era solo un anno in più che si aggiungeva ad una vita vuota e poco significativa come la sua.
    Quindi aveva deciso che si sarebbe limitato a rispondere ai messaggi di auguri da parte di amici e parenti chiudendola lì, e che avrebbe ignorato il resto come solo i veri asociali sanno fare. O almeno così aveva sperato. Perché seppur da parte sua le buone intenzioni c'erano tutte, non era comunque riuscito a scampare alla furia passiva-aggressiva di quella che era la sua migliore (e anche l'unica, forse) amica. La stessa che lo aveva trascinato accompagnato alla festa di Halloween e la stessa che si assicurava che ogni tanto Alexandre socializzasse un po' fuori dalla CCG. Chinatsu rispettava molto il suo lavoro, ma riteneva che Alexandre per colpa di quello si stesse isolando dal mondo e, guarda caso, siccome il ricercatore non metteva piede fuori di casa per andare a divertirsi proprio dalla sera di Halloween, forse un po' di ragione ce l'aveva.
    La ragazza voleva solo assicurarsi che venisse con lei per festeggiare il compleanno fuori di casa per mezza serata, e lui a protestare ci aveva provato, ma Chinatsu - a tradimento - aveva tirato fuori una confezione con dentro la torta alle fragole della sua pasticceria preferita ed Alexandre aveva ceduto nel giro di tre secondi. Era sleale? Dal suo punto di vista assolutamente sì, ma doveva riconoscere di essere fin troppo facilmente corruttibile quando si trattava di dolci.
    Solo che Chinatsu la slealtà ce l'aveva nel sangue e l'aveva incastrato non una, ma ben due volte.
    In effetti, Alexandre, in quel momento, si trovava proprio in una delle vie principali di Shinjuku Ni-chōme – famosa per i suoi ovvi motivi – ed era sull'orlo di una crisi di nervi.
    Innocentemente, lui aveva pensato di uscire davvero solo con Chinatsu, e così era stato, se non fosse che ad un certo punto lei non gli avesse presentato un suo amico e non lo avesse mollato con lui con una scusa che alle orecchie di Alexandre era suonata come un qualcosa tipo "è per il tuo bene", per poi sparire per i fatti suoi.
    Okay. Bel tentativo. Per quanto impacciato nei confronti della vita, Alexandre non era stupido, e quello era... praticamente un appuntamento al buio e lui ci era cascato come un pesce lesso. E premesso che lui voleva tanto, tantissimo, bene a Chinatsu, come quella consapevolezza lo aveva colpito, una vocina all'interno dei meandri più oscuri della sua testa gli aveva suggerito che prossimamente le avrebbe rigato la portiera della macchina.
    E, davvero, quel ragazzo era stato pure carino. Era un po' più giovane di lui, con gli occhi scuri ed i capelli castano chiaro pettinati all'ingiù, avevano parlato per un po', ma non era questo il tipo di svago che Alexandre aveva in mente, e da bravo incapace era riuscito ad essere un concentrato di disagio per tutta la sera. Gli aveva persino offerto da bere, nella speranza che dopo quello lo lasciasse andare, ma non era servito a molto, se non a peggiorare le cose perché l'altro si era sciolto un po' di più.
    Poi niente, era successo. Quel ragazzo gli aveva proposto di andare a casa di uno dei due (eh, ma dai, cosa si poteva aspettare, erano in un gay bar), al che Alexandre si era tirato leggermente indietro con la scusa che si era fatto proprio tardi e che il giorno dopo doveva lavorare un sacco, non rendendosi conto di quanto la cosa suonasse ridicola considerando che l'indomani sarebbe stata una domenica festiva.
    Lo aveva salutato velocemente ed era scappato. In modo pessimo e scortese, ma considerando che aveva raggiunto il punto di rottura ore prima, riteneva d'aver resistito fin troppo. E non sentiva minimamente di essere nel torto, accidenti a lui e a quando aveva accettato la proposta di Chinatsu. Si sentiva come se tanti piccoli aghi con sopra scritto "codardo" lo stessero infilzando dappertutto, ma cose del genere, con lui, non potevano funzionare. Non voleva quel tipo di cosa. Non voleva quel tipo di svago. Avrebbe fatto meglio a restarsene a casa a finire l'ultima serie tv che aveva iniziato ed a coccolare il suo gatto.
    Ormai era praticamente notte fonda, gli orologi ormai segnavano le due e quarantacinque, e anche se le strade principali non erano deserte, quelle secondarie stavano iniziando a svuotarsi. Alexandre aveva ancora la testa che gli pulsava per via della musica del locale in cui era stato, ed aveva bisogno di un po' di silenzio.
    Si sarebbe dovuto dirigere verso la stazione, ma era nervoso. E nervoso significava che mancava poco che si mettesse a piangere come un idiota in mezzo alla strada.
    Infilò un vicolo secondario, poi un altro ed un altro ancora. Solo quando si sentì abbastanza tranquillo, si fermò ed appoggiò la schiena al muro. Non c'era nessuno, ed andava bene così, onestamente voleva stare il più lontano possibile dalle persone in quel momento. Si strinse il braccio sinistro, e tirò su la manica della giacca, fino a scoprire il tatuaggio. Inspirò profondamente un paio di volte e poi si portò le mani al viso, cercando di riscaldarle dal gelo notturno. Un attimo solo e si sarebbe incamminato verso casa, voleva solo...
    Sentì le ginocchia cedergli appena. Voleva cosa?
    Niente, era solo una patetica persona che non sapeva vivere.

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 01

     
    Top
    .
  2.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Echo

    Echo
    Охотник Оперы
    21 Y/O

    “Non sono mai stato al contempo così vicino e così lontano.”
    Dodici gradi non avrebbero dovuto farlo tremare, ma per la seconda volta in un alito di vento le mani di Echo tremarono: due pugni avvolti nel tepore guanti morbidi, con nocche sbiancate e vene e ossa ben delineate dalla contrazione. Dodici gradi, la medesima temperatura attuale di Južno-Sachalinsk, con la differenza che alla cifra numerica andava anteposto un segno meno. No, era ovvio non si trattasse di freddo, l’origine del problema doveva essere di natura psicologica; ciononostante Echo non avrebbe saputo indicare quale emozione dominasse la tempesta che infuriava sotto la sua pelle.
    La lunga immobilità cominciava ad avere effetto sui suoi muscoli ormai disabituati alle prolungate sessioni di caccia. Poteva sentire ancora distintamente il nonno sbraitare che razza di rammollito fosse, preludio di un pestaggio che non avrebbe lasciato cicatrici visibili e che quindi, a rigor di logica, poteva essere perpetrato finché “questi ragazzini non si marchieranno a fuoco nel cervello un concetto così semplice”.
    Non buttarti a capofitto nelle cose senza pensare ad ogni possibile conseguenza. Il peso di un’intera famiglia grava sulle tue spalle e per un buon capo le emozioni sono solo strumenti di lavoro, non ostacoli; chissà se il nonno stava sogghignando, dentro la sua tomba o in qualunque altro luogo appestasse con la sua presenza ispirito, sapendo quanto i suoi insegnamenti fossero preziosi per quel rammollito del nipote. Senza di essi, Echo si sarebbe già catapultato giù da quel tetto per andare incontro a morte certa.
    “Ottimo lavoro, де́душка, magari la prossima volta un po’ meno violento.”
    E dunque eccolo lì, seduto su un cornicione, una gamba penzoloni, la schiena dritta e la mano sinistra appoggiata al cemento ruvido. A debita distanza dal suo obiettivo, che non era la preda di turno ma qualcosa molto più pericoloso e organizzato di un ignaro passante: un clan. I nemici si scelgono in proporzione alle proprie ambizioni, i Kiriyama avevano scelto di farsi nemici i Volkov e di conseguenza Opera. Echo fremeva per firmare quanti più accordi di divorzio tra collo e testa possibile, ma per sua fortuna c’era la voce del де́душка ad echeggiare nella sua mente ed impedirgli di causare un bell’incidente diplomatico.
    Erano influenti in una zona già sotto il controllo di una gang di cannibali e avevano rapito un informatore, tanto bastava a definire la pericolosità di quel branco di cani bastardi.
    Non sapeva ancora come, ma gliel’avrebbe fatta pagare cara.
    Per il momento doveva mantenere un profilo basso. Raccogliere informazioni sul clan, sui suoi contatti e affiliati e i suoi membri. Studiare la casa, ricostruirne la planimetria, scoprire le abitudini di chi l’abitava. Individuare eventuali abitazioni secondarie ed indagare l’uso che se ne sarebbe potuto fare. Alternarsi nei pattugliamenti, nelle ore diurne fingendosi turisti armati di macchina fotografica e tanta voglia di immortalare ogni anfratto giapponese o studenti che bighellonavano con gli amici al ritorno dalle lezioni; nelle ore notturne mai con la stessa maschera e gli stessi abiti.
    Sempre a debita distanza, sempre allerta, sempre pronti a combattere o attuare una strategia di fuga.
    La scelta della maschera di quella notte era stata quasi obbligata: il banale plague doctor con cui si sarebbe spacciato per un membro dei Raptors in caso di necessità - altrimenti non avrebbe mai indossato qualcosa di tanto abusato né quello straccio di felpa, “Echo”, purtroppo, era anche quello. A differenza degli Zeiva, i Raptors sembravano abbastanza disorganizzati da potersene approfittare.
    Anche quella notte il pattugliamento non gli aveva fornito alcun nuovo elemento ai fini dell’indagine, visti da fuori i cani bastardi sembravano impeccabili cittadini giapponesi con la passione per lo shoji e una villa che sapeva di compromesso tra moderno e tradizionale. Ma la perfezione puzza e attira l’attenzione più di qualsiasi anormalità.
    Mentre si rimetteva in piedi maledì la posizione strategica dell’abitazione, troppo incassata tra gli edifici di Shinjuku: per avere una visuale ottimale avrebbe dovuto esporsi troppo. Ovviamente era fuori questione.
    Era il momento di rincasare, di nuovo senza niente in mano se non rabbia. Ma sarebbe tornato, sarebbe tornato ancora e ancora, finché non avesse abbandonato quelle maledette strade assieme ad Alexey.

    Shibuya poteva aspettare, decise il suo stomaco. Echo non era mai stato un ingordo, mangiava lo stretto indispensabile quando ne sentiva il bisogno o se erano le sue sorelle a chiedergli da quanto tempo non si nutrisse. In quel caso furono i crampi a chiederglielo: da quanto tempo non cacci, Echo?
    … Da un po’.
    A stimolare il suo appetito era stata una chioma rosso rame che era riuscito a scorgere solo per una frazione di secondo, prima che essa sparisse aggirando un angolo. Tanto era bastato perché Echo si guardasse attorno con fare circospetto, assicurandosi che non ci fosse nessuno oltre lui e il suo papabile spuntino.
    Gli mancava cacciare, maledizione se gli mancava cacciare, ma con una preda così semplice non c’era quasi gusto. Sospirò, arrendevole. Era in territorio nemico, con la maschera di un’identità non sua e aveva persino il coraggio di lamentarsi che il destino gli avesse presentato la cena su un piatto d’argento. Si accertò che la maschera aderisse bene al volto e che il cappuccio nascondesse al meglio la testa, quindi si incamminò. Tempo di affondare le zanne in un bel collo morbido!
    Era una notte bella per cacciare ma brutta per morire: un denso banco di nubi nascondeva le stelle, il rombo di un tuono in lontananza presagiva pioggia. Echo amava i temporali, soprattutto quando aumentavano la difficoltà della caccia. In quel caso però la preda era già docilmente rannicchiata per terra, una cascata di rosso sbiadito in mezzo alle ombre di un vicolo squallido - con tutto quel buio non riusciva a vederlo bene neanche acuendo la vista.
    Il suono ritmico e sordo di passi annunciò la presenza del ghoul; una via di fuga era tagliata, ma l’umano avrebbe potuto provare a scappare imboccando un altro vicolo, Echo se lo augurava con tutto il cuore, voleva il brivido della caccia.
    «Avanti, scappa… datti una mossa.» sibilò sotto la maschera, gli angoli della bocca arcuati in un sorriso ferino.

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could speak I'd tell you all my fears and deprivations

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Lazar Stefanović Khabarov

     
    Top
    .
  3.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    26 Y/O

    X1nxtlc
    Tud. Tud. Tud. Alexandre ci mise qualche attimo a realizzare che quel rumore non provenisse dal cuore che gli martellava nel petto, quanto piuttosto da dei passi alla sua sinistra.
    Mentalmente, si diede dell'idiota. Aveva davvero pensato che di sabato sera potesse non esserci nessuno lì?
    L'ultima cosa che voleva fare in quel momento era mettersi a dare spiegazioni, ma ancora meno voleva essere scambiato per uno spacciatore, o peggio, un drogato, visto il modo in cui si stava tenendo il braccio. La luna era coperta dalle nuvole e grazie alle luci artificiali di Tokyo, in cielo non brillava una singola stella. Era tardi, era buio, l'unico bagliore esistente proveniva dal fiacco sfolgorare di un qualche lampione non troppo vicino, e non era proprio il migliore dei momenti per farsi sorprendere - magari dalle forze dell'ordine - in un vicolo secondario, con aria afflitta e disperata.
    Come i suoi occhi verdi riuscirono ad inquadrare un paio di scarpe, Alexandre si riscosse, seppur a stento, raddrizzando la schiena.
    «Ah-- mi scusi, io...» cominciò a dire, il suo tono di voce era stanco e perso, quasi quella fosse una frase di routine abituata ad uscire spesso dalle sue labbra.
    "Non pensavo ci fosse qualcuno", avrebbe continuato, ma non appena sollevò lo sguardo, la voce gli morì in gola con un sussulto spezzato.

    Perché?
    Fu la prima domanda che il suo cervello riuscì a processare, mentre un vago senso d'angoscia gli stritolava lo stomaco in una morsa. La presa sul braccio si fece ferrea ed Alexandre, irrigidendosi contro il muro, quasi senza rendersene conto, si ritrovò a conficcarsi le unghie nella carne.
    Una maschera.
    L'individuo davanti a lui aveva una maschera sul viso.
    Un Ghoul. Era un Ghoul.
    E non un Ghoul qualunque. Il peggio del peggio in cui potevi sperare di imbatterti a Tokyo. Quella maschera con il becco adunco... uno dei Raptors.
    Alexandre non ne sapeva quanto gli investigatori, ma lavorava pur sempre alla CCG, qualcosa spesso gli capitava di sentirlo: i Raptors, si diceva, erano aggressivi, bellicosi e violenti.
    In quel momento, persino la prospettiva di dover spiegare ad un agente che non era un drogato non pareva così tanto male.
    Un brivido gli percorse tutta la spina dorsale, dal basso verso l'alto, fino a raggiungere il collo, che rimaneva leggermente scoperto per via del taglio sportivo del suo cappotto.
    Il suo istinto gli disse "copriti e scappa", ma Alexandre non riuscì a muovere un muscolo. Gli sembrava di avere le braccia incatenate. Anche perché, a cosa sarebbe servito scappare? A fare la stessa fine di una gazzella braccata da un ghepardo?
    ...Voleva sparire, ma quello non era un film e lui non aveva poteri magici.
    Cosa gli sarebbe successo? Lo avrebbe ucciso lì? Gli avrebbe dato un colpo in testa per poi portarlo al suo covo e sventrarlo insieme ad altri ghoul? Non gli piaceva il dolore fisico.
    Boccheggiò, le labbra ancora appena schiuse per aver lasciato la frase a metà, ed istintivamente indietreggiò di un passo, sfregando il tessuto della giacca contro l'intonaco della parete.
    Eppure l'aria non sembrava arrivarci ai suoi polmoni. Stava respirando? Non riusciva a capirlo.
    Il ghoul sibilò qualcosa da dietro la maschera, ma Alexandre non lo sentì. O meglio, lo sentì, ma non lo capì. La sua testa lo registrò come il ringhio basso e gutturale di un mostro.
    E lui era il primo a pensare che i ghoul non fossero mostri, ma il panico stava avendo la meglio, surclassando qualsiasi altra cosa ci fosse di razionale nella testa di un essere umano che si sentiva in pericolo. Era tutto così... distante.
    Perché lui con tutte le persone che c'erano in giro? A qualcuno doveva pur sempre toccare, ma perché lui? Aveva tante cose da fare...
    Deglutì. Doveva scappare, chiamare aiuto, era a Shinjuku, in piena notte, sicuramente c'era qualcuno di ronda. Lo sapeva, tentò di ricordarsi qualcosa, qualsiasi cosa che avrebbe potuto aiutarlo, ma le sue gambe non accennavano a collaborare.
    Erano ferme, immobili ed orribilmente pesanti. Come se non ne potessero più, come se gli stessero dicendo basta perché per quella sera era già scappato abbastanza. Ironico, no? Adesso che poteva ed aveva tutto il diritto di fare il codardo... non gli riusciva.
    Non era buono da mangiare. Avrebbe voluto dirlo, ma...
    "Veramente è buono." scacciò la voce di Julian dalla sua testa. No, non doveva pensarci adesso. Era successo una sola volta e non significava nulla. Era stato solo un taglio che Julian aveva leccato per fargli uno spregio. Non doveva pensarci adesso, non doveva pensarci adesso, non doveva...
    Gli si annebbiò appena la vista, mentre l'ombra di alcune lacrime si affacciava sul suo viso per raggiungere l'esterno dei suoi occhi.
    Non doveva pensarci adesso!
    Fosse stato qualunque altro giorno forse sarebbe scappato sul serio e sarebbe morto nel patetico tentativo di salvarsi. Adesso sentiva solo che gli mancavano le forze. Il panico ed il terrore si stavano sommando allo stress della serata, e più passavano i secondi più si sentiva peggio. Forse, alla fine, era meglio essere patetici senza scappare. Avrebbe fatto risparmiare le forze ad entrambi.
    «Heh.» esalò un sospiro e le sue labbra si incurvarono in un sorriso amareggiato. Si era sempre chiesto se la sua morte avrebbe avuto un senso. Evidentemente, la risposta era no. Ma era diventato la cena di qualcuno, quindi almeno a qualcosa era servita.
    Continuò a fissare il ghoul, rimanendo adiacente al muro, ma improvvisamente sentì le sue spalle rilassarsi, farsi leggere, come se qualcuno vi avesse tolto un peso enorme.
    Oh... era quello che significava non avere più responsabilità?
    Tud. Tud. Tud.
    Ecco, quello era il suo cuore.
    Chissà se poteva sentirlo anche il ghoul.

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 02

     
    Top
    .
  4.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Echo

    Echo
    Охотник Оперы
    21 Y/O

    Echo osservò la creatura che aveva davanti con l’attenzione e curiosità che un rapace rivolge ad un piccolo roditore. Si prese il suo tempo per studiarlo. Ad ogni passo verso la preda, ad ogni metro che si lasciava alle spalle, si aspettava che questi alzasse la testa e riconoscesse in lui quel tipo di pericolo incombente che ti fa passare tutta la tua vita davanti agli occhi.
    Quando ciò accadde, il sorriso sotto la maschera si allungò fino a rasentare il grottesco.
    “Ah-- mi scusi, io...”
    Dalle labbra socchiuse sfuggì una risata della durata di un battito di ciglia, così bassa da essere praticamente inudibile. Neanche lui avrebbe saputo spiegare cosa ci trovasse di tanto divertente in quell’atteggiamento naïf: forse era colpa dell’adrenalina, o forse era il malato piacere derivato dalla consapevolezza di esercitare potere di vita e di morte su qualcuno.
    Avrebbe potuto provare a chiamare istericamente aiuto: in una città che non dormiva mai, e di ciò che era testimone il rombare dei veicoli che sfrecciavano nelle strade adiacenti, doveva per forza esserci qualcuno di ronda, o perlomeno nei paraggi, disposto a soccorrere un poveraccio in procinto di finire triturato tra le zanne di un ghoul. Comuni cittadini, forze dell’ordine, quella piaga delle colombe che giocavano a fare i paladini della giustizia...
    Insomma, qualcuno doveva esserci.
    Indubbiamente.
    Perciò le cacce erano maledettamente spassose!
    Davvero non intuiva di avere dei punti a suo favore? Che la scelta del terreno di caccia era tanto rischiosa per un umano quanto per un ghoul? Oh, giusto: in genere gli umani non tenevano in conto fattori del genere perché, beh, non abituati ad essere prede più di una volta. Ma lo avrebbe perdonato, Echo sarebbe stato magnanimo e avrebbe chiuso un occhio sulla sua mancanza in virtù dell’inebriante profumo di paura che stava ingolfando il vicolo.
    Inspirando a fondo - voleva goderne appieno, nonostante la maschera munita di becco lo rendesse difficoltoso - poté persino cogliere un retrogusto di… girasole? Ripeté l’azione. Sì, si trattava proprio di girasole. Shampoo forse? Beh, avrebbe avuto modo di approfondire l’indagine. Che buongustaio, quel bel ragazzo, peccato non poterci far altro prima di cena. Accidenti ai Kiriyama, che lo avevano tenuto impegnato così a lungo.
    Adesso che la distanza a separarli non superava il metro e mezzo, nonostante la scarsa illuminazione Echo poteva vederlo meglio. Ammirarlo meglio, confermando tra sé e sé che fosse proprio un peccato averlo incrociato per la prima volta con indosso la maschera. Curioso come si stringesse il braccio sinistro, che fosse un tossicodipendente colto nel peggior momento possibile? Ad un’occhiata superficiale non l’avrebbe detto, ma chi meglio di un ghoul poteva sapere che le prime impressioni ingannano?
    Avanzò ancora, finché non furono tanto vicini che stendendo un braccio avrebbe potuto mettergli le mani addosso, sentire finalmente il calore della pelle. Il cremisi delle iridi del ghoul quasi del tutto ingoiato dalle pupille dilatate, in netta opposizione al mare verde smeraldo dell’umano in cui le pupille erano ridotte a due puntini a malapena visibili. Fosse stato un collezionista se li sarebbe tenuti, quegli occhi, ma le regole del clan imponevano che a fine cena non ne rimanesse che il pallido ricordo nella sua memoria. Dura lex sed lex.
    E in quel momento accadde qualcosa così inaspettato da far dimenticare ad Echo che la respirazione era necessaria ai fini della sopravvivenza: la paura, quell’avvolgente profumo lascivo, si dissolse. Sparì dal viso ora sorridente. Scivolò dalle spalle improvvisamente rilassate. Rilassate.
    Rilassate. La sua preda si stava rilassando? La paura gli aveva liquefatto il cervello? Lo stava prendendo in giro? Era una variante della tecnica del fingersi morti?
    “Heh.”
    “Heh?”
    Che diavolo significava “heh”? Non si stava arrendendo, vero? Di tutte le possibili reazioni che una preda poteva avere, la resa era l’unica in grado di scatenare la belva dormiente dentro Echo.
    Per i successivi secondi smise di rispondere delle sue azioni: con la mano sinistra, la dominante, afferrò il braccio scoperto dell’umano e lo strattonò verso il basso. Se non avesse opposto resistenza, il ghoul lo avrebbe sbattuto a terra e immobilizzato con un ginocchio piantato nello stomaco, senza lasciare la presa sull’arto fermo sopra la testa dell’umano.

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could speak I'd tell you all my fears and deprivations

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Lazar Stefanović Khabarov

     
    Top
    .
  5.     +3   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    26 Y/O

    X1nxtlc
    Se non altro, c'erano modi ben peggiori di morire. Quello era stato l'ultimo pensiero razionale di Alexandre che, inchiodato al muro, desiderò solo farsi piccolo piccolo, mentre fissava gli occhi rossi e la maschera adunca del suo aguzzino. Doveva essere così che tremavano i conigli di fronte ai lupi: dei colossi insormontabili e terribili, esattamente come il Ghoul era più alto di lui, così vicino e minaccioso che allungando un braccio avrebbe potuto ucciderlo senza alcuna fatica.
    Avrebbe sfoderato la kagune? Alexandre non poteva saperlo, ma un po' ci sperava. Era un disastro per non riuscir ad essere serio nemmeno nei suoi ultimi istanti, ma era sicuro che quello fosse il karma. Quale miglior morte si poteva meritare un individuo codardo come lui che aveva rinunciato ad esser un investigatore perché aveva deciso di credere nella bontà dei ghoul, se non una atta proprio per mano di questi ultimi?
    Non sapeva nemmeno perché gli stesse venendo tutto in mente adesso. La sorpresa e lo sconforto iniziali lo avevano spaventato così tanto da annichilire tutto ciò che c'era di razionale nella sua testa, ma più osservava il ghoul, più si sentiva... stranamente in pace con sé stesso. Aveva paura, ma aveva paura di morire, non del Ghoul in sé.
    Alexandre non aveva mai avuto paura dei ghoul: non più di quanta ne avesse mai avuta di un incidente in auto, un terremoto o di uno psicopatico che si alza la mattina e decide che è il giorno giusto per andare a sparare davanti ad una scuola. Avere paura della morte era normale.
    Chiunque ne avrebbe avuta trovandosi in mezzo ad un edificio lambito dalle fiamme o incastrato sotto un cumulo di macerie che odorano di polvere e terra. Chiunque ne avrebbe avuta con una pistola puntata alla tempia o un coltello alla gola.
    Era il perdere la vita e le certezze che essa comportava a fare paura. Eppure nessuna di queste cose terrorizzava abbastanza gli esseri umani da impedir loro di uscire di casa la mattina.
    Anche i ghoul rientravano in questa categoria.
    Questo perché negli esseri umani esisteva da sempre quella tendenza intrinseca che li spingeva a pensare a sé stessi come qualcosa di speciale e privilegiato, ricordandosi della triste verità - che non lo sono - solo davanti alla schiacciante superiorità di qualcosa di soverchiante come la natura.
    O come i ghoul, in questo caso, che avevano privato gli esseri umani della certezza di non essere più prede da tempo.
    Ed Alexandre se ne era reso conto in quel momento. Il cuore gli martellava nel petto, il respiro incerto e rarefatto, eppure era lì, non sentiva il bisogno di scappare, come se andare incontro alla morte non fosse tanto diverso dal ricongiungersi con una vecchia amica che non vedi da tempo ed il timore di non saper cosa dire un po' ti spaventa. Il sorriso sul suo viso non doveva essere proprio un bello spettacolo.
    Poi successe. Successe tutto così velocemente che Alexandre non si rese conto di essere finito a terra fin quando non sentì il dolore. Il contatto improvviso fra la propria pelle e la presa ferrea del ghoul lo fece trasalire; istintivamente tentò di tirarsi indietro, ma una forza ben più massiccia di quella di gravità lo trascinò verso il basso e la sua schiena impattò con violenza contro il suolo.
    Il mondo si capovolse: Alexandre cadde, supino, ed il colpo gli mozzò il fiato. Percepì una sottile lacrima scivolargli lungo la guancia sinistra, inspirò, ma l'unica cosa che distinse furono i propri polmoni bruciare come se qualcuno gli avesse dato fuoco. Faceva male. Faceva male. Stava per morire. Nella sua testa non risuonarono altro che questi pensieri per un tempo che gli parve infinito, a rallentatore, lo scorrere dei secondi enormemente dilatato a causa della sensazione di dolore acuta e lancinante. Probabilmente aveva battuto la testa.
    Sempre seguendo il suo istinto, tentò di rannicchiarsi su un fianco, come per proteggersi, soffocando un colpo di tosse, ma qualcosa glielo impedì. Un colpo, ben più assestato del precedente, impattò contro il suo stomaco ed Alexandre spalancò gli occhi, che aveva socchiuso spontaneamente in reazione alla caduta, soffocando un rantolo d'agonia in un sospiro mal riuscito.
    Il suo sguardo, vacuo e annebbiato, incontrò dapprima il cielo senza stelle, solo respirando affannosamente e processando il dolore, un poco alla volta, riuscì a recuperare abbastanza coscienza di sé e razionalizzare il mondo che lo circondava.
    Disteso sul cemento, il petto che si alzava e si abbassava ritmicamente, il ginocchio del Ghoul piantato nello stomaco ed il braccio serrato in una morsa sopra la testa.
    Il braccio...
    Prima ancora di riuscir a mettere del tutto a fuoco il viso coperto dalla maschera da rapace, un moto di panico gli si accese nel petto. No, quel braccio no. L'aveva visto?
    Si morse la lingua. Qualsiasi mossa era rischiosa in quel momento, Alexandre avrebbe giurato di poterla sentire la fame del Ghoul, ma se c'era una cosa che non voleva, quella era che gli staccasse o gli mordesse il braccio.
    Non aveva ricordi di quello specifico Raptors, ma di solito non erano molto furbi ed Alexandre sperò che non decidesse di fare cose strane solo perché aveva visto il tatuaggio. Lui era un appassionato di dolci e lo sapeva benissimo: le decorazioni si mangiano per prime, la parte più buona per ultima.
    Ma non voleva.
    Recuperando delle forze da chissà dove, Alexandre sollevò il braccio libero e lo passò davanti al volto, schermandovi dietro il viso sofferente. Chiuse gli occhi. Con un po' di fatica, ma soprattutto incertezza, tentò di raggiungere la manica della giacca, che solo pochi minuti prima aveva innocentemente sollevato, e cogliere fra le dita il lembo di quella stoffa nera. Se il Ghoul glielo avesse permesso, l'avrebbe tirata giù fino al polso per coprire il resto del braccio e così il tatuaggio.
    Immobile e schiacciato a terra dal suo peso, si ritrovò a pensare di dover far qualcosa per distogliere la sua attenzione da ciò che aveva appena fatto. Schiuse di nuovo gli occhi, spiando il rapace da dietro il proprio braccio, e strinse di nuovo la stoffa della giacca. Non aveva senso opporsi ormai, ma decise che almeno lo avrebbe guardato negli occhi. Deglutì, poi inarcò appena il collo verso destra. Lì passava la vena giugulare esterna, ed Alexandre sperò che fosse sufficiente a convincere il Ghoul a cominciare da lì. Stava tremando come una foglia, e si sentiva debole come mai si era sentito in vita sua, ma non voleva che gli toccasse il braccio. Era come se stesse dicendo: "per favore lascialo attaccato al mio corpo fino alla fine".

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 03

     
    Top
    .
  6.     +3   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Echo

    Echo
    Охотник Оперы
    21 Y/O

    Un barlume di vitalità guizzò negli occhi dell’umano nel momento in cui Echo ghermì il suo braccio; allo stesso modo anche negli occhi del ghoul si accese una scintilla, ma di deliziato appagamento. Opporre resistenza non sarebbe valso a niente, non con quegli arti sottili e fragili che si ritrovava, non nella morsa di una creatura evidentemente più forte.
    Ma era stato un tentativo adorabile, glielo doveva. Perciò gli avrebbe fatto un’ulteriore concessione, oltre a perdonargli le tremende lacune in materia strategica, mitigando la violenza della presa quanto necessario a non bloccare la circolazione sanguigna. Anche il ginocchio arretrò qualche centimetro, permettendo all’umano frastornato di tornare a riempirsi i polmoni.
    Com’era misericordioso, nonostante tutto!
    Ma non si reputava ancora soddisfatto.
    Dopotutto gli aveva proprio fatto prendere un bello spavento, con quell’improvviso scemare di ogni traccia di terrore! Era forse uno di quei pazzi che non hanno paura dei ghoul? No, lo sgomento con cui lo aveva fissato inizialmente testimoniava tutto il contrario. Gli esseri umani sono troppo bravi a trovare il male in ogni cosa per non vedere un mostro in un ghoul. Era una verità innegabile a cui aveva fatto il callo sin da bambino. Le sue orecchie ascoltavano giornalmente discorsi di odio e disprezzo senza che l’ombra di una singola emozione trasparisse dal suo sguardo.
    Ma se c’era una cosa di cui Echo era fermamente convinto, era che mostri non si nasce ma si diventa. E a furia di sentirti ripetere di essere un mostro, che alla fine un po’ lo diventi.
    Quel mostro non avrebbe però usato la sua kagune su un essere umano indifeso: la kagune era un’arma e le armi si usano in determinate situazioni. Solo i meschini inferiscono senza motivo sui disarmati. C’era dell’orgoglio nell’essere predatori, secondo Echo.
    Sebbene avesse pieno controllo della situazione e potere di vita e di morte sull’umano, sotto il velo della maschera il sorriso non si era ancora ristabilito. Continuava ad esserci qualcosa di stonato, un fastidio persistente come uno stridio di sottofondo.
    Scoccò un’altra occhiata nei dintorni per assicurarsi che fossero soli, quindi tornò a donare piena attenzione alla preda. Era sempre lì, immobile nonostante non gli avesse di proposito immobilizzato un braccio, l’unico cambiamento visibile era la scia di una lacrima che rigava la guancia sinistra - il ritratto della drammaticità.
    Echo arricciò il naso, sempre più piccato: quell’arrendevolezza gli dava il voltastomaco.
    Senza pensarci due volte gli si sedette sullo stomaco, mettendo così fuori combattimento le gambe. Se voleva dimenarsi inutilmente, non sarebbe stato lui ad impedirglielo. Dubitava tuttavia che ci avrebbe anche solo provato, e di lì a poco ebbe la conferma che aspettava.
    Il rosso finalmente diede prova di essere ancora cosciente muovendo il braccio. Echo, incuriosito come un bambino, lo lasciò fare: voleva vedere dove sarebbe andato a parare, ma quando intuì quale fosse l’obiettivo si ritrovò a trattenere un sospiro esasperato.
    “Ma ti sembra davvero il caso? Pronto, c’è nessuno in casa? Mentre dio distribuiva l’istinto di autoconservazione facevi per caso la fila per i capelli folti effetto bagnato?”
    Fu quasi tentato di interrompere il movimento della mano e stringere il polso fino a romperglielo, ma non lo fece. Nella penombra, con la coda dell’occhio era riuscito ad osservare meglio la pelle del braccio scoperto, notando un tatuaggio dalle dimensioni ridotte che recitava qualcosa in una lingua che non conosceva. Aveva avuto più fortuna persino con la serpe delle fogne di Ouroboros. Qualunque cosa fosse… era importante per quell’uomo, perciò gli permise di nasconderla. Una sorta di ultimo desiderio, perché era davvero una notte perfetta per cacciare e orrenda per morire, senza neanche la consolazione del cielo stellato.
    In cambio gli fu offerto il collo.
    O, nella lingua di Echo, in cambio gli fu offerta altra rabbia.
    Stavolta la morsa sul polso divenne davvero d’acciaio, minacciando di compromettere le ossa. Strinse i denti, imponendosi di non slacciare subito la parte inferiore della maschera e affondare senza pietà i denti in quel collo per strappare a morsi la giugulare. Sapeva che avrebbe comunque avuto un sapore disgustoso, adesso che aveva confermato i suoi sospetti: quel maledetto non aveva la minima intenzione di combattere, si stava praticamente offrendo in pasto guardandolo dritto negli occhi.
    C’era un solo tipo di esseri umani che Echo odiava e si rifiutava di mangiare: i suicidi, e quel verme lo stava usando come avrebbe usato un cappio o una manopola del gas. La carne di qualcuno che si arrende così facilmente sapeva di fogna.
    Non erano quelle le regole della caccia, non secondo Echo.
    La caccia non era un gioco a chi resiste di più, ma una lotta per la sopravvivenza tra due vite ugualmente importanti. “La preda deve aver vissuto almeno quanto il cacciatore, è pertanto vietato cacciare prede più giovani” era una delle regole fondamentali della sua famiglia, perché la preda deve essersi goduta la vita almeno quanto il cacciatore. Ma Echo si poteva l’ulteriore condizione: che la preda sapesse cosa stava per perdere, che soffrisse nel realizzare la fine della sua vita. Neanche la sopravvivenza di un ghoul non era garantita durante la caccia, entrambi lottavano per il proprio diritto al dono della vita.
    Era la legge crudele di un mondo crudele.
    Per questo motivo Echo si rifiutava di nutrirsi dei suicidi. Il nonno lo avrebbe certamente pestato a sangue se avesse saputo.
    In quel momento gli fu chiaro che alla fine lo avrebbe lasciato andare, siglando quella caccia come una perdita di tempo. Non sapeva quali motivi lo avessero spinto a non tentare neanche di combattere per la sua vita, l’elenco era potenzialmente sterminato, poteva però ipotizzare che quel tatuaggio c’entrasse qualcosa. Aveva sulla punta della lingua così tante domande, per non parlare dei rimproveri, ma Echo non parlava. C’era troppo in gioco per tradirsi per così poco.
    Echo era però anche Lazar, e Lazar, che avrebbe dovuto essere un mostro, detestava vedere gli altri soffrire. Dal momento che quella situazione aveva smesso di essere una caccia, poteva permettersi di reprimere Echo quel tanto che bastava a far emergere un po’ anche Lazar. Solo per un momento.
    Una lieve pressione sulla guancia, in netto contrasto con la violenza ostentata fino a quel momento, risalì la riga lasciata dalla lacrima. Voleva essere una sorta di carezza, per dimostrare che in un mondo crudele governato da leggi crudeli c’era comunque spazio per la gentilezza.
    Si rimise in piedi e arretrò nel buio, lasciandosi tutto alle spalle a meno che non fosse stato fermato.
    Quella era l’unica cosa che Lazar poteva fare per lui. L’unica cosa che Echo, invece, poteva fare era un voto silenzioso: che non finiva lì, perché ora avevano un conto in sospeso.
    Un giorno avrebbe affondato i denti in quella dannata gola.

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could speak I'd tell you all my fears and deprivations

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Lazar Stefanović Khabarov

     
    Top
    .
  7.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    27 Y/O

    X1nxtlc
    Fosse stato un altro momento, fosse stato un qualsiasi altro momento, Echo avrebbe probabilmente avuto tutto quello che cercava: adrenalina della caccia compresa. Ma aveva avuto la sfortuna di beccare una preda già ferita, come un coniglio con la zampa rotta, ed anche se solitamente a guarire la forza di volontà non ci vuole quanto una frattura, Alexandre era stato ferito così bene, che nel suo caso sarebbe stato più corretto affermare il contrario. Non aveva mai rinunciato a vivere in generale, altrimenti si sarebbe già suicidato tempo fa e non era quel tipo di persona, ma non si sarebbe opposto alla morte se questo era quello che il destino aveva scelto per lui.
    Invero, sarebbe stato persino contento di poter essere utile a qualcuno nei suoi ultimi istanti. Ciononostante, il dolore non gli piaceva; soffrire non gli piaceva; e quando il Ghoul serrò la presa attorno al suo polso soffocò l'ennesimo rantolo di dolore stringendo gli occhi e mordendosi la lingua. Si era seduto sopra di lui come se avesse vinto una scaramuccia fra bambini ed Alexandre aveva solo l'impressione che stesse continuando a giocare. Con ogni probabilità si sbagliava, aveva deciso che lo avrebbe guardato, se non in faccia, negli occhi, per vederla: per vedere l'espressione di una persona che ne uccide un'altra, perché questo erano agli occhi di Alexandre - persone.
    Ma non era mai stato bravo a sopportare il dolore, anche Julian glielo aveva sempre detto che piangeva troppo spesso, e non ce la faceva a tenere gli occhi aperti, perché non voleva piangere ora: arrendevole sì, patetico no. Alexandre attese che succedesse qualcosa come l'uomo sul patibolo che attende che gli aprano la botola sotto ai piedi; percepì una lieve pressione sulla guancia sinistra ed il suo corpo sussultò in modo quasi impercettibile, spaventato: forse il Ghoul sarebbe sceso lungo il suo collo per soffocarlo, si disse, ma... quel contatto era caldo e... delicato? Diverso? Alexandre sgranò gli occhi, la confusione mista a panico nello sguardo, e fissò il suo boia.
    Perché, perché... cosa stava facendo? Si sentì accarezzare la guancia ed, in un attimo, tutti gli sforzi che aveva fatto per sembrare una persona forte davanti alla propria fine si fecero vani. Alexandre percepì qualcosa incrinarsi irrimediabilmente dentro di lui e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Perché stava tentando di essere gentile con lui? Perché con quel semplice gesto gli aveva riportato alla mente così tanti ricordi che facevano più male di qualsiasi dolore fisico? Perché non lo uccideva e basta? Ed invece non successe. Un attimo prima che cedesse definitivamente, percepì il peso del ghoul farsi lieve e la pressione allentarsi. Il Ghoul si alzò e silenzioso com'era arrivato, sparì nel buio della notte, accompagnato dal suono ritmico dei suoi passi ed il battere incedente del cuore di Alexandre, anche se, forse, l'ultimo non poteva sentirlo.
    Lo aveva lasciato andare. Fu questa la consapevolezza che colpì in pieno il giovane, con gli occhi lucidi, ancora sdraiato sull'asfalto, mentre ricacciava indietro le lacrime ed un sorriso amaro gli affiorava sulle labbra. Gli faceva male dappertutto e non riusciva a muoversi. Avrebbe voluto chiedersi il perché di quel gesto, ma la verità è che forse lo sapeva benissimo anche da solo e quello lo faceva sentire ancora peggio.
    Come lui, al supermercato, sceglieva la mela più rossa o l'arancia più bella, lasciando in disparte le altre, così doveva aver pensato il Ghoul: probabilmente gli aveva fatto così tanta pena da non essere nemmeno degno di esser considerato una preda. Nessuno voleva le cose marce, del resto.
    Alexandre rimase sdraiato a terra per un tempo che gli parve infinito; nonostante tutto, alla fine era stato davvero patetico. Si rialzò in piedi solo quando a farlo uscire dal suo torpore fu la vibrazione del cellulare che aveva in una delle tasche della giacca. Si risollevò leggermente aiutandosi con i gomiti, e si trascinò verso il muro, usandolo come leva per rimettersi in piedi, un po' a fatica. Vi appoggiò la schiena ansimando, e tirò il cellulare fuori dalla tasca. Cavolo se faceva male, si sentiva la schiena a pezzi ed il resto del corpo tutto indolenzito.
    Avrebbe dovuto chiamare un ambulanza? Probabilmente sì.
    Lo fece? Assolutamente no. Lo schermo sul cellulare ritraeva la foto della sua migliore amica in chiamata. Giustamente. Forse Chinatsu voleva sapere com'era andata la serata.
    Alexandre lasciò squillare. L'ultima cosa che voleva fare in quel momento era parlare. Si sfregò la guancia, come a voler cancellare un brutto ricordo; in quel momento, voleva solo tornare a casa. Avrebbe voluto che qualcuno ce lo portasse in realtà, ma la parola "facile" non aveva mai fatto parte della sua vita. Non seppe con quale forza, ma si mise in cammino, staccò semplicemente il cervello e decise di non pensare a niente se non al dover mettere un piede avanti all'altro.
    Rimpianse solo di non avere un cappuccio per nascondersi il viso più l'espressione provata che ritraeva e si sciolse i capelli, lasciandoseli ricadere sulle spalle ed ai lati del volto: alla meno peggio, poteva funzionare.

    Quando accese la luce di casa propria, richiudendosi la porta alle spalle, la prima cosa che fece fu togliersi il cappotto e fiondarsi nella sua camera. Aprì l'armadio, ancora a cervello spento, e si mise a frugare freneticamente in uno dei cassetti. Si calmò solamente quando le sue dita toccarono una fredda superficie in plastica e la estrassero dalla matassa di vestiti.
    Era una maschera che raffigurava una sorta di scheletro: la vecchia maschera di Julian. Alexandre se la rigirò fra le mani con cura, come se fosse un amuleto, poi la pose sul comodino e si buttò sul letto. Sprofondò fra materasso e coperte e si rese conto che forse, in realtà, avrebbe avuto bisogno di parlare con qualcuno. Forse voleva parlare con qualcuno. Il pensiero di chiamare Chinatsu lo sfiorò per un momento, ma si rese conto che non sarebbe stato sufficiente e desistette. Era solo e solo sarebbe rimasto, perché, come diceva suo padre, lui era sbagliato e non avrebbe mai avuto il suo posto nel mondo. Non sarebbe mai stato felice, non avrebbe mai avuto nessuno da abbracciare, non se lo meritava, punto e basta. Alexandre si sentì soffocare. Lentamente i suoi respiri si trasformarono in singhiozzi, come se cercassero di liberarlo dallo stress della serata; si chiuse a guscio, rannicchiandosi su sé stesso e fece per chiudere gli occhi, ma un soffice tump ovattato lo indusse a sollevare la testa. Una palla di pelo rossiccia era appena salita sul letto e, come si mosse verso di lui, lo sguardo di Alexandre si ammorbidì appena.
    «Oh... ehi, Julian. - sussurrò, tentando di abbozzare un sorriso. Chissà se era vero che gli animali potevano, in parte, capire i sentimenti dei propri padroni. Fosse stato il caso, quantomeno avrebbe avuto qualcuno a consolarlo. Alexandre allungò una mano, accarezzando il felino sul muso. - Ti ho disturbato, vero? Scusa, sono pessimo...»
    Il gatto ovviamente non gli rispose, si prese le sue carezze e lo fissò con i suoi occhioni verdognoli, uguali a quelli del suo proprietario, poi li chiuse e si accucciò vicino al suo petto. Alexandre fece lo stesso, continuando ad accarezzarlo: chiuse gli occhi e si lasciò andare, piangendo silenziosamente fino a quando, sfinito dall'ansia, dallo stress e dalla stanchezza, non si addormentò scivolando nell'oblio.

    ✦✦✦

    Bip. Bip. Bip. Alexandre odiava i lunedì, più dei lunedì odiava solo la sveglia dei lunedì mattina, quel rumore fastidioso e persistente fatto apposta per tirarti fuori dal mondo dei sogni. Pigramente, socchiuse gli occhi ed allungò il braccio verso il comodino spegnendo l'arnese del diavolo.
    "Cinque minuti...." si disse mentalmente, ma un altro suono che conosceva molto meglio della sveglia, lo disturbò prima che potesse anche solo pensare di riaddormentarsi.
    Meow. Era il suo gatto che reclamava la colazione. Lo ignorò.
    Meeow. Lo ignorò di nuovo. Cinque minuti. Poteva aspettarli.
    Screech. Alexandre sgranò gli occhi e scattò in piedi. «Julian non ci p-!» sbottò, ma il suo gatto non si stava affatto facendo le unghie sul tappeto come si era immaginato, e si stava solo leccando la zampa con nonchalance. Julian mosse la sua enorme coda e zampettò in cucina, come soddisfatto di aver fatto, in qualche modo, alzare colui che doveva dargli la colazione. Alexandre schioccò la lingua, e si ributtò sul letto. Il suo gatto era riuscito a fregarlo di nuovo, vero? Sospirò.
    Un altro miagolio provenne dalla cucina.
    «Arrivo, arrivo...» bofonchiò lui, la voce ancora un po' impastata dal sonno, e - tirandosi su controvoglia - si tolse le coperte di dosso e si diresse nell'altra stanza.
    Alexandre odiava i lunedì.

    Cinque minuti dopo stava fissando il proprio riflesso nello specchio del bagno maledicendosi per aver fatto tardi a leggere cose stupide la sera prima. L'unica consolazione era che, pur essendo il primo giorno della settimana, non sarebbe dovuto entrare a lavoro prima delle dieci, e quindi poteva prendersela comoda. Aprì l'acqua calda della doccia e si tolse la maglia, lanciandola nel cesto della roba da lavare. Nel farlo tuttavia, gli cadde l'occhio sul proprio profilo che aveva finito per trovarsi al posto della sua faccia nella superficie riflettente dello specchio. La sua schiena, il suo addome e persino il suo fianco sinistro erano coperti di chiazze nere e rossastre, più o meno grandi. Già, l'operato del Ghoul.
    Erano passate circa due settimane da quella sera ed i lividi, sebbene non fossero brutti come il primo giorno, non erano ancora spariti. Alexandre dubitava che lo avrebbero fatto a breve, ma quando era vestito tendeva a dimenticarsi di averli, essendo che ormai non facevano così tanto male, se li lasciava stare. Non era mai riuscito a chiarirsi le idee sull'avvenimento ed, alla fine, aveva solo smesso di pensarci, perché purtroppo la vita doveva andare comunque avanti. In conclusione... non aveva nemmeno denunciato l'aggressione. Non aveva detto niente a nessuno, né colleghi né amici, e stava accuratamente evitando la piscina da quel giorno. Non voleva domande e ancor meno voleva passare per lo stupido che era caduto dalle scale mentre rientrava con la spesa, perché sì, quello avrebbe detto. Soprattutto non voleva un'investigatore come guardia del corpo, ed in realtà odiava l'idea che un ghoul potesse trovarsi braccato per colpa sua, sebbene era certo che non lo avrebbe risparmiato se si fossero incontrati di nuovo.
    Fissò quelle chiazze per qualche secondo, poi un brivido di freddo lo riscosse ed Alex si infilò sotto la doccia, lasciando che l'acqua bollente lavasse via i cattivi pensieri.

    Alle dieci meno venti, era appena salito sulla metro. Non la solita tra l'altro, perché alla fine, come al solito, aveva perso troppo tempo ad asciugarsi ed a sistemarsi i capelli in modo decente, ed aveva fatto tardi. Era salito sulla prima corsa disponibile che era quantomeno certo lo portasse dove doveva andare, anche se la prossima fermata sarebbe stata presso la stazione di Shibuya ed Alexandre temeva un po' il rischio di trovarsi schiacciato come una sardina, considerando il fatto che era già vicino alle porte perché non c'era posto a sedere.
    Si lasciò sfuggire mezzo colpo di tosse. Aveva anche sottovalutato il meteo, era inizio marzo ed aveva preso il suo cappotto di camoscio marroncino, insomma, quello leggero, ed in realtà gli faceva quasi freddo.
    Le air pod nelle orecchie, Alexandre non stava veramente facendo caso a cosa stava ascoltando, le teneva più per avere un sottofondo che altro. Osservò fuori dal finestrino, mentre la metro si fermava sui binari della stazione: come previsto salì tanta gente, ma fortunatamente altrettanta ne scese ed il rimanere con un briciolo di spazio vitale per respirare non fu un grosso problema. Proprio mentre la vettura stava per ripartire, Alexandre scorse in lontananza qualcuno che correva, probabilmente proprio per prendere la metro e capì dalla distanza, che non ce l'avrebbe mai fatta. Rivide un po' sé stesso tutte le mattine, già era proprio brutto fare tardi. Si guardò intorno. Nessuno, vero? Ovvio che no, a chi importava della vita di qualcun altro? Se faceva tardi era colpa sua.
    Le porte iniziarono a chiudersi. Beh, non che ad Alexandre importasse, ma pensò che sarebbe stato carino se qualcuno lo avesse fatto per lui. Afferrò il bordo di una delle due porte di prepotenza e fece in modo di triggerare il sensore per farla rimanere aperta qualche istante in più. Proprio pochi, ma meglio di niente.
    Che figo, per un momento di era sentito Hulk dei poveri.

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 04

     
    Top
    .
  8.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Lazar

    Lazar Stefanović Khabarov
    Universitario & Tirocinante
    21 Y/O

    Di fronte alle penose reazioni dell’umano, la fodera interna della maschera soffocò uno sbuffo di compiacimento misto a fastidio. Era contrariato e se ne rendeva conto solo ora, dopo tanti bei flussi di coscienza atti a giustificare la sua debolezza - perché di debolezza si trattava, nulla di più. Crescere con le spalle schiacciate dal peso delle aspettative di un’intera famiglia non era certo la miglior prerogativa per costruire una solida self-confidence, non c’era da stupirsi che la sfiducia nelle proprie capacità - la paura folle di commettere un errore che sarebbe stato pagato da altri - fosse da sempre il suo tallone d’Achille. Eppure negli ultimi tempi si era fatta virale, come una malattia che lo costringeva a calcolare ogni passo con meticolosa attenzione, arrivando a rasentare la paranoia.
    Dio, odiava il modo in cui quella città lo stava cambiando.
    Ad ogni modo, non lo avrebbe di certo lasciato andare così. Non scherziamo: rimaneva comunque una sua preda. Su quel bel visino incorniciato di rosso capeggiava un trauma, un trauma firmato Echo. Quindi gli apparteneva, ed Echo era un tipo molto possessivo.
    Lo seguì fino a casa, naturalmente dopo aver liberato il viso da una maschera che fuori Shinjuku sarebbe risultata alquanto problematica. Tra mezze crisi di nervi, una caccia conclusasi in modo pietoso, le autofustigazioni morali e il rischio di infrangere una delle regole del clan, quella notte Echo aveva davvero fatto il pieno di problemi. In confronto a tutto quel che aveva vissuto durante le ore precedenti, lo stalking dell’umano fu una piacevole passeggiata che culminò quasi in prossimità della baia, nel cuore di una Minato silenziosa.
    Che circoscrizione meravigliosa in cui vivere… beh, magari non per una persona chiassosa e modaiola come lui, ma riusciva comunque a coglierne il fascino. Gli ricordava casa. Gli ricordava il molo. Quanta frustrazione aveva soffocato nello sciabordio delle onde sui frangiflutti.
    Chissà se anche dal suo balcone si sentiva il ruggito del mare.
    Con la massima discrezione, affinata in anni di addestramento all’arte della caccia, tenendosi a debita distanza Echo ripercorse i passi dell’uomo finché questi non sparì oltre il portone di un condominio. Naturale fu allora alzare il naso al cielo, percorrendo con lo sguardo il profilo del palazzo per calcolarne orientativamente i piani: il tempo a sua disposizione era poco, non poteva correre inutili rischi come essere avvistato da una finestra.
    Una veloce analisi del citofono confermò che i suoi metodi d’indagine non erano certo paragonabili a quelli di Alexey, ma davano comunque i loro frutti.
    De Lacroix Alexandre.
    Oh, che meravigliosa coincidenza: amava la Francia.

    ***

    Non riusciva a togliersi dalla testa il ricordo degli occhi smeraldini che si riempivano di lacrime, e tutto per una banale carezza. Perché qualcuno avrebbe dovuto spezzarsi tanto facilmente? Per qualcosa del genere, per giunta.
    La velocità con cui i polpastrelli picchiettavano sulla superficie liscia del tavolo aumentò, assumendo la sfumatura del tic nervoso.
    Non riusciva a stare fermo, Lazar non riusciva a stare fermo.
    «Nuova cotta?» le mani di Viktoriya si posarono con delicatezza sulle sue spalle, stringendo appena. Il viso fece capolino accanto a quello del fratello, seguito da una cascata di capelli biondi sul tavolo. «Hm? Questa faccia non mi è nuova.»
    «Davvero?» Lazar sbatté le palpebre, dardeggiando con lo sguardo dal monitor del tablet, immobile sul profilo B-Social di Alexandre, fino agli occhi cristallini della sorella.
    «Già… ma non riesco proprio a ricordare dove l’ho incrociato, mi spiace. Se mi sovviene ti avviso. Ti serviva?»
    «No, non è niente di importante. Solo-» “solo una preda che ho risparmiato e che ora stalkero perché non riesco a togliermela dalla testa”, no, non era decisamente il caso di continuare quella frase. «Incrociato in giro e, niente, sai che mi piacciono i rossi.»
    Era il peggior tentativo di sviare il discorso senza mentire della sua vita, ma Viktoriya abboccò comunque; forse era troppo concentrata su ben altri e più gravi problemi per preoccuparsi dell’ennesima cotta passeggera del fratellino. Ciononostante, Lazar lesse senza alcuna difficoltà la sua delusione tra le piccole pieghe della fronte e ai lati degli occhi. Ebbe come la sensazione di ricevere un pugno allo stomaco, a cui seguì un istintivo e immediato gesto della mano sinistra, con cui chiuse il social network per tornare al desktop.
    Anche Viktoriya si rimise dritta, sparendo dalla sua vista.
    «Non voglio rimproverarti, Zarya, ma...»
    «La missione prima di tutto.» la anticipò lui, tanto lapidario quanto sincero. «Siamo ad un passo dal riprenderci Alexey e tornarcene in Russia. Non tentennerò proprio ora, tranquilla. Ho solo...»
    Un nodo alla gola gli strozzò il fiato. Gli sarebbe bastato alzare gli occhi per vedere il riflesso di Viktoriya sul vetro della portafinestra, ma gli mancava il coraggio. Doveva essere convinta di avere di nuovo a che fare con l’odioso Lazar di pochi anni prima, troppo preso da se stesso per curarsi del mondo esterno. Anche lui si vergognava profondamente di ciò che era stato, ma reputava di essere cambiato, migliorato, maturato - non che ora si piacesse, chiaro, il disprezzo verso se stesso era una costante nella sua vita.
    «Ho solo bisogno di tenere la mente impegnata.»
    «Allora possiamo uscire qualche sera di queste, solo noi tre...»
    «Non fraintendermi.» strinse i pugni a lato del tablet, il display ormai spento. Non sembrava poi tanto convinto di quel che stava dicendo, era troppo abituato a tenersi tutto dentro per provare di punto in bianco ad aprirsi, anche se si trattava di Viktoriya. «Sono felice di ogni momento passato con voi, Vika, credimi. Ma ho bisogno anche di compagnie… umane, ecco. Mi serve sentirmi un po’ come loro.»
    Un sospiro eccessivamente frustrato di Viktoriya gli riempì i timpani.
    «Non capirò mai perché tu e Ninochka siate tanto fissati con gli umani...»
    No, che Viktoriya non li avrebbe mai capiti era chiaro come il sole, e non poteva che essere un bene.
    «Perché vogliamo solo un po’ di normalità.» nonostante la voce bassa e incerta, decise di fare un tentativo, combattendo con quel dannato nodo che si era esteso fino ad attorcigliargli le budella. «A furia di sentirti dire giorno dopo giorno che sei un mostro... beh, un po’ cominci a crederci. Io e Ninochka abbiamo solo bisogno, di tanto in tanto, di dimostrare a noi stessi di non essere affatto ciò che la gente pensa.»
    Un pesante silenzio calò come una scure tra le due realtà inconciliabili dei fratelli.

    Lazar Stefanović Khabarov non credeva nel destino. Non aveva mai creduto nel destino, neanche durante il periodo di fissa di Ninel’ coi tarocchi e la divinazione.
    Aveva annotato diligentemente quanto scoperto su Alexandre De Lacroix e lo aveva chiuso in un cassetto, ripromettendosi che ci avrebbe pensato a tempo debito; la conversazione con Viktoriya lo aveva turbato più di quanto avesse voluto ammettere in un primo momento.
    Ma quel giorno si era svegliato tardi, nel silenzio della sveglia che, traditrice, si era scaricata durante la notte. Fortunatamente Viktoriya e Ninel’ erano già uscite da un pezzo, così era potuto sfrecciare sotto la doccia senza dover fare la fila per il bagno.
    “Mai più notti in bianco! Dove arrivo arrivo, non posso ridurmi così per uno stronzo che invia altre slide dodici ore prima della lezione!”
    Quelle parole erano il mantra della sua vita, se le ripeteva mediamente due volte al mese.
    Era comunque riuscito a perdere mezz’ora del suo preziosissimo tempo davanti all’armadio, solo per scegliere poi di vestirsi in modo ordinario. Ordinario per Lazar, chiaramente. Una persona normale avrebbe come minimo alzato le sopracciglia davanti ad un tipo in cravatta ampia con motivo a rombi, panciotto a quattro bottoni, gemelli ai polsini e cipollotto che di 2020 aveva ben poco. Ma, di nuovo, per Lazar quella era la definizione di ordinario. Si legò i capelli, indossò il cappotto, prese borsa e ombrello: in giornata erano previsti rovesci, ma pregava di non tornare a casa con gli orli dei pantaloni insozzati di schizzi di acqua piovana.
    Appena messo piede fuori di casa per prima cosa maledì il caldo giapponese: neanche dopo un anno era riuscito ad abituarsi. Sul suo smartphone, a sfregio, il widget del meteo metteva spietatamente a confronto i 15°C di Tokyo con i -1°C di Južno-Sachalinsk.
    Durante il tragitto il suo passo, dapprima semplicemente una marcia, divenne svelto, infine una vera e propria corsa contro il tempo impietoso. Avrebbe avuto la fortuna sfacciata dei protagonisti degli anime o la sfiga dei protagonisti della vita vera? A pochi metri dalle porte della metropolitana si sentì un po’ entrambi, ma in ordine inverso: la disperazione fiorì in speranza quando qualcuno, un’anima pia, vedendolo arrivare trafelato come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, fece in modo da tenere aperte le porte quando bastava perché il russo si fiondasse dentro il treno. Vittoria!
    Il ghoul si piegò in avanti, le mani strette sulle ginocchia, mentre la metro partiva con un leggero scossone. Non appena riebbe finalmente fiato, raddrizzò la schiena e sistemò la borsa - una grande tracolla nera col logo dell’Istituto di moda Serizawa sulla patta -, rivolgendo un sorriso pregno di gratitudine al suo salvatore.
    «Grazie! Grazie davvero, non sarei mai arrivato in orario-»
    Un secondo scossone lo costrinse ad aggrapparsi alla maniglia della porta, giustificando in parte la troncatura della frase. “Senza il tuo aiuto” avrebbe altrimenti concluso, se non avesse incrociato gli stessi occhi smeraldini di quella notte.
    Lazar Stefanović Khabarov non credeva nel destino. Ma se il destino esisteva, gli aveva appena mandato un segnale.

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could bleed I'd show you all my scars and imperfections

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Echo

     
    Top
    .
  9.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    27 Y/O

    X1nxtlc
    Alexandre, dall'alto del suo metro e ottantuno, da quando era in Giappone, si era un po' abituato a guardare gli altri dall'alto in basso: non lo faceva per superbia, tutt'altro, semplicemente madre natura aveva deciso che doveva essere così ed in bocca a tale avvenimento c'era ben poco da discutere.
    Motivo per il quale quando si ritrovò davanti un ragazzo dagli sfavillanti occhi azzurri, i capelli blu lisci e luminosi, di quelli che aveva visto solo negli anime, vestito esattamente come se fosse uscito da uno di quelli, e che lo superava in altezza di svariati centimetri, beh... un po' interdetto ci rimase.
    In senso positivo ovviamente, ma pur sempre interdetto.
    Forse, ad essere onesti, si era trattato di ammirazione, perché a sfiorargli l'anticamera del cervello c'era stato un attimo il pensiero che se ci avesse provato lui a vestirsi in quel modo, sarebbe risultato ancora più ridicolo di come si era vestito a quel dannato party di Halloween: ancora ci faceva gli incubi.
    Ad ogni modo la sorpresa iniziale scemò rapidamente ed Alexandre, che nel frattempo si era tolto una delle cuffie e l'aveva riposta nella tasca del cappotto — così per cortesia, ma anche per far capire che sì, stava ascoltando — diede tempo al ragazzo di riprendersi dalla corsa trafelata da cui era reduce. Un po' lo compatì, un po' lo capì e lo invidiò leggermente: si rivide liceale a correre disperato dietro agli autobus per non mancare la prima ora, perché l'ansia dell'interrogazione lo aveva tenuto sveglio a ripetere teoremi e dimostrazioni tutta la notte.
    Dannazione se gli mancavano quei tempi, perché... lì ancora andava tutto bene. Aveva la sua cotta colossale, i suoi amici ed il suo peggior incubo era quello di prendere un'insufficienza nell'interrogazione di latino o letteratura francese.
    Dopo aveva semplicemente smesso di correre, perché aveva capito che non ne valeva la pena ed a parità di cose, oggi, preferiva prendersi la lavata di capo per essere arrivato tardi.
    La metro si rimise in movimento immediatamente ed Alexandre immaginò che se fosse passato un responsabile di qualunque tipo in quell'esatto momento nessuno lo avrebbe salvato da un massiccio rimprovero: la puntualità in Giappone era una cosa sacra, e lui aveva fatto appena perdere secondi preziosi alla tabella di marcia prevista.
    Il ragazzo comunque doveva essere un gajin proprio come lui, oppure uno di quei tipi vestiti strani che si aggiravano nei dintorni di Harajuku, che in effetti non era poi così lontana. Forse uno studente straniero? Forse, ma non erano affari suoi in fin dei conti.
    Si dice che il cervello impiega ben quattro secondi per farsi un'idea di una persona non appena la conosce e per Alexandre la cosa era certamente veritiera, essendo che non gli piaceva dare confidenze a nessuno, di solito la profondità con cui conosceva la gente — e con cui la gente conosceva lui — si fermava lì, alla prima impressione.
    Tutto per via di quell'inconscia e costante ansia sociale che gli attanagliava le viscere e che il rosso nascondeva di riflesso e senza rendersene conto dietro il suo solito luminoso sorriso di convenienza. Era il suo scudo.
    «Nessun problema. — sorrise infatti il giovane, quasi scattando sull'attenti quando lo vide traballare per via dello scossone della metro. Aveva intenzione di aiutarlo, ma non appena vide l'altro serrare la presa sulla maniglia della porta si ritrasse rilassando le spalle. — Le buone azioni vengono sempre ripagate in qualche modo, no?» concluse prima di tornare ad appoggiare la spalla sinistra al palo verticale a cui si stava reggendo anche precedentemente.
    Forse era una frase un po' di comodo, ma era anche vero che Alexandre non stava alludendo a niente di particolare. Non aveva certo aiutato quel povero ragazzo a prendere la metro in tempo perché si aspettava di ricevere qualcosa in cambio, la gratitudine era più che sufficiente e spesso un sorriso di prima mattina era già in grado di cambiare tutto il corso della giornata per conto suo. A pensarci bene, quello glielo aveva insegnato la sua domestica quando era ancora un ragazzino, la donna che lo aveva più o meno cresciuto quando sua madre era oltreoceano.
    Alexandre era semplicemente il tipo di persona che faceva le cose e dopo si interrogava sulle conseguenze. Anche se non c'erano chissà quali conseguenze nel tenere una porta aperta a qualcuno... o almeno sperava. Distolse lo sguardo dal ragazzo e tornò alla sua solita espressione di sempre, neutra ed un po' assorta nei propri pensieri, fece per recuperare la cuffia che gli mancava dalle proprie tasche, ma le sue dita incontrarono prima l'inconfondibile sagoma del cellulare, finì per tirare fuori quello e fissare gli occhi verdi sul display. Ecco, tanto per parlare di ritardo, lui era proprio sul filo del rasoio della puntualità. La metro doveva fare altre tre, forse quattro, fermate, dopodiché avrebbe dovuto fare un cambio. Tutto perché non aveva preso la solita corsa. Si lasciò sfuggire un sospiro. Sbloccò lo schermo — sullo sfondo campeggiava una bella foto di lui con il suo gatto in mezzo alla neve, mentre sul blocco schermo aveva una citazione da una serie TV che recitava "This is my design" — e aprì l'applicazione di spotify. Si era stufato della riproduzione casuale.

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 05

     
    Top
    .
  10.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Lazar

    Lazar Stefanović Khabarov
    Universitario & Tirocinante
    21 Y/O

    Era proprio lui. Avrebbe potuto guardarlo da ogni angolazione possibile, non sarebbe cambiato che l’individuo davanti a lui era Alexandre De Lacroix… o suo fratello gemello.
    Per un momento fu assalito dal sospetto di essere ancora addormentato, ma si trattenne dal darsi un pizzicotto completamente fuori luogo sotto gli occhi di tutti. Che ciò che lo circondava non fosse altro che un sogno era una teoria decisamente più accreditabile dell’unica alternativa possibile, ovvero che si trovava a neanche un metro dalla persona che per poco non aveva sbranato. Una sconcertante coincidenza nella città più popolata del mondo, nonostante la relativa vicinanza tra Shibuya e Minato. In metropolitana, dove le leggendarie sardine giapponesi rendevano un’epopea già solo trovare un posto a sedere, ad un orario per lui inusuale. Eppure era certo di essere sveglio e, come insegna qualcuno, una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev'essere la verità.
    La verità era che Alexandre De Lacroix lo stava stalkerando! Ah, no: di stalker nella sua vita poteva essercene uno solo, ed era chiaramente Kohaku. La verità era che Alexandre De Lacroix doveva avere una sfiga nera per incontrare il suo quasi-assassino per ben due volte in due settimane. Probabilmente un record. Un po’ gli faceva pena, per poco non gli aveva staccato la giugulare a morsi e lui lo ringraziava rischiando una multa per tenergli aperte le porte della metro. Avrebbe dovuto provare almeno un po’ di senso di colpa, ma era ancora troppo stordito dall’assurdità della coincidenza per realizzare ogni implicazione di quella situazione. Aveva persino dimenticato di essere sulla buona strada per far tardi a lezione, ora che nella sua testa coesistevano in perfetta simbiosi la curiosità nei confronti di Alexandre e il senso del dovere inculcato da Viktoriya: l’ecosistema di Alexandre e Viktoriya.
    “Poveraccio. Che tu sia davvero bello fuori e buono dentro?”
    Purtroppo non aveva potuto verificare pragmaticamente la seconda. Almeno per ora.
    “Nessun problema.” Alexandre gli sorrise, inconsapevole dell’esorbitante numero di problemi che invece lo vedevano protagonista, ed ingenuamente concluse “Le buone azioni vengono sempre ripagate in qualche modo, no?”
    A quel punto Lazar non poté far altro che ricambiare il sorriso pacato con un sorriso smagliante.
    «Vero!» annuì, prima di dardeggiare con lo sguardo sulla calca intorno a loro. Nessun controllore nei paraggi, solo salaryman in giacca e cravatta incollati ai propri smartphone come fossero stati prolungamenti dei loro corpi, studenti rumorosi e vecchietti con le buste della spesa. Così, con le spalle ancora appoggiate alle porte, si sporse leggermente verso il rosso, il necessario per poter essere udito pur parlando a voce bassa senza invadere il suo spazio personale. «La prossima volta la rischio io, la multa.»
    La risposta corretta sarebbe stata qualcosa come in effetti hai fatto aprire le porte proprio col braccio che non ti ho strappato, purtroppo però c’era un’altra maschera, oltre quella di Echo, che era tenuto ad indossare in quanto Lazar Khabarov.
    Sistemata la tracolla affinché non strofinasse contro il colletto, Lazar finalmente fu libero di tentare di allontanarsi dalle porte scorrevoli; detestava quella posizione, ogni fermata diventava un campo di battaglia tra chi doveva salire e scendere. Per fortuna il treno non traboccava di gente in maniera preoccupante, probabilmente perché la transumanza di lavoratori e studenti mattinieri era già avvenuta. Per una volta non gli importò neanche che tutti i sedili fossero occupati, era un ottimo pretesto per scivolare lateralmente, come un granchio, qualche passo più vicino ad Alexandre.
    Lui era un tipo… strano, per usare un eufemismo. Pur essendosi tolto un auricolare non sembrava intenzionato a fare conversazione, anzi piantò lo sguardo sullo smartphone chiudendosi in un silenzio più che comprensibile tra sconosciuti.
    Lazar si ritrovò ad un bivio: essere coerente con quanto detto a Viktoriya e lasciare quegli appunti chiusi in un cassetto, oppure…
    «Che gatto meraviglioso!»
    Oppure essere coerente con se stesso.
    Se Alexandre si fosse voltato si sarebbe trovato davanti il sorriso colpevole del ghoul, che, scrollando le spalle, biascicò con voce dispiaciuta «Scusami, non ho guardato di proposito! È che i gatti sono praticamente una calamita per me.»
    Ora non gli restava che sperare Alexandre non fosse una di quelle persone che impalerebbero chi posa gli occhi sui loro telefoni.

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could bleed I'd show you all my scars and imperfections

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Echo

     
    Top
    .
  11.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    27 Y/O

    X1nxtlc
    In effetti, pensarci dava qualche black humor vibes: se Echo qualche settimana prima gli avesse staccato il braccio, quel giorno avrebbe perso il treno. Il caso non esiste, si diceva, ed ogni tanto il dubbio ti veniva proprio. Se lo sapevi.
    Alexandre non lo sapeva, però. E quindi non poteva pensarci. Il rosso era convinto di aver fatto una gentilezza e la storia finiva lì, per cui si prese gli strambi ringraziamenti di quel ragazzo - che non aveva nulla di giapponese - abbozzando un sorriso e continuando a tenersi in piedi grazie all'ausilio dei sostegni della metro. Anche quella, secondo Alexandre, era un po' una frase di circostanza, perché si stava sottintendendo che ci sarebbe stata un'altra volta, cosa di cui Alexandre dubitava enormemente, visto e considerato che di solito non prendeva nemmeno quella linea, men che meno stava vicino alle porte, ma sentirlo dire gli fece comunque piacere.
    Alexandre era anche pronto a tornare a farsi, in una buona misura, i fatti propri: sistemata la playlist che voleva, avrebbe recuperato l'altra cuffia e avrebbe proseguito il resto del viaggio sulle ali delle sue canzoni preferite. Scrollò sul display, cercando l'applicazione giusta, ma un secondo prima che potesse premere il pollice sullo schermo, la voce squillante dello sconosciuto con gli occhi blu lo fece sussultare.
    Alexandre abbassò in automatico lo sguardo, guardandosi intorno perplesso. Un gatto? Lì? In treno? I suoi occhi verdi scandagliarono rapidamente il vagone della metro. Lui non vedeva proprio nessun gatto. Sollevò di nuovo il viso verso il ghoul e lo fissò spaesato.
    «Un gatt-ah. — una specie di illuminazione, quando, con la coda dell'occhio, nel seguire da dove provenisse lo sguardo di quel giovane che lo fissava con un sorriso quasi colpevole, scorse lo sfondo del suo telefono. Alexandre sì sentì un idiota, per aver anche solo pensato che potesse esserci un gatto libero di scorrazzare in metro, e realizzò che lo sconosciuto dai capelli blu stava parlando più che ovviamente di Julian, sullo schermo del suo cellulare. Più che ovviamente, Alexandre. — Ah! Il mio gatto! C-Certo! P-Per un attimo ho pensato che ci fosse un gatto a piede libero qui in metro...» mormorò, con l'imbarazzo negli occhi, e si portò la mano libera alla fronte, per schermarsi un secondo lo sguardo che distolse in fretta e furia.
    Che idiota! Che idiota che era! Prima di tutto era impossibile non accorgersi di un gatto in metro, secondo... perché aveva dovuto esternare i suoi pensieri ad alta voce?! Avrebbe fatto una figura migliore a starsene zitto! Va bene, va bene. Stava parlando con uno sconosciuto con cui probabilmente non avrebbe mai più avuto niente a che fare, quindi importava relativamente, ma perché doveva sempre distinguersi per essere il disagio ambulante?
    «N-Non fa nulla, figurati. Perdonerei chiunque per un gatto. — biascicò, sistemandosi un briciolo la frangia arancione, prima di tornare a sollevare il capo e cercando di cambiare argomento nel modo meno disastroso possibile. E poi era vero, avrebbe perdonato chiunque con o senza gatto, quindi figuriamoci con. Soprattutto se era il suo e qualcuno gli stava facendo dei complimenti. — Ti piacciono?» chiese poi, cercando di salvarsi dalle sabbie mobili dell'impaccio.
    Alexandre era innegabilmente un disastro: già sostenere una conversazione era difficile, figurarsi sostenere una conversazione con uno sconosciuto. Non era colpa sua, era più che cosciente che a vedersi dall'esterno si sarebbe preso in giro da solo, ma gli mancava un po' di polso... quando si trattava di, beh, essere lo zimbello degli altri. E non riusciva proprio a correggersi. La "soluzione" era una, e anche se lui odiava farlo, la cortesia che i suoi genitori gli avevano inculcato in testa fin da piccolo prese il sopravvento: gli tese la mano destra, ben convinto di poterlo fare dai suoi lineamenti per nulla orientali, e sorrise.
    «Alexandre, comunque. Piacere.» si presentò. Niente di particolarmente significativo, a fine giornata se ne sarebbe probabilmente dimenticato, era solo un excursus per salvarsi dall'imbarazzo del momento.
    Se solo avesse saputo che l'altro poteva rispondere "Lo so".

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 06

     
    Top
    .
  12.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Lazar

    Lazar Stefanović Khabarov
    Universitario & Tirocinante
    21 Y/O

    L’esclamazione sul gatto fece triggerare Alexandre e, con qualche secondo di ritardo, reprimere una risata a Lazar. Gli ci era voluto un po’ per connettersi alle stesse frequenze radio di Alexandre e finalmente capire perché, dopo aver levato gli occhi dal display, invece di ricambiargli lo sguardo avesse scandagliato il vagone come alla ricerca di qualcosa.
    Mica stava cercando un gatto?
    Sì, stava proprio cercando un gatto.
    “È così fesso da far tenerezza.” rise tra sé e sé il ghoul, evitando di dare a vedere quanto la scenetta lo avesse divertito solo per buona creanza. Sarebbe stato piuttosto controproducente tradirsi così, quando il suo obiettivo era al contrario attaccare bottone. Ma in un ipotetico futuro in cui avessero fatto amicizia, non avrebbe mancato di rinfacciato - purtroppo Lazar era fatto così, nel sangue gli scorrevano cellule RC e sfacciataggine. Dunque, oscillando a seconda dell’inclinazione della metropolitana, attese che il francesino si rendesse conto che non si riferiva ad alcun felino infiltratosi a bordo con abilità da ninja, ma a quello sul suo smartphone.
    “Ah! Il mio gatto!”
    “Bonjour, mon chaton!” sorrise, le sopracciglia sollevate e gli occhi assottigliati in un’espressione distesa e gioviale, in netta contrapposizione col suo reale stato d’animo; il tasso di censura a cui si stava sottoponendo era alto quasi quanto l’usuale di casa Khabarov.
    E comunque Lazar non sapeva davvero il francese, era già tanto se sapeva esprimersi nella sua lingua madre, in giapponese e in un inglese più o meno decente. Ma il motivo all’origine della sua conoscenza dell’epiteto mon chaton è meglio rimanga strettamente confidenziale.
    Realizzato finalmente il fraintendimento, Alexandre si portò una mano alla fronte, occludendo per un po’ la vista sul suo bel visino. Peccato che chiunque avrebbe potuto comunque cogliere l’imbarazzo visibilissimo nei suoi occhi chiari, anche senza bisogno degli anni di allenamento all’arte della caccia che avevano formato la vista di predatore di Lazar.
    «Ci fosse stato un gatto, l’avrei già adottato.»
    Fino ad ora, tenendo in considerazione anche la notte in cui per poco non lo aveva ucciso, Alexandre si era dimostrato facile da leggere quanto un libro aperto. Ma magari erano tutte sue impressioni e si sarebbe rivelato un subdolo mastermind quintessenza della malvagità.
    Gli concesse qualche secondo di calma, ponderando la prossima mossa. Chiacchierare con uno sconosciuto in un luogo pubblico era già un’esperienza abbastanza awkward, per di più Alexandre dava l’idea di essere abbastanza delicato: doveva frenare l’entusiasmo, andarci piano e giocare bene le sue carte, se non voleva essere marchiato come individuo fastidioso e inquietante. Di nuovo, si ritrovò ad attendere che fosse il rosso a ravvivare la discussione, imprecando intanto tra sé e sé contro l’appiglio a cui era appoggiato, che affondava nella sua schiena ad ogni decelerazione.
    Finalmente arrivò una domanda, anche abbastanza prevedibile.
    «Abbastanza da averne adottati un po’ troppi.»
    Era già pronto a rilanciare, quando, inaspettatamente, Alexandre gli porse la mano. Il russo rimase per un attimo a fissarlo, poi, con una soddisfazione difficile da contenere, la strinse. La sua stretta vigorosa era in genere un buon biglietto da visita, la gente tendeva - erroneamente - ad associarvi virtù come affidabilità e sincerità. Naturalmente non vi impresse neanche un terzo della forza con cui Echo aveva già inferito su quel povero corpo. Adesso era legit che sapesse il suo nome!
    «Lazar Stefanović, ma va bene solo Lazar.» lo lasciò andare, mentre l’altra mano affondava nella tasca del cappotto per tirare fuori il telefono. «È un Maine Coon, vero? Non ne ho mai visto uno dal vivo, ma so che sono praticamente dei leoni. Ti faccio vedere i miei figli...»
    Qualche pressione di tasto e lo smartphone fu frapposto tra i due, sullo schermo una fotografia di una popolosa colonia di gatti randagi, alcuni dei quali un po’ malridotti.
    «In realtà sono tutti randagi, ma anche per questo siamo una famiglia.»
    Cringe. Non c’era altro modo per definire l’orgoglio con cui Lazar parlava della sua colonia, non esprimeva tanto entusiastico affetto neanche verso la sua famiglia vera.

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could bleed I'd show you all my scars and imperfections

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Echo

     
    Top
    .
  13.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    27 Y/O

    X1nxtlc
    Mentre Alexandre era impegnato a gestire il suo solito panico sociale, la metro si era fermata un'altra volta, lasciando salire e scendere altre persone. Lui non ci aveva fatto molto caso perché era un po' difficile avere occhi per qualcuno che non fosse Lazar, in quel momento.
    Come dire, emanava un'aura tutta sua: Alexandre si era reso conto di non essere l'unico, lì in treno, a guardarlo. Forse era il fatto che attirava l'attenzione anche solo stando fermo in piedi, il ricercatore non avrebbe saputo dirlo con esattezza, ma era l'atteggiamento più confident che vedeva da un paio d'anni a questa parte. Senza contare Chinatsu, certo.
    Alexandre affrontava la sua vita come una specie di otome-game in cui la miglior cosa che riusciva a fare era prendere le risposte sbagliate ad ogni dialogo disponibile. L'altro non si era nemmeno messo a ridere al suo patetico ed involontario teatrino del gatto-in-metro il che gli suggeriva che doveva essere stato proprio imbarazzante: probabilmente aveva perso dieci o dodici punti in simpatia. Si sentiva messo in ombra, eppure era strano perché non gli dispiaceva.
    Dating-sim a parte, lo realizzò pochi secondi più tardi cosa avesse di speciale quel ragazzo, quando quello ricambiò la sua stretta di mano con una calorosa ed amichevole.
    Ah, ecco cos'era. Era una brava persona.
    Doveva essere quello, sì.
    Alexandre non riuscì a fare a meno di piegare le labbra in un sorriso, un po' più morbido e meno tirato dei precedenti, che erano stati condititi dall'imbarazzo come pomodori in un cesto d'insalata, mentre percepiva la tensione allentare la sua morsa e scivolargli lentamente via dalle spalle. Fu quello che gli evitò in calcio d'angolo un'altra delle sue figure che ormai avevano pure un album da collezione, manco fossero figurine del WWF.
    Lazar Stefanović. Che nome era. Svedese? Tedesco? Russo? Olandese? Alexandre s'intendeva di onomastica quanto suo nonno che pur di non voler pensare ad un suggerimento per il nome del proprio nipote si era impuntato sul "chiamatelo come mio padre" e se ne era lavato le mani, incazzandosi pure quando i coniugi gli avevano rifilato un "no" come risposta e facendo le scenate fino a che non glielo avevano appioppato come secondo nome. Era una storiella molto divertente, in effetti. In ogni caso, Alexandre non sarebbe mai stato in grado di indovinare, ma in quel frangente riuscì a realizzare che chiedere se i suoi genitori fossero stati fan sfegatati della Bibbia o qualcosa di simile non era proprio il modo migliore per proseguire una conversazione appena iniziata.
    Per fortuna ci pensò la divina provvidenza a distrarlo, dopo aver preso il nome di "foto con i gatti".
    Lazar gli mostrò il suo cellulare sulla quale campeggiava uno scatto di un mucchio di gattini, chi grandi, chi piccoli, chi il manto a chiazze e chi un po' spelacchiato.
    Alexandre s'illuminò come succedeva quando passava davanti alle pasticcerie. Erano bellissimi, ed un paio di ipotesi presero forma nei suoi pensieri.
    «Oh. Ma sono tantissimi-! — esordì, con un lieve scintillio negli occhi. — Ah, aspetta, come si chiamano, tipo... colonie? Come funziona? Sei un volontario? Sarebbe piaciuto farlo anche a me da ragazzo...» mormorò, un briciolo di nostalgia, lasciando cadere la frase nel vuoto.
    E quella non era una frase di circostanza tanto per fingersi interessati al discorso. Alexandre era davvero interessato. Non aveva mai avuto animali domestici prima di trasferirsi in Giappone, suo padre li aveva sempre ritenuti una perdita di tempo e lui alla fine aveva smesso di chiedere, come faceva sempre. Ma secondo suo padre tutto ciò che non riguardasse il suo lavoro era una perdita di tempo, così quando Alexandre aveva provato a proporre il volontariato si era visto negare anche quello. Cosa che alla fine non era importata più di tanto perché ci aveva un po' fatto il callo, ma gli era sempre rimasta la curiosità visto che l'idea di dare una mano con qualcosa non gli dispiaceva per natura.
    «Il mio... sì, beh questa foto è un po' vecchia, ora è diventato complicato anche tenerlo in braccio. O alzarsi dal letto se decide che dormirti addosso è una buona idea.» commentò, ricordandosi una frazione di secondo in ritardo di aver glissato la domanda precedente.
    Non nascose la smorfia tipica di chi è palesemente in difficoltà, rammentando quanto il secondo avvenimento succedesse spesso. Soprattutto d'inverno. Il punto era che a lui non dispiaceva affatto, perché con tutto quel pelo Julian era una sorta di coperta vivente. Oh, e a proposito di cringe, Alexandre parlava del proprio gatto come una madre avrebbe parlato del proprio figlio: Lazar aveva sicuramente trovato pane per i suoi denti.

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 07

     
    Top
    .
  14.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar


    ■■■■■

    Group
    Staff
    Posts
    4,963
    Power-up
    +693
    Location
    Snezhnaya

    Status
    Ghost
    Lazar

    Lazar Stefanović Khabarov
    Universitario & Tirocinante
    21 Y/O

    Alexandre aveva dovuto fare un passo indietro sulla tabella della conversazione, rispondendo in modo disordinato dapprima al secondo argomento, dopodiché al primo; una gran confusione, eppure la mente di Lazar prendeva nota di ogni incrinatura sul viso dell’altro, passando al vaglio quanto ciascun argomento alzasse l’asticella dell’interesse.
    Cervellotico, vero, ma Lazar non si sarebbe detto particolarmente intelligente, solo un buon osservatore. E poi non ci azzeccava sempre, altrimenti sarebbe stato una specie di esper di quelle serie anime che piacevano tanto a Ninel’.
    Una cosa però l’aveva capita, e non perché avesse buon occhio ma per quanto fosse palese: la freccetta aveva segnato cento punti inchiodando l’argomento gatti alla tabella della conversazione. Non seppe se era più soddisfatto di aver trovato un argomento per attaccare bottone o di aver conosciuto un compare gattaro - forse essere rimasto a stomaco vuoto non faceva più tanto schifo, o forse sì.
    “Frena.”
    Si ripeteva quella parola fin troppo spesso, sorprendentemente consapevole di come il suo innato buon umore fosse, talvolta, too much to handle. Lo avevano additato proprio così in passato, definizione che gli era rimasta impressa nel cervello pur non sapendo, all’epoca, granché della lingua inglese. Col tempo si era reso conto di quanto fosse tristemente vero. Se alcune persone si sentivano invogliate ad intavolare una conversazione con lui, altre sembravano quasi intimorite o sopraffatte.
    Non poteva ancora sapere in quale categoria collocare Alexandre, su due piedi dava l’idea di essere un introverso senza speranze, ma era troppo presto per capire se un interlocutore che parlasse per due fosse per lui un sollievo o fonte di disagio. Di certo era timido - santo cielo se era timido -, oltre che interessato.
    Gli si erano illuminati gli occhi a sentir parlare di felini, quanto… quanto… adorabilmente fesso.
    «Però dev’essere fantastico svegliarsi con accanto una tigre calda e… e… fuseggiante?» il dilemma linguistico lo aveva portato ad alzare gli occhi al tetto della metropolitana, mentre riponeva lo smartphone in tasca e tornava ad appoggiarsi di schiena a quella tortura che era l’appiglio. Decidendo di non avere comunque un modo migliore per esprimersi, tornò a rivolgere ad Alexandre uno dei suoi sorrisi affabili e caldi. «Comunque no, non faccio parte di nessuna associazione. Li vado a trovare, porto il cibo, combatto valorosamente per pulirgli gli occhi e ne esco quasi sempre mal ridotto, ma vincitore. C’è sempre qualcuno di cui prendersi cura.»
    Le porte finalmente si aprirono ancora una volta, lasciando che il vagone sputasse e ingoiasse passeggeri. Sapeva di avere i minuti contati, che presto o tardi la fermata sua o di Alexandre sarebbe arrivata, ma non aveva ancora abbastanza punti simpatia da proporre un caffè. Doveva lavorarci ancora un po’, aveva bisogno di tempo...

    -------------------
    «Parlato.»
    "Pensato."

    If I could bleed I'd show you all my scars and imperfections

    Ghoul
    Rinkaku
    Rank B
    Echo

     
    Top
    .
  15.     +2   +1   -1
     
    .
    Avatar

    I could be so much worse and I don't get enough credit for that.
    ■■■■■

    Group
    Players
    Posts
    1,464
    Power-up
    +452
    Location
    Nasuverse

    Status
    Alive
    ALEXANDRE "ROMAIN" DE LACROIX
    RICERCATORE CCG
    27 Y/O

    X1nxtlc
    Fuseggiante. Alexandre scoppiò a ridere, pur senza ben comprendere cosa ci trovasse di divertente in quel termine che non aveva mai sentito prima. Incurvò le labbra all'insù e si portò al viso la mano che ancora stringeva il cellulare, schermando una lieve risata dietro di esso. No, niente di eclatante come vi eravate aspettati, ma era effettivamente l'unico modo in cui Alexandre potesse scoppiare a ridere. Il problema delle persone tranquille è che sono tranquille sempre. O quasi sempre, nel suo caso.
    «Lo è. — confermò, annuendo appena. — D'estate un po' meno, ma ha più coscienza di sé anche lui.» disse, rammentando come quella bestia preferisse stendersi negli angoli più in ombra e lontani dal sole in tutto il periodo che andava da giugno a settembre.
    La frase successiva lo fece sospirare. Un po' lo capiva. Lasciò scivolare di nuovo il cellulare in tasca e si tirò su le maniche del cappotto scoprendo meglio le mani ed i polsi. Sì, la sua carnagione - bianca e candida - lì era costellata di tante piccole, minuscole e disordinate cicatrici. No, Alexandre non era autolesionista, erano graffi. Alcuni sembravano anche piuttosto recenti: dopotutto ad Alexandre giocare con il suo gatto piaceva molto ed aveva la casa costellata di ninnoli e gingilli di qualsiasi tipo, peccato che Julian continuasse a preferire le sue mani.
    «A chi lo dici, e io ne ho uno solo.» disse, mostrando le mani un po' rovinate al ragazzo, ed al pensiero che lui si facesse in quattro per aiutare una colonia di piccoli gatti randagi sorrise di nuovo, prima di relegare le mani di nuovo al loro posto: una in tasca e l'altra ad uno degli appigli della metro. «È comunque un gesto molto carino da parte tua. Altrimenti sarebbero... soli, o quasi, suppongo. Scommetto che ti ringrazierebbero più di quanto immagini se potessero parlare.» aggiunse, sentendosi al contempo un briciolo egoista. Probabilmente c'erano moltissimi gatti randagi in giro che avevano bisogno di aiuto. E non solo. Probabilmente c'erano un sacco di persone in generale che ne avevano. Eppure lui come la maggior parte degli altri erano così concentrati sulla loro vita e sul cercare di star bene per conto loro che normalmente non ci pensavano. Era una consapevolezza con cui Alexandre si trovava a fare i conti molto spesso: il pensiero di non poter fare qualcosa per tutti... era triste.
    Eppure sì, per fortuna esistevano persone come Lazar in giro. Insomma, quelli che aiutavano gli altri. Inconsapevolmente Alexandre aveva appena bollato il ragazzo come una persona simpatica e positiva.
    Tra l'altro il suo sollevare lo sguardo di poco prima gli aveva ricordato che doveva controllare le fermate della metro. Il giovane dai crini rossastri direzionò a sua volta le iridi smeraldine verso l'alto, a guardare il dispositivo che indicava la prossima fermata della metro. Mh, sì. Era un po' più lontana delle altre, ma alla prossima sarebbe dovuto scendere. Era un peccato, ma almeno avrebbe affrontato la giornata con un pensiero un po' più positivo del solito in testa. Ed il disagio sociale di prima tornò a farsi presente: come avrebbe dovuto salutarlo, adesso?

    « Nobody wants dead flowers »

    HUMAN
    POST: 08

     
    Top
    .
19 replies since 20/2/2020, 20:15   707 views
  Share  
.