To the Very Ends with You

Alexandre De Lacroix & Lazar Khabarov | Minato-city @Streets | 20/04/2020 NIGHT ; 21:30~

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    Alexandre R. De Lacroix
    Era così insolito che, per una volta, Alexandre ci tenesse a uscire di casa? Chi lo conosceva bene avrebbe detto di sì, perché era fondamentalmente un asociale introverso, nemico di ogni interazione che andasse oltre i normali convenevoli prefabbricati apposta per chi - come lui - con la gente non ci vuole parlare. Chi lo conosceva meglio, avrebbe detto di no, gustandosi in pace il sapore di menzogna presente in quella frase. Alexandre era introverso, ma non era asociale. Al massimo, potevi definirlo un bruco che ci metteva un po' ad uscire dal suo bozzolo, ma in compagnia delle persone giuste la sua timidezza ci metteva ben poco a trasformarsi nella premura tipica che contraddistingue l'amicizia. Bastava prenderlo per il verso giusto e lasciare i retini nel garage.
    Quindi sì, era insolito, ma perché era insolito che trovasse persone con cui trovarsi bene.
    Doveva essere per quello. Non se lo spiegava nemmeno lui, come ogni volta in cui qualcosa a cui teneva sembrava andare leggermente per il verso giusto, non faceva in tempo ad abituarsi all'idea che subito gli si sfaldava fra le dita.
    Il ricercatore sollevò il naso verso il cielo di Tokyo. La città era incantata sotto un velo plumbeo che copriva le stelle. Dietro i suoi passi, i grattacieli di Shibuya stavano di nuovo gradualmente lasciando il posto al panorama portuale di Minato. Si sentiva un perfetto idiota, ma come sempre aveva avuto la conferma che dalle sue parti la felicità non era di casa.
    Lazar gli aveva dato buca.
    Insomma, non che ci fosse nulla di male, no?
    Però almeno avrebbe potuto avvertirlo.
    Pazienza. Anzi, onestamente riteneva che fosse durata pure troppo.
    Era normale che un ragazzino si annoiasse in sua compagnia. Così tanto da non avvisare nemmeno però, era davvero un brutto colpo all'autostima.
    A lui piaceva passare del tempo con il giovane studente di moda, era triste scoprire di non essere ricambiati. Soprattutto perché Lazar non aveva mai dato segno di annoiarsi più di tanto, né quando andavano semplicemente a prendere un caffè, né quando andavano a visitare la colonia di gatti. Seguiva persino i suoi consigli in fatto di vestiti, come se quello servisse a renderlo più interessante ai suoi occhi. Anzi, da quando il ragazzo gli aveva detto che gli orecchini gli stavano bene aveva continuato ad indossarli, anche se per la maggior parte erano dei semplici anellini d'argento o dei piccoli brillanti; ancora non si sentiva abbastanza audace da azzardare con quelli lunghi. A dire il vero Alexandre si era reso conto che era indifferente dove lo portasse, ci sarebbe andato comunque. Si era fatto portare in un host club.
    Non era tornato al Velvet Room (anche se aveva in programma di farlo), però - con il senno di poi - si era ritrovato ad accettare il fatto che si fosse divertito. E non sapeva di chi fosse merito. Aveva continuato a parlare con Lazar, sia del Velvet Room, sia di cazzate ben più concrete come i gatti e show sulle drag queen.
    Anche se il ragazzo gli era sembrato un po' più distante del solito negli ultimi giorni. Ma Lazar non gli parlava mai dei suoi problemi, e Alexandre non osava chiederglieli. Anche se gli aveva confermato che erano amici, ancora dubitava di avere tutti quei privilegi e aveva paura di sembrare invadente.
    Ciononostante, non sapeva spiegarsi perché, con Lazar sarebbe andato pure a visitare una discarica. Il tempo che passava con lui era quello che un meme su twitter avrebbe definito "quality time".
    E quindi come sempre era uscito da lavoro, si era preparato, e si era messo in marcia verso Shibuya con il proposito di andare a visitare la colonia dei gatti come facevano ogni lunedì. Si era fermato sotto il lampione battezzato "Ernesto", il loro punto di ritrovo e aveva aspettato. Dopo dieci minuti all'orizzonte non si era visto nessuno, allora aveva avviato la prima chiamata senza ricevere risposta. Dopo quindici era andato direttamente alla colonia per vedere se per caso il ragazzo non lo stesse già aspettando lì, ma aveva trovato solo gli adorabili micetti che ormai avevano imparato a riconoscerlo e a volergli bene anche se aveva - come un perfetto fedifrago - l'odore di un altro gatto addosso. Dopo venti aveva chiamato di nuovo e controllato se non avesse ignorato qualche suo messaggio per errore. Niente.
    Dopo trentacinque era giunto alla conclusione che Lazar non si sarebbe presentato.
    Ci era rimasto male? No.
    Il suo primo pensiero era stato che fosse successo qualcosa e di andare fino a casa sua a controllare, ma si era reso conto di non avere idea di dove abitasse il ragazzo. E aveva cominciato ad unire i puntini dell'insicurezza.
    Aveva provato a chiamarlo un'altra volta, infine aveva deciso di tornarsene a casa con una semplice conclusione: probabilmente non voleva uscire e basta.
    Colpa sua. Si era illuso, come al solito. Ad Alexandre non piaceva pensare male delle persone, però in casi del genere gli veniva naturale, perché più che pensare male di loro, pensava involontariamente male di sé stesso. Lazar si annoiava in sua compagnia? Era colpa sua. Gli mentiva? Sì, perché non voleva essere troppo diretto e stava solo cercando il momento giusto per appenderlo. Oppure magari lui si stava facendo una fraccata di inutili paranoie e si era solo addormentato sul letto con il telefono silenzioso. Essere studenti era stancante, se lo ricordava. Era l'opzione più credibile, e Alexandre voleva davvero crederci, ma l'ultima volta che l'aveva fatto Julian era morto e il suo coping mechanisms sottraeva alla sua mente conclusioni così semplici.
    Ma andava bene! L'indomani avrebbe chiesto, sperando di ricevere risposta, e si sarebbe bevuto qualsiasi bugia. Avrebbe accettato i rifiuti successivi e sarebbe tornato alla sua vita di sempre. Tutto okay!
    Alexandre si fece sfuggire un sospiro e decise di pensare ad altro. Camminare lo avrebbe fatto rilassare. A casa sua mancavano ancora una ventina di minuti buoni, però se avesse tagliato per l'interno, senza seguire il percorso della metro se la poteva cavare in dieci. Da dopo l'attacco a Shinjuku passare per le vie secondarie gli causava qualche problema, ma nei paraggi c'era la succursale della CCG (quella dove gli capitava anche di lavorare quando non era al quartier generale). In più stava indossando una delle vecchie giacche di Julian, quella nera di pelle, si sentiva relativamente sicuro, quindi decise di concederselo.
    Voleva tornare a casa il più in fretta possibile e annegare le sue paranoie in qualche drama cinese horror o triller, magari con qualche sottotono BL.
    Oh, e magari poteva fermarsi al kombini sotto casa a prendere del gelato. Svoltò per la scorciatoia. Sì, sembrava una buona idea.
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    Edited by Ryuko - 5/9/2022, 11:17
     
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    «Eiji Saito deve morire.»
    La voce di Stefan Ivanovich Khabarov suonò gelida come poche volte Lazar l’aveva sentita. La sentenza di morte era prevedibile, quasi scontata, tuttavia non era stata immediata; prima di commettere un delitto in terra straniera non strettamente legato alla missione o alla sopravvivenza, Stefan aveva preferito incaricare Lazar e Viktoriya di indagare sul conto del misterioso Eiji Saito.
    Avere a disposizione solo un nome piuttosto comune e una vasta area geografica era tutt’altro che incoraggiante, e in un primo momento i fratelli Khabarov avevano considerato l’idea di rivolgersi agli Zeiva. Non potevano correre il rischio di sprecare tempo su piste fallimentari. Tuttavia, per loro fortuna, rintracciare Eiji Saito - quello giusto - non era stato poi così difficile.
    I social network rischiavano davvero di rendere obsoleto il lavoro dell’informatore.
    Lazar era sbiancato quando aveva visto una foto di Eiji Saito con indosso l’inconfondibile uniforme bianca della CCG, mentre Viktoriya sperimentava tonalità di rosso sempre più intenso. Era assurdo, anzi inverosimile che loro sorella non solo frequentasse un Investigatore, ma che gli avesse addirittura confidato di essere una ghoul.
    Stefan aveva ragione: Eiji Saito doveva morire.

    [...]

    Negli ultimi tempi Lazar aveva avuto così tanti pensieri per la testa da scoprirsi a passare un’anomala quantità di tempo steso sul letto a fissare il soffitto, o in alternativa a cercare di staccare la spina uscendo con Kohaku e Seiji.
    La pericolosa e delicata alleanza con un Investigatore del clan Onishi.
    La cattura e la prigionia di Tsukasa Kiriyama.
    L’operazione di salvataggio di Alexey e Junichi Minami.
    L’omicidio di Eiji Saito.
    E Alexandre. Un problema tutto suo da risolvere. Era piuttosto convinto di odiarlo ormai, e vomitare quella fasulla rassicurazione sull’essere amici appena una settimana prima gli aveva contratto lo stomaco con una veemenza che mai si sarebbe mai aspettato. Alexandre De Lacroix riusciva ad essere indigesto senza neanche essere stato prima ingerito, pazzesco. Sì, Lazar era certo di odiare lui, la sua imbarazzante ingenuità, le sue stupide paranoie e la sfacciata fortuna nel riuscire a scampare sempre alla morte.
    “Avrei dovuto ucciderlo quella notte.”
    Era ormai un mantra, quello; un mantra piuttosto inutile, dal momento che il passato per definizione non si può cambiare. La sera di quel venti di aprile avrebbe fatto l’ennesimo tentativo, stavolta però senza dare per scontato di riuscirci; aveva un brutto presentimento, una sensazione forse influenzata dai ripetuti fallimenti, ma difficile da ignorare.
    Pur avendo programmato l’appuntamento per le ventuno, Lazar aveva cominciato a prepararsi alle diciannove. Non per la tipica meticolosità con cui curava ogni dettaglio, quanto per una svogliatezza di fondo che non riusciva a contrastare.
    Non c’era più musica ad alto volume in quella camera da letto, solo il frastuono dei pensieri che gli arrovellavano il cervello: i dubbi circa l’alleanza con Milo Onishi, la paura che Tsukasa Kiriyama riuscisse a scappare dalla prigione e allertare il suo clan, un ripasso quasi ossessivo del piano messo a punto per infiltrarsi a casa Kiriyama. Perlomeno l’omicidio di Eiji Saito era andato bene, anzi era stato semplice oltre ogni aspettativa: era bastato seguirlo e attaccare la sua squadra durante una ronda, poche coppie di Investigatori potevano vantare lo stesso livello di coordinazione che avevano lui e Viktoriya. Adesso però c’era tutto il resto da sistemare.
    Guardarsi allo specchio era una tortura, quando a restituirgli lo sguardo era l’erede dei Khabarov.
    Il peso delle responsabilità l’avrebbe prima o poi schiacciato come una pressa.

    Fu verso le venti e trenta che, uscendo dal bagno dopo la doccia più lunga di sempre, Lazar sentì la porta d’ingresso essere aperta e chiusa con foga inusuale. Inusuale per le sue sorelle, almeno. Tra i tre, era lui quello incline a sfondare ogni cosa col proprio entusiasmo.
    Un attimo dopo era scoppiato l’inferno.
    Passi lungo il corridoio. Ninel’ che faceva irruzione nella camera che condivideva con Viktoriya. Lo schiocco di uno schiaffo. Una voce tremante che avrebbe voluto urlare, ma non poteva.
    «Ti sembro stupida, Viktoriya?»
    «Ma che diavol─»
    «Ti sembro stupida? Mi reputi tanto fuori da questa famiglia di merda da non riconoscere il nostro stesso modus operandi?! Pensavate di poter ammazzare il mio ragazzo senza che io lo capissi?!»
    A Lazar si gelò il sangue.
    Corse a rotta di collo a sostituire l’accappatoio con il primo paio di pantaloni e maglietta che trovò, ma quando si precipitò nella camera delle sorelle era comunque troppo tardi. Vedendolo apparire sull’uscio, Ninel’ gli rivolse lo sguardo più doloroso della sua vita: delusione e tradimento affioravano tra le lacrime, e se non gli si scagliò contro, nonostante tremasse di rabbia dalla testa ai piedi, fu probabilmente solo perché lo considerava un burattino senza cervello nel piano diabolico di Viktoriya o Stefan.
    La discussione era degenerata in meno di un minuto, ma adesso a portarla avanti - rigorosamente sottovoce, perché i muri in Giappone erano fin troppo sottili - era solo una furiosa Viktoriya, decisa a mettere a nudo che sì, non solo avevano scoperto il segreto di Ninel’, ma avevano anche dovuto rimediare alla sua follia e coprirla col resto di Opera, che di certo l’avrebbe fatta fuori se la verità fosse venuta a galla. Viktoriya parlò per più di tre minuti, a tratti fermandosi per spronare la sorella a rispondere, ma tutto ciò che ottenne da Ninel’, ridotta male come Lazar non l’aveva vista neanche durante l’operazione Chernobog, fu lo sguardo di una bambina che aveva assistito al massacro del suo gattino.
    Dopo un silenzio interminabile, Ninel’ tirò su col naso e guardò prima Viktoriya.
    Poi Lazar.
    «Io mi fidavo di te.»
    Poi di nuovo Viktoriya.
    «Io mi fidavo della mia famiglia.»
    I suoi occhi divennero rossi. E rossa fu un attimo dopo anche la parete alle spalle di Viktoriya.

    Lazar saltava senza maschera di tetto in tetto, inseguendo la sorella che quella notte avrebbe messo la parola fine alla storia dell’antica famiglia Khabarov.
    Dopo aver colpito a tradimento Viktoriya, Ninel’ si era lanciata fuori dalla finestra in una folle e insensata corsa verso una meta sconosciuta. Lazar non era riuscito a trattenere non uno, ma ben due urli: uno per ogni sorella. Fortunatamente le condizioni di Viktoriya erano gravi, ma non critiche: l’ukaku l’aveva colpita con un’onda di proiettili, scaraventandola contro il muro in una pioggia di sangue. Era messa male, immobilizzata e ferita in tutto il corpo, ma viva. Serviva ben altro per uccidere una forza della natura come Viktoriya Stefanovna Khabarova, ma Lazar era stato comunque sul punto di delirare per la paura.
    Appena ripresasi dallo shock, la sorella maggiore gli aveva ordinato di inseguire Ninel’, e Lazar, che in quel momento si sentiva davvero un burattino senza cervello, l’aveva fatto. Al diavolo la maschera, al diavolo i travestimenti, al diavolo la segretezza: sua sorella era in pericolo.
    Quell’inseguimento era durato una vita, mettendo in chiaro come Ninel’ non avesse davvero la minima idea di dove stesse andando. Per un po’ aveva corso a vuoto, seguendo semplicemente la via più conveniente in base ai palazzi che incontrava, finché qualcosa non era andato storto e Lazar l’aveva persa di vista oltre il profilo di un tetto.
    Uno sparo spezzò il silenzio, poi una mezzaluna di sangue colorò la notte là dove Ninel’ era scomparsa.
    Ancora una volta, Lazar agì d’istinto senza neanche provare ad accendere il cervello: consapevole di cosa avrebbe trovato oltre quel bordo, lo raggiunse e si gettò in un salto nel vuoto di due piani.
    Erano le ventuno e venti, e al livello della strada c’era la CCG ad aspettare due stupidi ghoul smascherati in ogni modo possibile.

    Investigatori e ghoul si scrutarono gli uni con gli altri con evidente shock: da un lato Ninel’, la kagune ipervascolarizzata spiegata e lo sguardo spiritato, e Lazar, senza kakugan attivo ma reduce da un volo di due piani che non sembrava averlo minimamente scalfito, dall’altro due Investigatori armati di martello e fucile ancora fumante.
    Qualunque cosa avesse colpito l’ukaku di sua sorella, non sembrava averla danneggiata in maniera seria, pensò rinfrancato Lazar. Ignorò qualunque cosa fosse stata urlata in giapponese da uno dei due avversari, rivolgendosi sottovoce alla sorella in russo.
    «Liberiamoci di questi due e poi potrai prendertela con me quanto vorrai, ma per favore─»
    «Questi due sono persone.» Ninel’ spostò gli occhi rossi di lacrime dalle colombe al fratello, fissandolo con un rancore che Lazar non si era mai sentito rivolgere. «Persone che cercano di impedire ai mostri come voi di trucidare senza pietà qualcuno solo per mantenere un segreto.»
    L’attimo successivo Lazar vide la stessa onda rossa che si era abbattuta su Viktoriya riversarsi su di lui.
    L’impatto col muro fu brusco, ma notevolmente meno violento di quello riservato a Viktoriya. Persino nella sua follia vendicativa Ninel’ sembrava continuare ad avere un occhio di riguardo per il fratello preferito.
    O forse no.
    Quando Lazar riaprì gli occhi, sua sorella stava già sparendo oltre uno dei vicoli della stradina, inseguita stavolta da una tempesta di proiettili che ne tracciarono fedelmente la scia sulle pareti degli edifici circostanti.
    Lasciandolo lì, smascherato, alla mercé di due Investigatori.
    Ninel’ lo stava usando come esca.
    Doveva star vivendo un incubo.
    Ma la cosa davvero inspiegabile fu dove diavolo Lazar trovò la determinazione di alzarsi e sbarrare la strada alla colomba col martello prima che potesse rincorrere Ninel’. La quinque si scontrò violentemente con la rinkaku, e quello fu l’inizio di un lungo e logorante combattimento.

    Venti minuti più tardi, con un corpo morto a terra e le gambe scosse da tremiti, Lazar faticava a mantenere il controllo e non saltare alla gola dell’Investigatore con la quinque-martello come avrebbe fatto una bestia affamata.
    Perché, dio, se era affamato.
    L’avevano ridotto così male che faticava a reggersi in piedi, ma avrebbe rimandato a dopo la conta dei danni. Per ora gli bastava sapere che il braccio destro era fuori uso, lo stomaco e la tempia destra sanguinavano e questo, assieme ai dannati capelli che non aveva potuto legare prima di uscire di casa, gli ostruiva di netto la visuale. Il cecchino aveva avuto un’ottima mira nonostante il buio e la sua velocità di ghoul, motivo per cui era stato necessario ucciderlo per primo.
    A guidare Lazar era ormai più l’olfatto che la vista. L’odore pungente del sangue, mescolato a quello acre del sudore, gli indicava con precisione la posizione del nemico: di fronte a lui, all’altro capo di quello stretto vicolo. Stava riprendendo fiato, esattamente come lui.
    Con le spalle al muro, il braccio sano stretto intorno a quello ferito e il volto contratto in un’espressione feroce, bestiale, Lazar continuava a pensare a sua sorella.
    Sarebbe uscito vivo da quell’inferno… e l’avrebbe trovata, riportata a casa. Avrebbe aggiustato tutto, perché era stato lui a sbagliare, a non opporsi alla decisione di uccidere Eiji Saito.
    Doveva rimediare.
    Era una sua responsabilità.

    «Parlato Echo/Lazar.»
    «Parlato Nebula/Ninel'.»
    «Parlato Megitsune/Viktoriya.»
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    Alexandre R. De Lacroix
    Erano due mondi diversi. Troppo diversi per poter essere messi sullo stesso piano. Le preoccupazioni di uno erano il prossimo drama da guardare, l'altro si doveva portare sulle spalle il peso e fardello di diventare capofamiglia di un clan di ghoul. E forse erano anche due mondi che era bene tener separati, perché se rimanevi a metà fra i due finivi per smarrirti in una selva ben più oscura di quella di Dante; almeno, da quella ne potevi uscire volgendo la tua fede verso Dio.
    "Grazie, arrivederci."
    "Arrivederci."
    Il cortese saluto della commessa del konbini riecheggiò dietro Alexandre, mentre questi si lasciava alle spalle gli scaffali bianchi del convenience store. Nonostante fossero le ventuno e trenta passate, erano ancora imbottiti di cianfrusaglie - e schifezze alimentari, soprattutto quelle - e lui proprio una sciocca vittima del consumismo. Però era comodo averne uno così vicino a casa, non poteva negarlo, lo schiavo delle comodità. Soffocato uno sbadiglio, riprese la sua marcia verso la meta. Era contento di aver avuto ragione, camminare aveva avuto il suo effetto terapeutico, aveva scacciato i cattivi pensieri e alleggerito lo spirito.
    La busta verde opaco appesa al braccio, accompagnato dal sottofondo dei Muse, Alexandre si stava immaginando a camminare in un prato di stelle. Era il cielo che veniva riflesso; un limpido specchio d'acqua che s'increspava continuamente sotto i suoi metodici passi e gli impediva di osservare la realtà per com'era, una distesa evanescente dove l'impossibile diventava possibile e lui era il Re del mondo.
    Certo, era strano. Che attrattiva poteva rappresentare l'essere Re di un mondo vuoto? Nessuna, se avete letto il piccolo principe lo saprete, ma sarebbe stata un'esistenza priva di preoccupazioni e Alexandre - in fondo - non desiderava altro che quello.
    Le mani in tasca e la musica nelle cuffiette, seguì le linee sull'asfalto senza curarsi di alzare il naso. Poco più avanti, il logo troppo abbagliante di un locale da cui erano appena usciti correndo tre ragazzi, attirò la sua attenzione. Era nuovo? Non se lo ricordava in quel punto. Un'altra donna gli passò frettolosamente di fianco, Alex scosse appena la testa e tornò a farsi i fatti propri. Svoltò alla prima curva a sinistra, poi a destra e infine nell'ultimo viottolo che tagliava per risbucare nel viale principale dove si trovava il proprio complesso abitativo.
    Lo sguardo gli cadde sopra una buffa macchia sull'asfalto. Che strano sembrava...

    Sangue.


    Preso da un primordiale istinto sconosciuto, il ricercatore sollevò lo sguardo: i suoi occhi si dilatarono per l'angoscia, le braccia gli ricaddero molli lungo i fianchi e la busta gli scivolò di mano. Cadavere. Rosso. Un'iridescente Rinkaku sporca di cruore. A meno di qualche metro di fronte a lui un uomo - ansante, malamente ferito - brandiva un grosso martello, che Alex riconobbe immediatamente come una quinque, e sembrava difendere sé stesso quanto il corpo esanime del compagno - che forse aveva combattuto al suo fianco - dalla furia famelica di un ghoul dall'altro capo del viale. Colto alla sprovvista, l'investigatore si voltò, forse preso dalla folle idea che potesse essere un altro ghoul.
    Alexandre si pietrificò.
    Chi era? Lo conosceva? Doveva aiutarlo? Lavoravano nello stesso dipartimento? Era un fucile quello a terra? Non era addestrato, ma sapeva maneggiare una quinque.
    Poi udì un eco lontano.
    Scappa.
    Non capì se a parlargli fosse stato ciò che rimaneva del suo istinto di autoconservazione, la fugace ombra disperata della propria coscienza o il labiale dell'investigatore, ma nell'istante in cui lo comprese capì che non ce l'avrebbe fatta. Il suo corpo non si mosse, incantato da qualcosa di familiare nel vicolo. E le prime note di Uprising divennero pericolosamente simili al suo requiem.
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    Edited by Ryuko - 11/9/2022, 10:11
     
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    «Il nostro è un modus operandi unico, che non troverai in nessun’altra famiglia di Opera, neanche nei nostri parenti europei.»
    Benché rauca e impastata dall’età, il modo di parlare di nonno Ivan rispecchiava appieno ciò che ci si sarebbe aspettati dal vecchio patriarca Khabarov: fermo come se ogni parola pronunciata fosse corrisposta a verità assoluta, impreziosito da termini desueti che richiamavano la lingua russa d’altri tempi, intriso dell’orgoglio di chi gli eventi non solo li ha visti accadere, ma li ha anche compiuti.
    Quando era Ivan Khabarov a parlare, agli altri non rimaneva che l’opzione del silenzio. E se qualcosa non andava come voluto dal patriarca, qualcuno si sarebbe certamente fatto male. Nonno Ivan era tutto ciò che il piccolo Lazar sperava di non diventare mai: il terrore delle persone che avrebbero dovuto amarlo.
    «Per volere di Andrej Mikhailovič, oggi Opera ci considera e tratta come cacciatori. Ma neanche la più elaborata delle illusioni può mascherare a lungo la verità, Lazar: i Khabarov sono sempre stati e saranno sempre dei boia. Noi siamo nati per tagliare teste.»
    Era impossibile che il nonno non si rendesse conto dell’effetto che parole tanto crude potevano avere su un bambino di nove anni. Semplicemente non gli importava, perché se lui era cresciuto con quegli insegnamenti, allora anche i suoi figli e nipoti potevano farlo. D’altronde quella famiglia allevava solo lupi, non pecore o cani da caccia.
    Lazar si appellò al poco coraggio che il suo piccolo cuore riusciva a racimolare per non distogliere lo sguardo dagli occhi ferini del nonno; erano quasi le diciannove, presto quel supplizio sarebbe terminato e fuori dallo studio avrebbe trovato il papà ad attenderlo per giocare insieme, guardare un cartone o anche solo fare una passeggiata nel parco dietro casa. Con questi rassicuranti pensieri a impedire al suo umore di precipitare, il bambino si drizzò sulla sedia e finse interessato alla lezione di violenza del nonno.
    «Bracca con la precisione di un cacciatore, colpisci con la letalità di un boia. È così che servirai la tua famiglia, Lazar.»

    ***

    Braccare con la precisione di un cacciatore, colpire con la letalità di un boia.
    L’ultimo filo di lucidità di Lazar minacciava di spezzarsi, la voce del nonno ne era un chiaro campanello d’allarme. Lo stress accumulato negli ultimi tempi, lo shock del tradimento di Ninel’, il rimorso per le proprie azioni e il senso di colpa, la fatica e la stanchezza dovute al combattimento con la CCG si erano accumulati in una notte che assumeva sempre più l’aspetto della fine dei giochi per lui.
    Una notte in cui la sua più grande paura si era concretizzata: aveva perso la sua cosa più importante, la famiglia a cui aveva dedicato l’intera vita. Lazar si sentiva sopraffatto, ad un passo dal perdere la testa; sarebbe bastata un’ultima goccia per far traboccare il vaso, e quella non tardò a piovere.
    I piedi dell’Investigatore strisciavano sull’asfalto nel tentativo di mantenere una posizione ferma, come una barricata davanti al corpo esangue del collega. Le mani scosse da tremiti stringevano compulsivamente l’asta del martello, in condizioni pessime tanto quanto la kagune che si apriva come una corolla intorno alla sagoma in ombra di Lazar.
    Il ghoul aspettava il momento in cui il suo istinto gli avesse urlato di aggredire, mentre, memorizzato quanto visto finora dello stile di combattimento dell’avversario, elaborava le varie traiettorie che il martello avrebbe potuto compiere per frantumargli un altro braccio della kagune. Aveva commesso l’errore di reputarsi migliorato almeno come combattente, e invece in quello scontro stava solo facendo la figura del rammollito. Non c’era una singola certezza di cui quella notte non stesse minando le basi.
    L’aria fresca gli riempì i polmoni attraverso un lungo e profondo respiro, relegando i pensieri negativi in un angolo della mente almeno per un momento. Concentrato, doveva rimanere concentrato.
    Il suono cadenzato di passi rilassati giunse alle sue orecchie ancor prima del profilarsi della sagoma di un essere umano oltre l’angolo in fondo alla strada.
    Un sorriso arcuato si formò sulle labbra del ghoul.
    Bracca con la precisione di un cacciatore.
    Una busta di plastica verde cadde al suolo.
    L’umano si afflosciò, inerme.
    L’Investigatore reclinò la testa per urlargli qualcosa.
    La sua occasione.
    «Scappa!»
    Colpisci con la letalità di un boia.

    La testa dell’Investigatore volò via, recisa con precisione chirurgica dal collo.
    Un attimo dopo il resto del corpo venne giù come una tessera di domino, lasciando spazio di manovra al ghoul che, scavalcando entrambi i cadaveri con un salto, fu subito addosso all’ultimo testimone rimasto.
    La mano dominante si strinse attorno a un braccio della preda, strattonandolo verso il basso per costringerlo ad abbassarsi. Non importava quanto l’umano fosse alto, la sua forza sovrumana l’avrebbe piegato come un giunco. Lo scaraventò a terra e gli piantò un ginocchio nello stomaco, senza mollare la presa sul braccio.
    Suona familiare? La differenza col loro primo incontro stava nell’assenza di una maschera a celare il volto di Echo, i cui occhi rosseggianti sembravano così alienati da non riconoscere la persona che stava per uccidere. E forse era un bene: nonno Ivan sarebbe stato così fiero del suo piccolo mostro.
    «Parlato.»
    «Pensato.»
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    Alexandre R. De Lacroix
    Sangue sui vestiti di Alexandre. Uno squarcio. I suoi abiti si macchiarono di rosso e s'impregnarono dell'odore acre e della viscosa consistenza di quell'immorale miscela.
    Spesso ci immaginiamo le scene di decapitazione come qualcosa di incredibilmente cinematografico, dove un taglio netto e preciso crea uno schizzo di sangue arterioso a coprire l’inquadratura, lasciando tutto ciò che resta all’immaginazione. La realtà è diversa: è orribile.
    Le carotidi recise mostrano tutto il loro pulsare, dando ondate di sangue ad intermittenza, ma copiosamente, come un fiume in piena inarrestabilmente macabro; si hanno spasmi incontrollati, risultato della mancanza d’ossigeno a livello dei tessuti, che esprimono la propria sofferenza in vari modi; impazzito, il cuore aumenta i battiti, convinto che con uno sforzo disumano potrà tornare a dare al cervello quel nutrimento di cui è così avido… e infine cede, sfiancato dalla mancanza di vita, abbandonato e solo, unico eroe che si batte per resistere all’ineluttabile abbraccio della fine. Le membra, decerebrate e stanche, si accasciano, cadono, dilaniando le anime dei puri con un tonfo straziante; cade il cranio, solitario, non rotolando, ma spiaccicandosi al suolo, riversando sangue, liquori e umori sul suolo in un tripudio di rumori umidi che nessun uomo normale avrebbe udito con piacere.
    Per quanto non gli piacesse raccontarlo, Alexandre aveva già visto morire una persona. Gli era morta fra le braccia. E con la morte faceva i conti tutti i giorni. Non era detto che tutti i colleghi che salutavi la mattina arrivassero vivi alla sera stessa. Parte del suo lavoro era anche svolgere autopsie per identificare e riconoscere ferite da kagune, e analizzarne i frammenti se venivano ritrovati. Aveva visto cadaveri ridotti a brandelli, spezzati, irriconoscibili. Si sa, i corpi dei defunti vanno incontro ad un processo di putrefazione, ritornano alla Terra e creano nuova vita: non c’è nulla di più giusto di questo.
    Non per questo si sarebbe abituato. L’interno del nostro corpo non ha un odore gradevole; spesso nelle sale tutto viene coperto dall’odore di sterilità o da quello della formalina, in base alle fortune, ma non era il caso purtroppo. Decapitando si interrompono tutte le strutture del collo, anche l’esofago che è in diretta comunicazione con lo stomaco e il resto dell’apparato digerente, sede di processi digestivi e trasformativi, e tutto ciò puzza.
    Per cui quando il rosso cremisi del sangue gli dipinse sgraziatamente il viso, macchiandogli la gola, il colletto della maglia, e la guancia sinistra, fino ad arrivare poco sotto al sopracciglio, il ricercatore non poté far altro che sobbalzare e pietrificarsi, immobile, socchiudere lentamente lo sguardo, che aveva serrato di riflesso, e posare le sue iridi, verdi e disperate come due smeraldi crepati, sulla figura morente dell'investigatore. L'odore di marcio gli riempì le narici, e percepì delle lacrime salirgli agli occhi. Shock? Turbamento? Stress? Chi poteva dirlo.
    Di certo non il ghoul, che gli saltò addosso ancor prima che Alexandre avesse tempo di sentirsi assassino per aver distratto l'investigatore dal suo lavoro. Di certo non i due impiegati della CCG, perché erano morti. E di certo non Alex stesso, perché quel ghoul aveva una faccia amica.
    Una faccia che, sì senti stupido ad accorgersene, riusciva a riconoscere anche così, senza i suoi caratteristici occhi azzurri, stanca, logora e sudata. Era il ragazzo che aveva aspettato per metà serata. Molteplici venature rossastre gli circondavano le palpebre, in una sottile ragnatela vermiglia, l'oceano dei suoi capelli era chiazzato come se lo avesse dipinto Mosè, e la rinkaku scarlatta lo faceva somigliare ad un giovane licoride solitario.
    Lazar.
    Era ferito e perdeva sangue a fiotti.
    Lazar. Un ghoul? Un principio di confusione si dipinse sul volto esterrefatto del francese.
    L'istinto lo spinse a chiamare il suo nome ancor prima di realizzare cosa fosse giusto o sbagliato, ma le parole gli morirono in bocca. Alexandre provò a resistergli, ma fu inutile. Il ragazzo lo afferrò per un braccio e lo scaraventò a terra, in mezzo al sudicio e al sangue di altri. Le sue cuffie volarono a terra, spezzando la tensione crescente della musica.
    «Laz--ghh..!» un lamento sofferto venne spezzato sul nascere. Aveva sognato quel momento per settimane, più o meno frequentemente, eppure stavolta il colpo contro l'asfalto non lo fece svegliare, fece solo male - intaccando ciò che dalla volta scorsa non era mai guarito. Ma insieme a quella botta, come contraccolpo, gli fu inculcata anche un'improvvisa lucidità. Alex sgranò gli occhi. Non poteva essere. Angoscia, realizzazione, adrenalina, un'accozzaglia di sentimenti esorcizzò dolore, paura e confusione. In un rantolo d'agonia, il suo sguardo si fissò sul ragazzo che non sembrava essere capace di riconoscerlo. Lui invece temette di riconoscerlo, fin troppo bene.
    Era mai possibile che il destino fosse così crudele con lui?
    Nello stesso istante, si rese conto che il ghoul stava tremando. Non di paura, ma per lo sforzo. I suoi muscoli tremavano appena; era debole. Nonostante la forza con cui lo stava schiacciando a terra, era debole. Forse affamato. Persino la sua capacità di rigenerazione pareva compromessa. Alex si sentì tagliare in due dalla paura.
    «Lazar...! Lazar! Fermati, sono io!» biascicò, a tratti rauco, soffocato dal ginocchio che l'altro gli aveva piantato nello stomaco e dall'ansia di attirare gente.
    Avrebbe voluto credere di essere sufficiente a farlo tornare in sé, ma non ne era sicuro. Lazar era un ghoul. Forse era quel ghoul. Forse aveva sempre voluto mangiarlo.
    Invero, si sentiva proprio ingenuo.
    Il ragazzo della metro, i gatti, i caffè.
    A pensarci bene non ne era neanche sorpreso, in un certo senso si sentiva quasi sollevato. Era come se una parte di lui lo avesse sempre saputo, e ne stesse soltanto aspettando conferma. Forse se ne era persino accorto, ma aveva preteso di non notarlo per la sua sanità mentale. Lavorava alla CCG da una vita e una vita l'aveva vissuta accanto ad un ghoul. A farci caso alcuni pattern si notavano. Sentiva solo una crescente sensazione di rabbia montargli dentro, mentre cominciava a collegare i puntini di una settimana enigmistica dell'orrore.
    «Vuoi accarezzarmi la guancia e sparire di nuovo, è così che funziona?» ringhiò, livido, e si aggrappò alla maglia del corvino con tutte le forze che aveva, con l'unico braccio libero che gli restava. Non aveva alcun modo per confermare di aver ragione, ma poteva intuire di essere in pericolo come la volta scorsa. Anzi, forse persino di più. Il sangue del ghoul grondava sui suoi vestiti. Lazar lo guardava, ma non lo vedeva. Sarebbe potuto sparire anche quella volta, ma se lo avesse fatto, lo avrebbe lasciato lì a morire. E per una volta, forse la prima dopo quello che sembrava essere un secolo, Alexandre voleva vivere. Voleva chiedere perché. Ma ancora prima voleva aiutarlo e sapere perché si era ridotto così.
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    Edited by Ryuko - 5/9/2022, 11:22
     
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Troppo alienato per riconoscere colui che stava schiacciando fino a sottrargli il fiato, Lazar aveva affondato gli occhi in un mare verde e si era lasciato affogare in una violenza primordiale senza neanche provare a rimanere a galla.
    In quel momento stava combattendo due guerre: una nel mondo reale e una nella propria mente. Se la prima volgeva al termine dopo un bagno di sangue, la seconda era appena cominciata e lui, sfortunatamente, di energie non ne aveva più. Le aveva consumate per non lasciarsi annientare dalla consapevolezza che una delle persone per lui più importanti l’aveva dato in pasto al nemico senza pensarci due volte.
    Non c’erano parole per descrivere quanto Ninel’ e Viktoriya fossero fondamentali per lui, anche più dei genitori e di tutta la maledetta famiglia Khabarov: amiche, complici, confidenti, pilastri della sua vita. Da un lato l’affidabile e responsabile Viktoriya, dall’altro l’esuberante Ninel’ e la sua insistente speranza di sentirsi prima o poi eleggere sorella preferita. Un legame speciale coltivato da sempre tra mille difficoltà, che Lazar non aveva mai neanche pensato di poter replicare. E ora tutto sembrava gettato alle ortiche, finito a causa di uno stramaledetto umano a cui avrebbe dovuto strappare la testa dal collo senza dargli il tempo di conoscere sua sorella…
    Aveva solo ventun anni e per la sua famiglia aveva già sacrificato più di quanto dovuto: la serenità all’insegna della quale sarebbero dovute trascorrere l’infanzia e l’adolescenza, vissute invece tra le grinfie di un nonno spietato, e poi il più grande amore della sua vita, che per qualche insensato motivo gli aveva sorriso dolcemente sentendosi dire che il clan avrebbe sempre avuto la precedenza. Come se ciò non fosse stato abbastanza, vedere Viktoriya crollare sotto il peso delle responsabilità lo aveva recentemente portato a riconsiderare la decisione di lasciarle il trono di erede.
    Fosse stato necessario, Lazar avrebbe sacrificato la sua intera vita per il bene dei Khabarov… chiedeva solo che ne valesse la pena. E in quel momento non ne valeva affatto la pena, non con Viktoriya ferita e Ninel’ dispersa.
    No, non poteva finire così.
    Piuttosto avrebbe ceduto alla tentazione di recidere l’ultimo contatto con una realtà che faceva troppa paura e si sarebbe lasciato guidare dall’istinto, che in quel momento si traduceva in una fame vorace.

    “Lazar...! Lazar! Fermati, sono io! Vuoi accarezzarmi la guancia e sparire di nuovo, è così che funziona?”
    Quello era un pessimo momento per costringerlo a tornare in sé. Il ghoul aveva risposto al richiamo prima che l’umano al suo interno riemergesse dallo stato di shock. La mano libera si chiuse con la violenza di una cesoia sul braccio che gli arpionava la maglia e lo torse all’indietro con un movimento deciso, infischiandosene del rischio di romperlo.
    Del resto, perché avrebbe dovuto importargli?
    Ironia della sorte, comprese molto presto perché avrebbe dovuto importargli.
    Seppure con qualche secondo di ritardo, quel briciolo di coscienza che gli era rimasto riconobbe il suono del suo nome, poi il tono d’urgenza con cui era stato pronunciato - qualcuno aveva bisogno di lui -, quindi la richiesta di fermarsi e, infine, una voce. Una voce che conosceva troppo bene per i suoi gusti, e che per qualche motivo era accompagnata da un brusio di fondo che era… musica?
    Lazar sbatté le palpebre come se avesse avuto la vista offuscata, e dal modo in cui gli occhi gli si sbarrarono subito fu chiaro che fosse di nuovo lì, in gabbia in quell’inferno. La persona sotto di lui… la persona sotto di lui era Alexandre, convenientemente colui su cui si sarebbe sfogato più volentieri in quel momento, ma… anche se la sua mente gli ripeteva queste esatte parole, per qualche motivo il suo corpo era immobile. E non si trattava solo di stanchezza fisica.
    La presa sugli arti di Alexandre si fece più molle, così come la pressione del ginocchio contro lo stomaco. Ma il pericolo di scatenare la bestia era ancora lì, pronto a trasformarsi in tragedia per mano di un ragazzino traumatizzato in procinto di scoppiare a piangere.
    Ovviamente non lo avrebbe fatto, non avrebbe pianto: questo gli ripeteva la sua mente, mentre sentiva le guance bagnarsi. Il suo cervello e il resto del corpo avevano evidentemente smesso di comunicare.
    Avrebbe dovuto fare qualcosa─ doveva fare qualcosa. Uccidere Alexandre, idealmente. Oppure lasciarlo andare e avventarsi sui cadaveri per soddisfare quella fame che lo stava mandando fuori di testa. O ancora fuggire, sperando che Alexandre non allertasse i suoi colleghi prima che lui avesse il tempo di mettersi in salvo con Viktoriya.
    Avrebbe dovuto fare qualunque cosa, qualunque cosa.
    E invece era ancora lì, immobile, a cercare di emettere un suono che non fosse un singhiozzo intriso di rabbia.

    «Parlato.»
    «Pensato.»
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    Alexandre R. De Lacroix
    I ghoul erano mostri.
    I ghoul erano assassini.
    I ghoul erano selvaggi.
    Alexandre era cresciuto con quegli insegnamenti come pane quotidiano; nelle sue lezioni all'accademia alla CCG non aveva imparato altro e al telegiornale si sentiva ripetere almeno una volta alla settimana. I ghoul, i ghoul, i ghoul. Comodo cercare di lavarsi le mani così. In fondo i ghoul non erano altro che esseri umani.
    L'unica battaglia che Alexandre aveva mai dovuto combattere era stata quella di cercare di mantenere ben salde quelle sue convinzioni, anche quando tutto il resto del mondo sembrava dargli contro.
    E ci era riuscito, oh se ci era riuscito. Era una guerra che gli piaceva pensare di aver vinto, una che gli aveva portato via molto, ma che gli aveva dato ragione, una in cui le sue esperienze di vita erano diventate prima trincea e poi armi ed esplosivi per abbattere la muraglia eretta dallo stigma comune diffuso nella società. L'aver visto con i propri occhi come la convivenza fosse possibile era la certezza che gli aveva sempre fatto da scudo, e anche dopo aver perso uno dei suoi pilastri portanti della sua vita, il suo compagno d'armi, non aveva mai smesso di lottare, si era solo allontanato dal campo di battaglia, in pace. Di certo non immaginava ci sarebbe dovuto tornare per impedire che gli portassero via qualcos'altro.

    Alexandre si soffermava spesso a pensare alla morte, talvolta anche senza alcuna motivazione precisa. Durante il giorno mentre svolgeva attività apparentemente normali. Era strano, non sapeva cosa lo spingesse a farlo, ma succedeva. Ad esempio, quando aspettava il treno sulla banchina affianco ai binari o gli capitava di guardare giù mentre stendeva la lavatrice affacciato al balcone, e il suo cervello, in un macabro raptus di follia, sembrava suggerirgli: "salta". Alcuni studi dicevano che era normale, che la mente provi una certa dose di sollievo nell'immaginare azioni che poi non ha il coraggio di compiere. Si chiedeva se fosse vero. E se quel coraggio gli avrebbe mai annebbiato la ragione. Cosa sarebbe successo?

    I suoi tentativi di ribellione furono spezzati sul nascere da un informe ammasso di violenza. Tac. Vide un lampo rosso e poi più nulla. Una ramificata fitta di dolore gli frantumò le sinapsi, e si espanse lungo tutto il resto del corpo con la rapidità di una saetta. Con il braccio ritorto all'indietro, Alex non seppe dove trovò la forza di non gridare. Forse l'ultimo briciolo di raziocinio rimastogli gli suggerì che se lo avesse fatto avrebbe attirato l'attenzione, ed era l'ultima cosa che voleva fare; forse il fetore umido del sangue lo tenne lucido e terrorizzato abbastanza da ricordargli di essere sospeso sul filo che congiungeva il mondo dei vivi e quello dei morti; seppe solo che, in un ultimo atto di pietà verso sé stesso, quando riaprì le palpebre che non si era reso conto di aver serrato, sforzandosi di scacciare quel velo di opaca nebbia scesovi sopra, tranciò qualsiasi collegamento il suo corpo potesse avere con i centri del dolore e rimase lì, la gola arida e il viso contratto, ansante e spezzato, come un ramo secco sotto gli incuranti passi di qualcuno.

    Evidentemente, non era ancora giunto il giorno in cui avrebbe scoperto se il suo coraggio fosse sufficiente per farlo saltare oltre il confine. Lazar gli aveva rotto un braccio? Bella domanda. Alexandre non si era mai rotto un osso prima e non aveva metro di paragone. Rimase a fissarlo, immobile, per un tempo così dilatato nella manciata di secondi che furono che credette di star impazzendo. Si chiese se Lazar gli avrebbe azzannato la gola strappandogli le arterie e lasciando il suo sangue a fluire e a mescolarsi, orrido, insieme a quello degli altri cadaveri, si chiese quanto ci avrebbe messo a morire in quel modo, anche se in realtà lo sapeva già da solo. E si figurò come lo avrebbero ritrovato la mattina successiva, dilaniato con gli occhi vitrei rivolti verso l'alto, mentre qualcuno annotava il suo nome affianco a quello degli investigatori caduti, prima di coprirlo con un lenzuolo bianco mormorando un "poverini, erano così giovani", come se quello potesse dar sollievo alle loro anime. In realtà non voleva nemmeno guardarlo in faccia, Lazar.
    Voleva riprendere fiato ed essere lasciato stare, ma quando infine la foschia si diradò e i suoi occhi riuscirono ad incontrare di nuovo quel solito azzurro a cui aveva imparato a volere bene, l'ordine delle priorità gli si rimescolò nello stomaco.
    Perché? Perché? Perché non c'era mai una volta in cui riuscisse dare la priorità a sé stesso? Delle lacrime rosse intrise di rabbia caddero dall'alto, bagnandogli il viso, e Alex credette d'aver trovato la risposta. Una mossa sbagliata e sarebbe finito tutto.
    Lui, loro, la sua vita. La loro inesistente amicizia.
    Ma qual era la mossa giusta da fare?
    Alexandre non lo sapeva. Il terrore gli stava divorando le membra dall'interno: se non fosse morto a causa del ghoul, la sua fine sarebbe stata opera di un altra bestia che aveva appena scoperto di ospitare sottopelle. Eppure la sua carne era stata così tante volte sotto le labbra di un ghoul che sembrava quasi una barzelletta che si mettesse ad avere paura adesso. In fondo non aveva neanche paura di morire. La morte sarebbe stata una liberazione, invero. Era la strada facile. Aveva paura di andarsene senza poter aiutare quella faccia da schiaffi che lo stava bloccando per terra. Perché si stava rendendo conto di non sapere niente di una persona che riteneva sua amica, e quello faceva più male di qualsiasi braccio spezzato.
    Qualcuno, una volta, gli aveva detto di essere rispettoso del silenzio. Perché nessun silenzio era fatto per caso, nessun silenzio era vuoto. Alcuni tacevano storie, altri avevano dolori da raccontare.
    In quello di Lazar vi erano entrambi, gli si leggeva negli occhi.
    “Non provocarlo”–
    “Ascoltalo”–

    E mentre una vocina che non voleva sentire gli suggeriva come comportarsi, Alexandre comprese che se voleva uscire da quella situazione l'unico modo che aveva era far leva sulle sue debolezze e sfruttare le crepe che qualcun altro aveva aperto per lui. Si sentì meschino a pensarlo, a pensare che l'unico modo che aveva per rompere un vaso fosse quello di saltarci sopra una volta che qualcuno lo aveva già buttato a terra, ma Lazar non sembrava in grado di comprendere discorsi articolati. Forse a malapena lo stava riconoscendo, ma lo stava riconoscendo. E aveva bisogno del suo rimorso, se era in grado di provarlo. Aveva bisogno che si ricordasse di non essere solo il mostro che credeva. Alex centrò i propri occhi nei suoi.
    «Lasciami. Andare.» scandì, lentamente. Imperativo, lo sguardo deciso. Le sue parole avevano la stessa valenza di quelle di un poveraccio contro un assassino che ti sta puntando una pistola alla tempia, ma un conto era parlare con un serial killer, un conto era parlare con un serial killer che sta dubitando di ucciderti per primo. Alexandre non era arrabbiato, era furioso. Si sentiva tradito, ferito, stupido. E nonostante tutto il suo tono era profondamente calmo.
    Onestamente, avrebbe dovuto dire qualcosa. Qualcosa di migliore.
    Tipo "va tutto bene".
    Ma non andava tutto bene.
    Qualunque cosa fosse capitata a Lazar non andava bene.
    Non andava bene un cazzo.
    E per quanta pena potesse provare per lui, non aveva voglia di mentire e non era neanche dell'umore giusto per compatirlo. Era stufo di essere sempre lo zerbino della situazione. Ma per prendere in mano le cose, aveva bisogno di essere lasciato andare.
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Dieci file da dieci corpi appesi, allineati con cura quasi maniacale ad eccezione del quarto sulla terza linea da destra. Carne appena consegnata, probabilmente conservata di fretta da un tirocinante non meticoloso quanto il macellaio capo. Kuznetsov, se ricordava bene; l’aveva visto solo una volta, ovviamente: mica ci capitava tutti i giorni, a Mosca. Quella macelleria però rimaneva una delle più grandi e fornite con cui i Khabarov avessero collaborato, incredibile che non fosse mai stata scoperta. Opera aveva i suoi mezzi, diceva sempre il nonno: Opera era capace di farti sparire senza che neanche la tua famiglia se ne accorgesse.
    Mani chiuse a pugno sul fondo delle tasche, volto nascosto fino al dorso del naso in una sciarpa ancora intrisa del calore dell’impianto di riscaldamento dell’auto, sguardo come sempre torvo e la sgradevole sensazione dei capelli impregnati di umidità incollati alle guance, Lazar aveva aspettato davanti a quella cella frigorifera una manciata di minuti, osservando in silenzio il viavai di tirocinanti che prelevavano pian piano i corpi. Alla fine il freddo cane aveva avuto la meglio sulla sua pazienza, convincendolo a raggiungere suo padre nel cuore del mattatoio. Una zona che conosceva bene, ma che lui, così come nessuno sano di mente, avrebbe frequentato volontariamente. Gli affari erano però affari, gli ripeteva Stefan quando lo sconforto aveva la meglio persino sui suoi nervi saldi ispessiti dall’esperienza. Un giorno l’avrebbe capito anche lui, ma per il momento poteva godersi i suoi diciassette anni ed evitare di parlare di soldi davanti a gente che tirava budella fuori da corpi umani sventrati come se fossero state salsicce.
    La sosta davanti alla porta della cella frigorifera, tuttavia, per quanto breve aveva impresso alla perfezione nella memoria fotografica di Lazar il torbido spettacolo di dieci file da dieci corpi appesi, cerei come la neve e rigidi come il ghiaccio, coperti da un sottilissimo strato di brina traslucida sul quale spiccava la cascata di rosso del sangue sgorgato là dove l’uncino aveva perforato la carne. Di tanto in tanto oscillavano come pendoli, con un moto grottesco e aggraziato che Lazar non avrebbe mai dimenticato.
    Era esattamente così che avrebbe voluto vedere ridotto Alexandre De Lacroix.

    “Lasciami. Andare.”
    Sotto la cascata di capelli scuri e impiastricciati di sangue, le sopracciglia del ghoul si aggrottarono sulla linea degli occhi nuovamente fiammeggianti. La pressione sugli arti di Alexandre, fino un attimo prima più morbida, tornò solida e prepotente: impossibile scappare.
    «Non prendo ordini da te, umano
    La voce era sempre la stessa, roca e graffiata dalla sete, ma il tono era profondamente diverso: impositivo, distaccato, ma non crudele. Sì, c’erano indubbiamente tante cose che Alexandre non conosceva di Lazar. Anzi, volendo essere più specifici le cose che Alexandre sapeva erano ben poche: amava i gatti e non rifiutava mai un caffè, studiava moda e voleva diventare stilista, era russo ma innamorato della Francia, sapeva modellare il suo carattere per adescare le prede.
    Lo stallo sarebbe potuto durare in eterno, non fosse stato per un un lontano lamento di sottofondo che giunse con largo anticipo alle orecchie del ghoul: l’inconfondibile sirena delle forze dell’ordine, con ogni probabilità accompagnate dai cani da guardia della CCG… di cui il bastardo sotto di lui faceva parte. Lazar dardeggiò con lo sguardo in direzione della strada. Digrignò i denti, facendo risuonare chiaro il suo disprezzo, quindi tornò a concentrarsi su Alexandre, lasciando finalmente andare il braccio martoriato per tappargli la bocca.
    Ridusse la distanza col suo volto fino a incombere su di lui, in un tentativo di prevaricazione tanto fisico quanto psicologico.
    «Stammi bene a sentire.» ordinò, non senza fatica; non c’era zona del suo corpo che non chiedesse pietà. «Io non morirò qui. Non mi scuserò per quel che ho fatto, non cercherò giustificazioni, non chiederò la tua pietà. Se vuoi denunciarmi, denunciami. Non mi importa più cosa ne sarà di me. Ma finché non salverò mia sorella non esiterò a massacrare qualunque ostacolo sulla mia strada, che sia la CCG, l’esercito o chiunque altro. Te compreso.»
    Un discorso raffazzonato, ma comprensibile. Purtroppo le sue facoltà cognitive non erano al massimo della forma. Finalmente la pressione sul corpo di Alexandre venne meno e Lazar si tirò in piedi con la sensazione di avere un corpo fatto non di carne e ossa, ma di tonnellate d’acciaio. Odiava mostrarsi debole, ma in quel momento il suo orgoglio non era certo la priorità.
    Senza togliersi di dosso l’espressione cinica e carica di diffidenza che era il suo vero volto, con una mano stretta attorno al braccio dolorante Lazar arrancò fino a uno dei morti, il primo che aveva mietuto, e senza tante cerimonie si chinò in avanti, gli piantò un piede sulla schiena e afferrò il braccio destro. Lo rivoltò all’indietro e staccò con la facilità con cui un bambino avrebbe strappato lo stelo di un fiore da terra. Il rivoltante rumore di stoffa, carne e ossa che si spezzavano inondò il vicolo. Sarebbe stato niente più di un misero spuntino, ma non poteva attardarsi in quel posto.

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    Alexandre R. De Lacroix
    «Non prendo ordini da te, umano
    Eh no, sarebbe stato bello, ma utopico.
    Più che prendere ordini da un umano, Alex sperava che sarebbe stato a sentire un amico, ma evidentemente non era quello il caso.
    Evidentemente non lo era mai stato.
    Evidentemente l'unico rapporto che potevano vantare era quello che sussisteva fra un agnellino e il lupo cattivo, dove il secondo era in grado di accusare il primo di qualsiasi cosa, pur di trovare un pretesto per mangiarselo.

    Il disprezzo nelle parole del ghoul gli trapassò il cuore come una lama piantata a freddo nella carne. La sua personale spada di Damocle aveva scelto il momento peggiore per cadergli in testa.
    Il fatto che avesse appena identificato Lazar come la sua spada di Damocle gli avrebbe dato molto su cui riflettere in futuro, ma al momento non riusciva a concentrarsi. Respirava a malapena, si sentiva come una sottile lastra di vetro a cui era stato affidato l'ingrato compito di tenere a bada la pressione di un impetuoso uragano. Incrinata, fragile, ma con il dovere di resistere. Voleva cedere. Voleva urlare. Voleva cedere, urlare, impazzire. Quel senso di distacco nella voce di Lazar mai udito prima lo stava logorando pezzo per pezzo. Avrebbe voluto urlargli di smetterla e tornare il solito Lazar, lo studente di moda con cui parlava di serie televisive e gatti, ma... forse non c'era mai stato nessun solito Lazar. Forse “il solito Lazar” era quel Lazar che gli stava ringhiando contro. Lo stesso Lazar che lo faceva ridere e... per cui lui non era... niente?
    Ma non era ovvio? Ogni singola memoria, ogni singolo flashback, lo riportava alla cupa conversazione avvenuta allo Starbucks di Shibuya e alla faccia stranita del ghoul quando aveva menzionato la CCG.
    Il buon senso c'era stato; ma se ne era rimasto nascosto per paura del senso comune. E ora che si incastravano i pezzi del puzzle, tutto assumeva il macabro e orrido senso che Alexandre aveva fatto finta di non vedere sin dall'inizio.
    Era ovvio che il ghoul lo considerasse una minaccia. Lui lavorava alla CCG, era il nemico dei ghoul per antonomasia. Lui, lo scienziato che non si sforzava nemmeno mai di approfondire l'argomento con la coscienza di non essere ben visto, un ghoul senza ripensamenti che li considerava tutti assassini. Stava andando esattamente come era andata con Julian, ma questa volta non aveva il magico potere dell'affetto a medicare le ferite. Perché erano ferite di cui non sapeva nulla.
    Prese fiato. Voleva dirgli qualcosa, che no si stava sbagliando, lui non gli avrebbe fatto del male, il suo segreto era al sicuro, ma non ci riuscì. Il ghoul gli tappò la bocca con veemenza: Alexandre strinse gli occhi con un sussulto, ricacciando indietro qualsiasi tentativo il suo corpo stesse facendo di piangere e sforzandosi di non sentirsi come un condannato a morte. Il cuore gli martellava in petto, assordante e impazzito. Se era così che si sentivano i condannati a impiccagione prima che il boia gli aprisse la botola sotto i piedi non li invidiava affatto; rimase fermo, immobile, per un tempo eternamente lungo, esposto, fragile, vulnerabile. Delicato come un fiore su una parete di nuda roccia. Nemmeno quando comprese che Lazar non lo avrebbe ucciso si riscosse del tutto da quella paralisi dei sensi.
    E quando i suoi occhi incontrarono di nuovo il cielo plumbeo, e si rese conto di essere libero, una sgradevole sensazione di déjà-vu lo avvolse da capo a piedi.
    Sì, era già successo. Solo che la volta scorsa non era immerso in una pozza di sangue. Pensieri confusi si accavallarono uno dietro l'altro come auto in corsa sul circuito di un primo premio. Sua sorella. Gli investigatori morti. Lazar era un ghoul. Di conseguenza doveva esserlo anche sua sorella. Le doveva essere capitato qualcosa. Ed era finita in quella sfortunata maniera. Un ragionamento semplice, logico, ma ad Alexandre costò ben quindici secondi di respiri profondi e labbra tremanti. Aveva la gola secca. Accompagnato da uno sforzo immenso, tentò di far leva sul braccio sano per alzarsi, ma il rumore della carne che veniva strappata lo costrinse a fermarsi e a ricacciarsi in gola un conato di vomito, mentre gli odori di sangue e putrido si rimestavano fra di loro in una dissonanza di sapori crudi.
    Il suo istinto gli diceva di prendere e scappare, di andarsene il più lontano possibile, ma qualcosa - un sentimento di cui avrebbe volentieri fatto a meno - lo trattenne nel vicolo ancora una volta. Forse fu la brulla consapevolezza di conoscere a menadito le successive azioni di Lazar e l'improvvisa comprensione del motivo per cui era stato lasciato andare.
    Sempre quello. La CCG. Troppo frastornato per udire le sirene, ma ancora in grado di tirare le somme e fare due più due, gli sembrò quasi banale. Scontato, chissà quanto tempo era passato da quando era morto il primo investigatore. Dovevano aver chiamato i rinforzi ben prima di ridursi con l'acqua alla gola.
    Alexandre si rialzò, barcollando prima in ginocchio e poi a tentoni su due gambe. Grondava sangue come uno zombie e il suo equilibrio era precario, non doveva proprio essere una visione celestiale.
    «No.» ansimò, a quel punto. No che non lo sarebbe stato a sentire.
    "No. Heh. Scusa. Veramente io..."
    Alexandre non riusciva mai a dare una risposta sensata e convinta in situazioni critiche. Non era stato fatto per quello. Era un debole, un osservatore, non gli piaceva disturbare lo status quo dei contesti. Ma era stufo. Non ce la faceva più a rimanere a guardare. Aveva la voce rotta e nemmeno lui sapeva con quale forza di volontà si reggeva in piedi. Ma non lo sarebbe stato a sentire se quello era ciò che avrebbe ricevuto in cambio.
    Dove pensava di andare in quello stato?
    All'obitorio del centro di detenzione Cochlea?
    Nell'ultimo disperato tentativo di levarsi da quella situazione, fece una cosa che non si sarebbe mai aspettato: tirò una testata a Lazar. Sì, così. Tanto per rovinare il pathos.
    Mosse due passi decisi verso il ghoul e afferrò la metà esterna dell'arto che il ghoul aveva appena strappato al suo legittimo proprietario: le sue dita si serrarono attorno alla carne molliccia e Alex ebbe bisogno di ringraziare qualunque divinità ci fosse in cielo per avergli donato uno stomaco forte. E mentre si diceva che schifo chissà come si faceva a mangiare quella roba, lo strattonò verso il basso (ormai aveva imparato il trucco) e tirò una capocciata sulla fronte del ghoul, fissando gli occhi verdi sul viso stanco dell'altro. Si fece male? Ovvio che sì, ma si morse la lingua e sopportò.
    «Si da il caso che a me importi. E non credo di essere l'unico. — ringhiò, con voce bassa, ben consapevole che non poteva permettersi di urlare ai quattro venti. Era un sussurro rabbioso, nemmeno sapeva da dove lo stava tirando fuori, ma aveva finito le opzioni. — Non ho intenzione di vedere un'altra persona a cui tengo rovinarsi e morire perché sono rimasto a guardare.
    Lo capisci, vero? Che se fai un passo fuori da questo vicolo in questo stato sei un uomo morto. Non so cosa sia successo fra te e tua sorella, ma se non sono loro,
    - la sua mano sollevò appena l'arto reciso che stringevano entrambi, lasciando che il sangue gocciolasse sull'asfalto come pioggia, - saranno i prossimi. Se non vuoi che il tuo cadavere sia sul mio tavolo da lavoro domani mattina, l'unico posto in cui andrai adesso sarà a nasconderti e ad aspettare che questo casino si sia risolto!»
    Fattuale: il casino lo aveva probabilmente creato Lazar stesso, Alexandre ne era perfettamente convinto, ma già stava camminando sulle uova, non credeva che ricordarglielo e calpestare la sua psiche già distrutta fosse il modo giusto per ricordargli che poteva aspettare un altro po' a gettarsi nella fossa dei leoni.
    Là fuori esistevano investigatori spietati. Non credeva nemmeno di aver bisogno di spiegargli altro: quando arrivava una richiesta di soccorso di simile livello gli investigatori disponibili sul territorio venivano non troppo gentilmente invitati a convergere verso il luogo del delitto e si formava uno stallo. Si cercava di tenere duro e impedire al ghoul di scappare fino a che non arrivava un numero sufficiente per sopraffarlo. Il che significava che in quell'esatto istante, in direzione di quello specifico isolato di Minato, c'erano orde di dipendenti della CCG con decine di quinque spiegate e altrettanti cecchini pronti a far fuoco al primo movimento sospetto fosse apparso oltre l'orlo dei palazzi. Ridotto in quello stato il posto più vicino che Lazar avrebbe potuto raggiungere era una cella del centro di detenzione Cochlea se era fortunato. Se era fortunato e il suo rank era abbastanza alto da convincere l'investigatore che lo avrebbe preso a non sopprimerlo sul momento perché aveva una kagune abbastanza bella che valeva la pena provare a farci una quinque. Insomma, le solite chiacchiere da thè per gli investigatori ai piani alti, Alex le aveva sentite un mucchio di volte, in Francia, alle cene di lavoro di suo padre.


    Gli occhi di Lazar gli ricordavano il mare; forse era per quello che ad Alexandre piacevano tanto, anche se lo guardava così. In fondo, l'unica cosa che Alex aveva amato più del mare era stata Julian, e quello che gli tornava alla mente a guardarli era poco più di un eco lontano. Qualcosa che assomigliava al lamento disperato di una vedova che si alza e si perde sulle onde, trascinandosi nel vento lontano.
    Lamenti /i suoi/ che straziavano l'aria con acuta sofferenza e che non voleva rivivere, per nessun motivo al mondo.

    “—Per favore…
    “—Fammi andare alla sua tomba... Fammelo vedere un'altra volta…
    “—Ti scongiuro, papà…
    “—L'ultima... Per favore... fammi vedere l'ultima volta la persona che amo…


    Alex non aveva mai visto il corpo di Julian dopo la sua morte. Glielo avevano portato via e giustamente impedito, perché suo padre lo aveva coperto per non far avere ripercussioni al neo-investigatore ad un passo dal diploma, che conviveva segretamente con un ghoul. Sarebbe stato patetico vederlo disperarsi e chiedere una tomba per un essere che non aveva diritto nemmeno di vivere, no? A nulla erano valse le sue preghiere, le sue richieste disperate: tutto ciò che aveva ricevuto era stata la porta di uno studio chiusa in faccia.


    Le lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi ancora prima che se ne accorgesse, cariche di ricordi, passato e ferite mai risanate.
    Era egoista, uno stupido egoista che voleva soltanto - per una volta - stare bene e non sentirsi sopraffatto dai sensi di colpa. Lazar non era nessuno per lui. A rigor di logica sarebbe dovuto essere così. Alexandre non sapeva niente di lui, eppure... a vederlo ridotto in quello stato gli scoppiava il cuore.
    «...cazzo.» gli sfuggì un imprecazione a fior di labbra. Perché gli doveva venire in mente ora? In realtà lo sapeva perché gli era venuto in mente. E si odiava per questo. Lazar aveva scosso la sua vita. E lui si era affezionato a quella maschera, e a qualunque cosa ci fosse sotto, come un perfetto idiota.
    Le sue dita mollarono ciò che rimaneva del cadavere e si sollevarono appena verso la sua guancia. Voleva toccarlo. Abbracciarlo, forse. Ma non sentiva di averne il diritto, per questo rinunciò, e la sua mano sporca di sangue si strinse a pugno sulla maglietta lacera del ghoul, al lato opposto del cuore. Voleva inconsciamente impedirgli di andarsene, ma sapeva di non avere tale potere. Non riuscì più a tenersi in piedi: la sua fronte scivolò sulla spalla di Lazar, depositandovi un mezzo singhiozzo, poi il suo palmo si aperse e lo spinse via.
    «Stupido.» rantolò, ormai succube delle lacrime, e si voltò. Non fece in tempo a fare due passi. Crollò in terra, sotto il peso delle aspettative e lì rimase, a singhiozzare sommessamente.
    La sensazione di umido del sangue sparso nel vicolo gli mezzò i pantaloni, sporcandoli di rosso, ma se ne infischiò. Sarebbe voluto rimanere lì per sempre, aspettando l'incudine che ad un certo punto sarebbe magicamente scesa dal cielo a schiacciarlo, ma la situazione era pessima per compatirsi. Non aveva tempo. Contò fino a tre, si sfregò gli occhi e poi si diede un tono. Una specie.
    «...Dall'altro lato della strada, terzo palazzo, ultimo piano. C'è... casa mia. Sul balcone c'è una rete, per il gatto, ma... la finestra è aperta. Se... hai bisogno di un posto dove riposarti. D-Dirò loro che sei fuggito verso Shinjuku.» rantolò, con il cuore in gola i singhiozzi uno dietro l'altro. Stava versando più lacrime di quante ne possedesse.
    Mormorate quelle parole cominciò a tastare a terra, alla ricerca delle cuffie che aveva perso prima. La coda era praticamente sfatta, i capelli gli finivano sugli occhi, le lacrime gli appannavano la vista e il sangue gli appiccicava le dita, ma non poteva fare altro che approfittarsi dei morti nel modo più meschino possibile.
    L'asfalto era sporco e lui era la vittima. Non poteva più allontanarsi dal vicolo. Avrebbe aspettato i soccorsi e si sarebbe inventato qualcosa. Non aveva una kagune e non poteva saltare sui tetti come facevano i ghoul, se si fosse mosso da lì avrebbe lasciato troppe tracce in giro. Li avrebbe aspettati e li avrebbe mandati via.
    Gli bastava solo che Lazar non facesse cazzate.
    Era stanco. Stanco di tutto.
    Anche del sé stesso che non ce la faceva a non farsi importare degli altri.
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    “No.”
    Il ghoul si voltò molto lentamente, il profilo del volto reso ancor più ferino dalle ombre ispessite dalla debole luce soffusa. Se quello fosse stato un film, Lazar sarebbe stato il pazzo maniaco in procinto di aggredire un povero passante. Se quello fosse stato un documentario, Lazar sarebbe stato un predatore un attimo prima di sparire dal focus della telecamera per riapparire con le fauci spalancate su un arto della preda. Un equilibrio precario tra uomo e animale che sembrava propendere sempre più per la seconda categoria.
    «… No?» ripeté con voce riarsa, come invitando l’umano a ripetere cosa aveva appena detto.
    Continuare a tenergli testa, a sfidare la sua indiscussa superiorità, poteva rivelarsi una pessima idea. Ma Alexandre doveva essere specializzato nello zittire quel briciolo di buonsenso che la natura gli aveva donato, e col corpo tremolante si era erto in piedi come a rimarcare la sua determinazione: non importava quanto Lazar fosse minaccioso, lui non gli avrebbe dato retta.
    Hm, patetico.
    Era solo un umano, e gli umani non armati di pezzi di ghoul erano fragili come il cristallo. Lazar non avrebbe neanche avuto bisogno di sfiorarlo per farne polvere. Alexandre avrebbe dovuto ringraziarlo di non averlo già fatto a pezzi, ma evidentemente neanche i due cadaveri smembrati in mezzo a cui stava arrancando riuscivano a mettergli in moto il cervello.
    Idiota, non poteva essere altro che un idiota.
    Lo lasciò libero di avanzare verso di lui finché avesse voluto, per ammirare meglio le sue sciocche illusioni di amicizia scontrarsi col muro della realtà e fare la fine che meritavano: frantumarsi violentemente. Non avrebbe però inferito con sorrisi crudeli o parole insensibili, non si stava affatto divertendo a ricoprire il ruolo che gli era stato cucito addosso sin dalla nascita. Se Alexandre si aspettava di vederlo arretrare o, peggio, mostrare segni di cedimento o rimorso, Lazar gli avrebbe invece scagliato contro uno sguardo glaciale quanto il luogo in cui era nato.
    La forza con cui il ghoul stringeva il braccio strappato al cadavere aumentò, fratturando l’osso con un suono sinistro che inondò il vicolo, segno della sua crescente irritazione.
    Ma fu allora che, di tutte le cose che Alexandre avrebbe potuto fare, fece l’unica che il ghoul non avrebbe potuto prevedere in alcun modo: afferrò il braccio penzolante e lo strattonò verso il basso, costringendo Lazar a sbilanciarsi in avanti, avvicinarsi a lui e… gli assestò una testata. Una sonora testata. Che in realtà al ghoul fece praticamente il solletico, ma non era questo il punto.
    Gli occhi chiari di Lazar si spalancarono e riempirono di sorpresa, quella sincera e quasi innocente sorpresa che era l’ultima cosa che ci si sarebbe aspettati di vedere sul volto di un ghoul infuriato. Per un breve momento Alexandre avrebbe avuto uno scorcio del ragazzo genuino con cui parlava di gatti e serie TV.
    «Что за хуйня?!» era sempre il momento giusto per un signorile ma che cazzo? «Ma allora sei davvero creti─!» sbottò, ma il fiume di parole del francese fu più rapido a sommergerlo.
    Dire che la bocca dell’umano non avesse pronunciato solo sacrosanta verità sarebbe stato mentire. Era vero che a qualcuno importava ancora di lui: la sua famiglia, Viktoriya, Kohaku, Seiji… e persino quell’incosciente, sembrava, sebbene la sua mente cinica continuasse a ripetergli che era tutta una farsa, che Alexandre avrebbe venduto lui e Ninel’ alla CCG alla prima occasione. Era vero che senza un piano ben congegnato sarebbe finito nelle grinfie degli Investigatori prima dell’alba. Era vero che necessitava disperatamente di riposo. C’era solo una cosa che non tornava…
    «Questo casino non si risolverà da solo, e lo sai benissimo.» ribatté, graffiante.
    Un ghoul capace di fare a pezzi due Investigatori e ridurre in quel modo un passante innocente non era un casino risolvibile con la facilità prospettata da Alexandre. Sarebbe stato costretto a nascondersi per giorni, in attesa che le acque si calmassero. Che ne sarebbe stato allora di Ninel’? Che ne sarebbe stato della sua famiglia?
    Pensieri che si scontrarono con una realtà che assumeva forme sempre più incomprensibili per Lazar, e queste forme erano incarnate nell’atteggiamento enigmatico di Alexandre, che dopo aver cominciato a piangere si era appoggiato alla sua spalla per poi spingerlo via. Ancora una volta, la già scarsa forza fisica di un umano debilitato dalle ferite ebbe lo stesso effetto di un refolo di vento contro la solidità di una montagna, ma Lazar, già profondamente scosso, a questo punto si ritrovò a corto di parole: era troppo stanco per cercare i significati nascosti nei gesti di Alexandre. Si reggeva a stento in piedi, ancor più a stento tratteneva i morsi della fame che gli urlava di dare un senso ai residui di vita di quel patetico umano trasformandolo in nutrimento.
    Inconsapevolmente mosse un passo indietro.
    Quando se ne accorse si sentì travolgere dalla vergogna.
    Dio, non sarebbe mai stato abbastanza.
    Non disse una parola di più, ma memorizzò le informazioni sull’appartamento. Era una trappola, ne era sicuro. Ma ci avrebbe comunque provato perché, in fin dei conti, non aveva una cazzo di scelta. Si defilò in silenzio, col passo felpato dei cacciatori, abbandonando senza ripensamenti l’umano al suo destino.

    «Parlato.»
    «Pensato.»
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    Alexandre R. De Lacroix
    Alexandre riuscì a mettere di nuovo piede in casa soltanto un'ora e ventidue minuti più tardi.

    Rimase in stato catatonico per un tempo che non seppe distinguere. Le ginocchia piegate sull'asfalto rosso, le macchie indelebili di sangue sul viso a malapena lavate via dalle lacrime e il respiro spezzato dai singhiozzi. Arrancò solo verso la quinque-fucile, afferrandola come se da essa fosse dipesa la sua vita - perché se doveva giocare la parte della vittima se la doveva giocare fino in fondo -, ma non toccò nient'altro. I soccorritori della CCG lo trovarono così: confuso, sporco e tremante.
    Alex si rese conto del loro arrivo soltanto quando una voce allarmata gli s'insinuò nell'orecchio gridando qualcosa in una lingua che d'istinto non riconobbe, e catalogò come giapponese dopo uno sforzo che gli costò diversi reboot del cervello.
    Non era mai stato un bravo attore, spesso era fin troppo espressivo affinché sul viso non gli si leggessero pari pari i pensieri che gli annebbiavano la mente, ma in quell'occasione non ebbe bisogno di recitare più di tanto. Confuso era confuso, sporco era sporco e spaventato anche. Si ritrovò seduto sulla portantina di un'ambulanza quasi senza capire come, il braccio fasciato e appeso al collo, niente più fucile fra le mani, e non poté far altro che osservare passivamente l'area che veniva recintata e il successivo formarsi del caos che segue sempre una scena del crimine. Almeno fin quando... «...Va tutto bene?»
    No. No che non andava tutto bene. Aveva appena scoperto che il ragazzo che gli piaceva era un ghoul. Di nuovo. La storia amava ripetersi ciclicamente, ma quello non era ripetersi era prenderlo in giro. E non solo. Era un ghoul che aveva provato a farlo fuori non una, ma ben DUE volte. E chissà quante altre, probabilmente ad ogni loro appuntamento non aveva fatto altro che macchinare piani malefici con il quale ucciderlo e lui che aveva fatto? Aveva provato a salvargli la vita. Ovviamente. Perché quello era il destino degli sciocchi.
    Come si poteva essere così ottusi? Così stupidi? Così... e basta.
    Alexandre sollevò lo sguardo e si specchiò negli occhi scuri di una ragazza che non doveva avere più di ventidue-ventitré anni. Era giovane, un'investigatrice dall'aria familiare. Era la stessa che lo aveva aiutato a rialzarsi e che gli aveva portato via la quinque pochi minuti fa, prima di lasciarlo fra le mani capaci degli infermieri. Himari, forse? Il ricercatore avrebbe voluto urlarle in faccia tutti quei pensieri, ma la sua domanda gli bucò il cuore. Realizzò da quanto qualcuno non gli chiedesse se "andava tutto bene" e gli venne da essere gentile.

    [...]

    Quella tra umani e ghoul era certo una convivenza strana. Più strana di quella c'era solo la convivenza fra umani membri della CCG. Secondo una bizzarra legge non scritta, dopotutto, si è sempre più buoni con i propri compagni d'arme che tornano dalla guerra.
    «È sicuro che non vuole la accompagni di sopra?»
    Una preoccupata e premurosa voce femminile stuzzicò l'anima ferita di Alexandre, che si ritrovò ad incurvare appena le labbra in un sorriso tenero.
    «Grazie, Himari-san. – rispose, scuotendo lentamente il viso. – Ce la faccio, immagino di essere... un po' frastornato, ma sto bene. E non vorrei distrarti troppo dal tuo lavoro.» Alla fine ci aveva preso, si chiamava davvero Himari. La giovane annuì, comprensiva, e Alex si fece sfuggire un sospiro quieto. Aveva davvero apprezzato la sua gentilezza, ma la cosa di cui aveva più bisogno al momento era di stare solo e riposarsi. Una volta finito di raccogliere la sua testimonianza e appreso che abitasse davvero nel palazzo di fronte, l'investigatrice si era offerta di accompagnarlo fino al portone del condominio e lui aveva accettato di buon grado. Parlare con lei gli aveva fatto bene a districare la confusione che gli aleggiava in testa e aveva capito come mai le era sembrata familiare: Himari si ricordava di lui; non c'era stato nemmeno bisogno che finisse di dire che "lavorava nella divisione laboratori" perché lei gli confermasse che lo sapeva perché due settimane prima le aveva offerto un caffè. Ovviamente Alexandre non se lo ricordava affatto, ma era normale, a volte usciva da lavoro con il cervello più fuso di un cioccolatino nel microonde e incontrava decisamente troppi investigatori per ricordarseli tutti, ma aveva ringraziato la sua buona stella e la ragazza per essersi ricordato di lui perché... ne aveva avuto bisogno, che le cose fossero facili, per una volta. In verità, qualcuno degli infermieri aveva insistito che venisse ricoverato in ospedale almeno per la notte, ma il francese aveva detto di star bene così, se la sarebbe cavata con un po' di riposo, voleva davvero andare a casa, farsi una doccia e togliersi di dosso quelle sensazioni orribili, abitava letteralmente lì, dall'altro lato della strada. Come aveva già detto a Himari, la sua vita di ritorno dal konbini aveva rischiato di trasformarsi in una tragedia persino per lui e si sentiva stordito, ma stava bene! Davvero! Il ghoul che lo aveva attaccato era già stato pesantemente ferito dagli altri investigatori e non aveva avuto le forze per finire anche lui, che aveva fatto del suo meglio per difendersi con una delle quinque. Gli aveva fatto male al braccio, ma udite le sirene della CCG, aveva preferito staccare un arto ad una delle vittime e fuggire in direzione di Shinjuku. E in qualche modo era riuscito a scansare il ricovero in favore di almeno cinque giorni di riposo assoluto: il braccio non era rotto, era slogato, indi per cui ghiaccio, bende, antidolorifici e poteva sognarsi la piscina per almeno quattro settimane. In sintesi, Alexandre era demoralizzato principalmente per questo.
    Nella sfiga, l'unico modo per vederci qualcosa di positivo era l'essersi guadagnati un paio di giorni di "ferie" pagate così a gratis.
    «Signor De Lacroix! – Già con le chiavi nella mano dell'unico braccio buono, stranito dal sentirsi chiamare, il ricercatore si riscosse e si voltò. L'aveva appena salutata, ma Himari era ancora lì che lo fissava da due scalini più in basso. – Sono molto contenta che lei sia vivo.»
    Il suo viso di contorse in una smorfia sorpresa, ma inteso da dove venisse quella strana affermazione le sorrise, indulgente. Già, dover trovare due colleghi morti in un secondario vicolo di Minato non doveva essere un bel colpo per una ragazza di forse appena vent'anni... il fatto che lui fosse riuscito a sfuggire alla cieca follia di un assassino era una consolazione. Una magra consolazione, ma pur sempre una.
    «Anche io. Grazie.» Ironia della sorte: non pensava che si sarebbe mai ritrovato a ringraziare di essere vivo. La vita era proprio strana. La ragazza ricambiò il sorriso e Alex decise di dedicarle ancora qualche parola per... incoraggiarla? Non lo sapeva, ma sapeva che per i giapponesi quelle cose erano importanti e... un po' faceva ancora parte del suo ruolo di vittima.
    «Sa, anche io una volta avevo iniziato la sua stessa carriera.»
    Gli occhi nocciola della giovane si dilatarono per la sorpresa, e capì d'averci preso. «Oh. E come mai ha... smesso?»
    «Ho avuto paura.»
    Ci fu qualche attimo di silenzio, poi il volto interrogativo dell'investigatrice parve illuminarsi: era un complimento! «Ah, uhm, sì! In effetti ci vuole molto coraggio per affrontarli.» borbottò, senza riuscire a nascondere una punta di orgoglio sulle guance rosee.
    Alexandre annuì.
    Ovviamente intendeva che aveva avuto paura di ucciderli, ma era una sottigliezza che non capivano tutti, e andava bene così.
    «Allora, vado. Credo che rimarremo in zona tutta la notte, quindi se ha bisogno mi chiami pure con il numero che le ho lasciato. Nel caso il ghoul tornasse a cercarla.»
    Certo. Non si poteva mai sapere.
    «Grazie ancora, Himari-san.»
    La giovane si congedò con un inchino e gli augurò la buonanotte. Alexandre fece altrettanto, pur non sapendo chi dei due avrebbe passato la peggiore, e poi si chiuse la porta del condominio alle spalle.
    Prese l'ascensore, perché le sue gambe a malapena lo tenevano in piedi, e una volta davanti alla soglia dell'ultimo piano, prese le chiavi e le girò nella toppa.
    Non fece nemmeno in tempo a socchiudere la porta che un familiare miagolio gli giunse alle orecchie, mentre la luce del pianerottolo inondava di un flebile chiarore l'ingresso alla giapponese dell'appartamento.
    «Julian...» fece Alex, e si sentì un infame, perché pensando di tornare presto gli aveva lasciato meno croccantini del solito. Il gatto gli giunse vicino, ma poco dopo soffiò, probabilmente sentendo l'odore del sangue sui suoi vestiti, e Alexandre lo vide saettare via verso la camera. Ora non poteva proprio prenderlo in braccio. Si fece sfuggire un sospiro con aria ancora più colpevole e, richiudendosi la porta alle spalle, fece sparire dietro di essa tutta la luce che era rimasta. Le sue dita corsero rapide all'interruttore della stanza, ma quando ci furono sopra... esitarono.
    Improvvisamente una morsa di terrore gli strinse lo stomaco. Come se avesse paura di scoprire la verità. Scoprire che l'appartamento fosse vuoto.
    «Lazar...?»
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Fidarsi era una delle cose che Lazar trovava più difficili.
    Era cresciuto guardandosi le spalle da uno dei due uomini che avrebbero dovuto incarnare l’ideale di sicurezza e protezione, col cervello saturo di moniti contro il mondo esterno, aspettative di persone che non voleva deludere e obblighi che gli avevano strappato di mano la sua bussola morale, modellandolo in un giovane uomo in cui non sempre si rispecchiava.
    Lazar era stanco, stanco dentro e fuori, e aveva freddo.
    Un russo che sente freddo ad aprile in Giappone.
    Buttò fuori lo sbuffo di una risata amara: «Patetico.»
    Nascosto nel buio dei dintorni, aveva consumato in fretta il braccio dell’Investigatore caduto e occultato i resti, ovvero l’osso insanguinato. Con un po’ di fortuna ci avrebbe pensato il mare a cancellare le prove. Non aveva onorato una delle regole dei Khabarov, ma al diavolo: non era il luogo né il momento per le sottigliezze. Non sapeva neanche se avrebbe rivisto il cielo tingersi dei colori dell’alba e… non gli importava. La consapevolezza che non gli importasse avrebbe dovuto preoccuparlo, e invece generava in lui solo altra sterilità. Desiderava unicamente stendersi e piangere fino ad addormentarsi, oppure lanciarsi in un folle inseguimento di Ninel’ che, come aveva detto Alexandre, si sarebbe di certo trasformato nel suo epitaffio.
    Naturalmente aveva ancora lo stomaco mezzo vuoto, quel braccio non era che uno spuntino utile a lenire i morsi della fame. Ma doveva accontentarsi, non avrebbe potuto permettersi più di tanto con le orde di Investigatori in quegli stessi minuti mobilitati verso Minato.
    Il fischio delle sirene delle ambulanze fu il sottofondo del suo claudicante e sofferto procedere verso un luogo che non pensava avrebbe mai visitato in circostanze simili. Ogni movimento causava un dolore così diffuso da avergli fatto perdere la cognizione della posizione e dello stato di ogni ferita; con ogni probabilità avrebbe impiegato tutta la notte e non solo a rimettersi in sesto.
    Terzo palazzo, ultimo piano, la finestra aperta.
    L’umano più stupido di Tokyo aveva offerto il proprio appartamento come rifugio di emergenza a un mostro e il mostro aveva paura di entrarci.

    Arrampicarsi fino all’ultimo piano di un palazzo non era mai stato difficile per Lazar, neanche prima che la sua rinkaku fosse del tutto formata e affidabile. Quelle scalate avevano sempre divertito lui e inorgoglito i parenti, tra chi lo definiva iperattivo e chi un talento naturale. Adesso invece era estenuante e doloroso, ogni metro tirava i muscoli delle braccia come se avesse voluto strapparle via, una punizione più che adeguata per i peccati di quella notte.
    Come anticipato da Alexandre, il balcone era off-limits a causa della rete. Lazar fece anche troppa attenzione a evitarla, come se la sua sola presenza avesse potuto rovinarla. Non voleva far scappare il gatto di Alexandre… Julian, se ricordava bene. Non voleva far scappare Julian. Non voleva causare altri problemi, altra sofferenza.
    Una volta scivolato attraverso la finestra si lasciò cadere pesantemente sul pavimento, accorgendosi solo allora di aver dato fondo alle sue energie. L’oscurità quasi totale dell’appartamento non celò il fruscio inconfondibile di zampette sulle mattonelle, doveva aver spaventato il gatto.
    «Scusa, Julian…» biascicò con un filo di voce il ghoul.
    Nell’abbraccio consolatorio del buio e della solitudine, dove nessuno l’avrebbe visto e giudicato per la sua debolezza, Lazar poté finalmente fare ciò che desiderava: rannicchiarsi contro il muro e piangere.

    [...]

    Un’ora più tardi, il suono di passi lungo il corridoio e il successivo scatto della serratura costrinsero Lazar a riemergere dall’assopimento. Aveva davvero pianto fino ad addormentarsi, e adesso oltre che stanco si sentiva anche intontito. Una vera fortuna, perché altrimenti realizzare che Alexandre era rincasato l’avrebbe fatto scappare per la paura di scorgere alle sue spalle orde di Investigatori.
    Il ricercatore ebbe invece tutto il tempo di entrare, farsi odiare dal gatto rimasto a secco di cibo e indugiare col dito sull’interruttore, mentre il ghoul sollevava la testa dalle braccia incrociate sulle ginocchia e si schiariva la vista sbattendo le palpebre.
    “Lazar…?”
    Colto alla sprovvista, Lazar rispose con la dolce spontaneità per cui era conosciuto. «Non volevo sporcare…» e così era rimasto proprio sotto la finestra, col volto pallido, gli occhi ancora rossi e capelli e vestiti imbrattati di sangue.
    Niente di troppo diverso da un qualunque randagio che Alexandre avrebbe potuto portare a casa.

    «Parlato.»
    «Pensato.»
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    Alexandre R. De Lacroix
    «Lazar!»
    Se qualcuno avesse detto al sé stesso del passato che un giorno avrebbe di nuovo tirato fuori quel tono di voce, Alexandre non ci avrebbe creduto. Perché, insomma, aveva già raggiunto il punto più basso della sua vita e non si poteva mica andare oltre, no? E invece eccolo lì, a rivivere la stessa scena come in loop, a soffocare in un nome emozioni che neanche credeva più di avere. Ovviamente. Ovviamente, doveva essere rimasto sotto la finestra. Quella stramaledetta finestra sporca di sangue. E non poteva nemmeno fargliene una colpa, capace fosse stato così sfinito da essere appena riuscito a muoversi, ma era sempre la finestra.
    Almeno, questa volta, non c'era alcun investigatore a separarlo dalla persona che doveva raggiungere.
    In pochi avrebbero potuto discernere la valanga di emozioni che si ritrovarono ad annidarsi in una semplice esclamazione che prese la forma di un sussurro sofferto ancor prima di abbandonare la bocca di chi l'aveva pronunciata.
    Sicuro di aver socchiuso gli occhi nella sua esitazione, Alex si trovò a sgranare le palpebre non appena le luci soffuse dell'ingresso inondarono l'appartamento. Ecco cosa succedeva a fare il passo più lungo della gamba. Avrebbe voluto smettere di ritrovarsi a fare quei paragoni, ma era come una droga: non ci riusciva. Le scene si sostituivano da sole, come glitch e messaggi subliminali in un videogioco, e lui non riusciva a fare altro che osservare, passivo, e chiedersi perché improvvisamente gli facesse male il cuore. Ci mise un istante a tornare a pensare nitidamente, e dovette fare appello a tutto il suo contegno di persona assolutamente non preoccupata per non fiondarsi di getto verso il ghoul non appena lo vide, lì, rannicchiato sotto la finestra, lo sguardo perso e arrossato di chi si è addormentato piangendo.
    Ci si fiondò comunque, ma non di getto. E fu solo quando gli arrivò davanti, per la prima volta più alto di lui, che si rese conto di non saper cosa fare.
    "Non volevo sporcare."
    Non voleva sporcare, aveva detto.
    Alexandre lasciò vagare lo sguardo sul pavimento e sulle piastrelle della cucina - perché sì, Lazar era finito sotto la finestra della cucina -, e poi sui propri vestiti, ancora sporchi di sangue. Non era nel pietoso stato precedente, si era pulito il viso, un po' i capelli e aveva un braccio fasciato, ma finiva lì. Sul suo volto si dipinse una smorfia contrariata. «Avresti dovuto preoccupartene prima, non credi?» disse, come se stesse rispondendo ad una presa in giro, ma nella sua voce non c'era cattiveria, solo dirompente stanchezza e... sollievo. Per quanto volesse darsi una parvenza di serietà, nei suoi occhi rimaneva imperterrita quella pazienza infinita che non abbandonava mai le iridi verdi del ricercatore. Vista la situazione, non gli pareva il caso di farne un dramma; non c'era niente che fosse impossibile da pulire, nemmeno la propria reputazione, figurarsi qualche macchia di sangue.
    Sangue, vestiti laceri, lacrime e altro sangue. Era tutto così assurdo. Sotto la tenue e calda illuminazione gettata da alcuni faretti opachi posti in vari punti del soffitto, scemava persino l'assurda normalità dell'appartamento di Alexandre, forse anche troppo grande per una persona che viveva da sola con un gatto. La cucina in cui era capitato il ghoul si trovava nello stesso vano del salotto, separata appena dai mobili e da una striscia di parquet che da pulire doveva essere infernale. Sul fondo, oltre la porta d'ingresso dalla quale il francese aveva fatto ingresso, c'era un corridoio che portava con ogni probabilità alla camera da letto. L'influenza occidentale era palpabile, ma non era nulla di speciale, le uniche due cose che potevano saltare all'occhio erano il grosso televisore che si trovava di fronte al divano e una sottile cornice nera con una stampa dell'Albero della Vita di Gustav Klimt appesa al muro dietro di esso. Da quel lato si trovava anche il famoso balcone, dietro una porta a vetri che occupava metà dell'intera parete e ora in parte oscurata da una leggera tenda color panna. Alex lanciò uno sguardo in quella direzione quasi d'istinto, ma no, la rete era intatta. Si ricordava quando ce l'aveva messa. Poco dopo che Julian aveva avuto la bella idea di saltare sui terrazzi dei vicini del piano di sotto e per poi finire a farsi un giro a Shinagawa; a riportarglielo era stato quel giovane di nome Kiyoshi... vabbè, non era importante adesso. Lazar sembrava addirittura esserci stato attento. Un sospiro.
    Lentamente, tornò a guardare il suo nuovo gatto randagio.
    «Quindi... sei un ghoul.» mormorò, la stessa aria mesta di chi sta cercando di fare i conti con i propri demoni. Signori, 007.
    Sì, ok. Per quanto fosse ovvio, aveva ancora parecchio da processare. Chiaramente non rappresentava un problema. Capiva perché non glielo avesse detto. Ci era già passato. Insomma, non stava più studiando per diventare investigatore, ma a conti fatti era sempre della CCG. E ammetterlo era fondamentale, nemmeno lui sarebbe andato a mettere piede in un safari di leoni affamati per poi scendere dalla jeep.
    Scosse la testa. Quantomeno, sembrava essersi calmato. Il che voleva dire che ora arrivava la parte difficile. Farsi raccontare cosa era successo. E, prima, una cosa fondamentale. Alexandre piegò il ginocchio che faceva meno male e si chinò alla sinistra di Lazar - inspirando piano, perché era un po' un catorcio pure lui. «Mi faresti dare uno sguardo alle tue ferite? Per favore.»
    Non poteva offrirgli niente da mangiare, ma - forse - qualcosa poteva farlo.
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    Ricercatore CCG


    Non è ovviamente proprio così, ma puoi immaginare casa De Lacroix su questo stile.
     
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Il tempo sembrò dilatarsi in un battito di ciglia, probabilmente a causa dello sfinimento di cui non si sarebbe liberato assopendosi qualche minuto per aver oltrepassato il limite della sua resistenza.
    La luce esplose nell’appartamento come un fulmine a ciel sereno, bruciando gli occhi sensibili e abituati al buio del ghoul. Lazar li socchiuse istintivamente, lasciandosi scappare un mugugno contrariato e flebile, niente più di un soffio che faticò anche solo a risalire la gola. Razionalmente sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma la sua mente annebbiata faticava a carburare. Riemergere dall’intontimento si stava rivelando più ostico che mai, e dire che c’erano stati momenti in cui la morte l’aveva sfiorata ben più da vicino di così.
    Le ferite del corpo avevano già cominciato a rimarginarsi, erano quelle della mente a rallentare i suoi movimenti, a intorpidire i ragionamenti e farlo reagire all’accensione di un paio di lampadari come se fossero stati gli ennesimi proiettili da sopportare stringendo i denti. E Lazar strinse i denti, con l’atroce dubbio di star di nuovo sbagliando tutto a pizzicargli la pelle e farlo rabbrividire per il freddo.
    Avrebbe dovuto ignorare il monito di Alexandre. Sarebbe dovuto tornare a casa a sincerarsi delle condizioni di Viktoriya o, in alternativa, all’inseguimento di Ninel’, sebbene questo implicasse correre enormi rischi. Perché quello era il suo ruolo. Era per quello che l’avevano messo al mondo. Avrebbe dovuto fare qualunque altra cosa utile alla famiglia, non rannicchiarsi come un bambino spaurito nella cucina sconosciuta di un umano che non era riuscito a uccidere un’infinità di volte.
    Era così vergognoso, così inadeguato.
    “Avresti dovuto preoccupartene prima, non credi?”
    C’erano così tante cose di cui avrebbe dovuto preoccuparsi, così tante che Alexandre neanche immaginava.
    Gli occhi cristallini e arrossati del ghoul seguirono il profilo delle fughe delle mattonelle, ancora troppo doloranti per fronteggiare la luce.
    «Mi dispiace…» fu tutto ciò che riuscì a dire, la voce graffiata e roca ben lontana dallo squillo melodioso che era di solito.
    Almeno di quello si dispiaceva davvero: non era stata sua intenzione imbrattare di sangue l’appartamento di Alexandre, ma era lurido, ridotto a un colabrodo e a stento capace di muoversi. Se non avesse implicato spostare la rete e creare una via di fuga a Julian, sarebbe rimasto sul balcone anche a costo di doversi nascondere dagli elicotteri della CCG. Alla fine, in un modo o nell’altro di problemi ne aveva creati comunque. Come con Ninel’. E ancora prima quando aveva coinvolto Milo nelle indagini sui Kiriyama, facendo infuriare Viktoriya. Creare problemi doveva essere diventata la sua specialità.
    Alexandre si inginocchiò davanti a lui, gesto a cui Lazar rispose levando gli occhi dal pavimento per incontrare il suo sguardo.
    Il ricercatore non era messo meglio di lui, non solo per il braccio fasciato e il colorito cereo. Il suo cervello poteva essere in tilt, ma l’empatia rimaneva una delle sue caratteristiche fondamentali e non faticava a riconoscere una persona profondamente turbata. Sebbene avesse pronunciato quel segreto come se fosse stata la più innocua delle informazioni, al pari di una qualunque data su un libro di storia, Alexandre sembrava ferito da quella rivelazione ben oltre il comprensibile. Lazar non poteva né voleva immaginare il motivo, non in un momento in cui il mondo intero era terrificante.
    «No…» il suo era stato poco più di un sussurro, seguito da un irrigidirsi delle braccia e un incurvarsi delle spalle che urlavano chiusura. «Non potresti comunque farci niente.»
    I rimedi tradizionali avevano ben poco effetto sui ghoul e Alexandre doveva saperlo bene, probabilmente meglio di lui. Inoltre non si fidava abbastanza da farsi mettere le mani addosso, fosse stato anche solo per controllare che avesse tutti gli arti ancora attaccati.

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    Alexandre R. De Lacroix
    Colpito e affondato. Fortuna che Alexandre era un sub, non una barca.
    Poteva inabissarsi un po' e sopravvivere lo stesso. Forse. Il ricercatore si prese il labbro inferiore fra i denti e chinò lo sguardo, ferito ma conscio che il ghoul avesse ragione: era uno scienziato, non un dottore. Le sue competenze mediche non erano abbastanza affinché potesse mettersi a ricucire ferite, ma anche se lo fossero state, non avrebbe avuto i mezzi adatti. Per perforare la pelle dei ghoul serviva l'acciaio quinque, impossibile da reperire in qualsiasi luogo non fosse la CCG; molti farmaci non avevano effetto e servivano anestetici e integratori a base di cellule RC.
    Sentirsi rifiutare a quel modo, gli lasciò comunque l'amaro in bocca.
    «Quanto pragmatico. – tossicchiò e, capendo che era inutile tornare ad alzarsi, si lasciò scivolare a terra a sua volta, poggiando la schiena contro i mobili della cucina. – Delle garze si mettono nello stesso modo a chiunque.» ci tenne a precisare, ma non insistette. Primo perché era stanco e non sicuro di farcela, l'essere stato sbatacchiato sull'asfalto come un sacco di patate non gli aveva fatto granché bene nemmeno la prima volta; secondo perché sapeva un gesto simile sarebbe stato più volto ad esprimere premura, piuttosto che effettiva utilità.
    Aveva varie reminiscenze di essersi fermato a dormire da un Julian ferito e a pezzi perché si era menato con altri ghoul o - peggio - investigatori della CCG francese. E piuttosto che lasciarlo solo aveva preferito impuntarsi a svegliarsi ogni due ore per cambiargli le fasciature e controllare che non perdesse troppo sangue, pur conscio che non servisse a niente e incurante delle lamentele del fidanzato. Poi la mattina successiva arrivava quel singolo "grazie" capace di cambiargli la giornata, capiva quanto l'altro contasse su di lui e gli sembrava nessuno sforzo fosse stato vano.
    Era solo l'ennesima dimostrazione. Lazar non si fidava di lui.
    E Alexandre fu costretto a ricordarselo ancora una volta: Lazar non era Julian.
    I continui parallelismi operati dal suo cervello avevano comune radice nella paura di perdere di nuovo una persona cara, e per liberarsene dovette mettere in atto il meccanismo di difesa più estremo.
    Lazar non era una persona cara. Forse lo era stata. Nella sua mente. Nel mondo delle idee. Adesso, a conti fatti... chi era? L'aveva visto giù in strada, terrificante e spaventoso come una belva. Pronto ad ucciderlo senza nessun rimorso.
    Per un lungo momento fu tentato dall'idea di alzarsi e dire che se ne andava a letto; se aveva qualcosa da dire, sapeva dove trovarlo.
    Ma sapeva che sarebbe stata la delusione a parlare. La delusione, seguita dalla rabbia, un sentimento misto a cui non sapeva davvero dare un nome. Quindi rimase, anche se forse - si disse - non avrebbe dovuto. Era stufo di fare lo zerbino, ma continuava a mettersi sotto i piedi degli altri perché alla fine era meglio se si sporcava lui piuttosto che le loro scarpe.
    Rimase e sollevò il muso verso il soffitto, alla disperata ricerca di qualcosa di piatto, bianco, armonioso e simmetrico. Qualcosa in grado di mettere ordine nel caos che sentiva imperversare all'interno della sua mente. Ma era come cercare qualcosa in grado di ordinare una tela di Kandinskij, non un'impresa facile, e perse in fretta il conto dei minuti, mentre respirava profondamente cercando la calma.
    Si rese conto che forse avrebbe dovuto avere paura. Aveva un ghoul in casa: anche se Alex lo considerava normale, probabilmente non lo era. L'istinto suggeriva che non lo era. Nessuna gazzella avrebbe dormito fianco a fianco con un ghepardo.
    Lazar era un ghoul. Che aveva provato ad ucciderlo... un'ora fa.
    «Posso farti una domanda?» chiese, infine. Retorico, perché la domanda gliela avrebbe fatta lo stesso, che lo volesse o meno. Chiedere era solo lecito.
    «Mi sta bene se dopo vuoi mangiarmi.»
    In realtà non era più così sicuro. Inconsciamente pensava di sì, gli era stato bene fin da Shinjuku. Eppure... ora che sapeva... che aveva scoperto... non ne era più così certo. Al tempo lo aveva creduto, perché la fatalità dell'incidente lo avrebbe svincolato da ogni colpa. Un modo pratico di concludere la propria esistenza su quella terra, tanto Alexandre non credeva d'averci più niente da fare. Non con la CCG che continuava ad ostacolare le ricerche e dava sempre priorità alle quinque, alle armi e alla guerra.
    Adesso non lo sapeva più. Voleva sapere perché Lazar si era comportato così. Se era sempre stato tutto per l'unico fine di... mangiarlo... allora glielo avrebbe lasciato fare. Gli avrebbe solo chiesto come ultimi desideri di fare in fretta e di prendersi cura del suo gatto, almeno di quello sapeva che era capace.
    Ma se... erano mai stati amici... almeno per una frazione di secondo... forse se ne sarebbe andato rimpiangendo qualcosa.
    Perché di domande me aveva così tanto che era difficile scegliere, ma Lazar aveva messo bene le cose in chiaro giù nel vicolo. Non avrebbe cercato pietà né giustificazioni per ciò che aveva fatto, ergo di lui non gli importava nulla, quindi non si sprecò nemmeno a fargliele tutte, conscio che lo avrebbe scocciato e basta.
    Sei davvero tu il ghoul di Shinjuku?
    Perché non mi hai ucciso quella notte?
    Perché mi hai invitato a prendere un caffè quel giorno sul treno?
    È stato davvero un caso che ci siamo incontrati?
    Quante volte hai davvero provato ad uccidermi?
    E quella volta all'host club?
    Da quant'è che ci provi?
    Perché non mi hai ucciso oggi?
    Mi diresti cosa ti è successo?
    Mi posso preoccupare per te?
    Mi detesti?
    Mi perdoni?
    Io ho bisogno di farmi una doccia, tu?
    È sempre stata tutta una farsa?
    Vuoi mangiarmi?
    Perché sono vivo?
    Perché?
    Perché?
    Continuò a fissare il soffitto. Aveva davvero tante domande.
    Fece del suo meglio per riassumerle in una.
    «Puoi dirmi... Chi sei? Per davvero.» la granitica convinzione con cui aveva pensato di voler pronunciare la frase vacillò ancora prima che le parole gli arrivassero alle labbra, e Alexandre seppe che se non avesse finito le lacrime un'ora fa sull'asfalto sarebbe scoppiato a piangere di nuovo. Incredibile che per una volta la sorte gliel'avesse mandata buona. Era un problema. Lazar gli piaceva. Gli era sempre piaciuto. Non solo come amico. Con quei suoi stupidi occhi azzurri che ricordavano il mare. O almeno, era quello che credeva. Che aveva creduto. Forse, gli era piaciuta solo l'idea che si era fatto di lui nella sua testa. Ora sperava soltanto che il ghoul gli dicesse le cose più terribili sulla faccia della terra, così il suo cuore spezzato avrebbe sofferto meno.
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