To the Very Ends with You

Alexandre De Lacroix & Lazar Khabarov | Minato-city @Streets | 20/04/2020 NIGHT ; 21:30~

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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Che cosa doveva fare adesso? Un interrogativo che continuava a tormentare la mente stanca di Lazar come un pensiero intrusivo, difficile da ignorare e man mano più persistente, incombente e spaventoso. Fino a quando gli sarebbe stato concesso di rimanere lì? E se la sua reticenza avesse fatto perdere le staffe ad Alexandre e fosse stato sbattuto fuori di casa con ancora la CCG a infestare le strade?
    Ora che si era finalmente fermato a riposare, cominciava inoltre a sentire la tensione nervosa pervadere e irrigidire i muscoli. Non c’era parte del suo corpo che non fosse stata sottoposta a uno sforzo eccessivo e adesso ne avrebbe pagato le dure conseguenze. Letteralmente dure, perché se avesse avuto dei macigni al posto degli arti non avrebbe fatto alcuna differenza. Faceva male, faceva tutto così tanto male da non capire neanche come muoversi senza che improvvise fitte di dolore gli togliessero il fiato. Ormai persino il più innocente e breve dei dolori risuonava per tutto il suo corpo facendogli digrignare i denti.
    Un bendaggio avrebbe in effetti aiutato, ancor più spogliarsi e lavare via il sangue che, come colla, aveva fatto aderire la stoffa alle ferite. Ma non avrebbe fatto niente di tutto quello, non finché non si fosse sentito al sicuro, perché Alexandre, nonostante si fosse accucciato come un cucciolo inoffensivo, rimaneva di fatto un agnello affiliato ai cani da caccia.
    Quindi cosa doveva fare adesso? Forse levare il disturbo di sua spontanea volontà, rassegnandosi a cercare un posto isolato in cui attendere che la rigenerazione facesse il suo corso, un po’ come i cani che scelgono la solitudine quando sentono la morte in agguato.
    “Posso farti una domanda?”
    La testa del ghoul si inclinò quanto bastava per includere il profilo del volto pallido di Alexandre nel proprio campo visivo. Anche in quelle condizioni pietose non sembrava in grado di perdere la sua innata gentilezza. A differenza di lui, che nei momenti più duri si trasformava in una bestia. Una visione che pungeva come la punta d'un ago.
    Lazar era già pronto a sentirsi chiedere conferma riguardo il loro primo incontro e borbottare qualcosa di sarcastico sul fatto che sì, il ghoul di Shinjuku era ovviamente lui, e che non c’era mai stata reale amicizia tra loro, ma solo la paziente attesa di un predatore in agguato. Avrebbe continuato a infierire su quel povero umano nonostante fosse in realtà lui ad avere il coltello dalla parte del manico, perché in fondo ormai non gli importava di essere consegnato alla CCG.
    L’unica cosa che aveva sempre avuto a cuore era la salvaguardia della sua famiglia, perciò la domanda, quando infine gli solleticò l’orecchio, lo sorprese ma non suscitò alcuna reazione emotiva in lui. Non era abituato a pensare a se stesso, perché pensare a se stesso e a come si era ridotto faceva male e a nessuno piace soffrire.
    Quello di Alexandre era però un dubbio più che lecito.
    «Lo troveresti deludente.» anticipò con uno sbuffo di risata amara, troppo stanco per ridere ma non per trafiggere il ricercatore con uno sguardo pungente. «Un ghoul. A quelli come te di solito basta.»
    Si riferiva più agli umani che alla CCG, per una volta. Come dimenticare le innumerevoli volte in cui bastava accendere la televisione per essere sommersi da servizi carichi di disinformazione e odio?
    Alexandre però gli aveva provato sin dai loro primi appuntamenti di non essere uguale a tutti gli altri: era ingenuo, tanto ingenuo da credere che l’unica colpa di un ghoul fosse nascere con un apparato digerente diverso, tanto ingenuo da abbandonare una carriera da Investigatore perché reputava che uccidere sulla base di differenze biologiche fosse sbagliato. Una visione così semplicistica, così… dannatamente irritante, perché sfuggiva a tutto quel che Lazar aveva imparato dai Khabarov e da Opera. Alexandre era diverso. E accettare ciò che è diverso non è semplice per nessuno, indipendentemente dalla buona volontà che ci si mette, Lazar non si sarebbe macchiato di ipocrisia affermando il contrario.
    Voleva la verità? Allora gliel’avrebbe gettata addosso come una doccia fredda.
    «Se devo essere più preciso… sono l’erede di un clan di ghoul russi. Fico, no?» un’altra risata amara. «Nah, lascia che te lo dica: è una merda. Immagina di non poter spendere un solo giorno della tua vita come desideri, di essere nato per diventare la replica di una persona che disprezzi tanto quanto lui disprezza te.»
    Era sempre lì, suo nonno: a svettare con quello sguardo sprezzante tra i suoi pensieri, a giudicarlo dal fondo della tomba, a incarnare la sua folle paura di fallire e deludere le persone che amava.
    «Sono venuto in Giappone per un motivo… avevo una missione, ma non ti dirò di più al riguardo. Pensavo di poter finalmente respirare… di poter essere me stesso, almeno per un po’. E invece è andato tutto a rotoli, ogni cosa… gli sforzi per non deludere le aspettative, i sacrifici per essere come mi volevano… le persone importanti a cui ho rinunciato.»
    Non avrebbe pianto.
    La voce poteva spezzarsi, gli occhi bruciare e le mani tremare.
    Ma non avrebbe pianto.
    «Ne è valsa la pena? Sì, cazzo, ne è sempre valsa la pena di annullarmi se era per la mia famiglia! Non c’è niente al mondo che ami più di quelle persone!» incrinata dalla rabbia, la voce di Lazar si sollevò e poi abbassò. «Ma ora… ho rovinato tutto. Sarei dovuto morire per mano di quei due Investigatori e smetterla con questa farsa!»
    La mano destra si infranse in un pugno sul pavimento.
    Per tornare a parlare fu necessario un sospiro lunghissimo.
    «Sono sempre stato bravo a riempirmi la bocca di belle parole, ma la verità è che sono diventato tutto ciò che non volevo essere. Quindi se mi chiedi chi sono veramente… la risposta è che non credo di saperlo più io stesso, mi spiace.»
    E così com’era cominciato, si sciolse in una risata amara e una scrollata di spalle, che ancora una volta lo avviluppò in un mantello di fitte di dolore. Adesso era stanco anche mentalmente.

    «Parlato.»
    «Pensato.»
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    Edited by Yukari - 15/3/2023, 10:12
     
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    Alexandre R. De Lacroix
    Alexandre, invece, sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto fare. E il pensiero cominciò a farsi più invadente quando Lazar menzionò il clan di ghoul russi. Il ricercatore ne sapeva la metà di quanto ne poteva sapere un suo collega investigatore, non essendo la sua area di competenza, ma tra voci e chiacchiere di corridoio nella pausa caffè, non era difficile gli arrivassero stralci di informazioni riguardanti la presunta società ghoul, che purtroppo rimaneva un argomento di cui ancora si sapeva spaventosamente poco.
    Per cui, lo sapeva. Avrebbe dovuto tacere e consegnarlo alla CCG, aiutare a sgominare qualsiasi organizzazione ci fosse là dietro ed evitare ulteriori stragi e morti, magari prendendosi anche la sua medaglia al valore da appendere al camice per essersi cacciato in una situazione così rischiosa. Gli sarebbero piovuti addosso sacchi di complimenti. Sì, era indubbiamente ciò che avrebbe dovuto fare.
    Ed era certo che, a parti invertite, se lui fosse stato il ghoul ferito, Lazar non avrebbe esitato un secondo a consegnarlo alla giustizia. Il pensiero lo atterriva e gli dilaniava il cuore, divenuto il pasto di uno sciacallo: lo rendeva conscio di quella sua sentimentale "debolezza" per la quale suo padre lo aveva sempre definito uno sciocco ignavo incapace di prendere decisioni. Era inutile piantare i piedi nel fango quando quelli come lui alla fine non li stava a sentire nessuno.
    Se non altro, lo sfogo di Lazar confermò un sospetto avuto fin dal primo giorno in cui si erano conosciuti: dietro quella faccia da marpione che si ritrovava, c'era un ragazzo normale. O una specie, per lo meno. Sicuramente c'era uno che si era fatto carico di responsabilità più grosse di lui e adesso era sul punto di piangere perché gli erano sfuggite di mano. Gli ricordava qualcuno.
    Beh, sorpresa delle sorprese: Alexandre non aveva affatto bisogno di essere nato in un clan di ghoul russi per capire cosa si provava. Fin dal giorno della sua nascita suo padre aveva stabilito che sarebbe diventato un investigatore di successo, e lui bocca in capitolo non l'aveva mai avuta. Era nato per essere il successore di Elias De Lacroix, e là sarebbe arrivato, in cima ai vertici della CCG francese, perché quello era il suo posto.
    «Scusa.» scandì, infine, monocorde. «Adesso ti sembrerò arrogante.» lasciò il soffitto a fare il suo lavoro di soffitto e cercò gli occhi stanchi di Lazar. «Ma se pensi di essere diventato qualcuno ti sbagli di grosso.»
    Se c'era una cosa che odiava, fra le tante, quella era atteggiarsi ad uomo vissuto. Le sue inesistenti manie di protagonismo gli suggerirono di stare zitto e tirarsi un pugno in faccia, avrebbe fatto più bella figura, ma le parole gli uscirono da sole e quando provò a connettere il cervello quello si limitò a fargli una pernacchia.
    «Hai... vent'anni? Quando avevo la tua età io pensavo che sarei diventato un investigatore capace di portare la "pace nel mondo".» le sue labbra si storsero in una smorfia disgustata quasi di riflesso. Apparentemente incapace di fissare il ghoul per più di tre secondi di fila, Alex passò a fissare il pavimento come se di colpo si fosse dimenticato quante mattonelle avesse. Si vergognava come un cane. Ammetterlo così era imbarazzante. Persino più della volta in cui lo aveva detto in faccia a Julian con un cappellino di carta sulla testa (ultimo test dell'accademia, rip), che almeno ai suoi vaneggiamenti ci era abituato. «Ero stupido.» credeva di avergli già parlato di ciò... quel famoso giorno a starbucks. Non pretendeva che Lazar se lo ricordasse, probabilmente non gli aveva creduto di una virgola, ma a ripensarci adesso era stato tutto così banalmente ovvio che si sentiva davvero un idiota.
    Si portò la mano sana al viso e nascose le palpebre dietro il palmo, stropicciandole per la stanchezza e l'assurdità della situazione.
    «Non voglio dire che tu lo sia... ma hai un sacco di tempo per cambiare e crescere.»
    “Ed essere meno stupido di me”.
    «Almeno credo. Spero. Da come parli si intuisce che hai combinato un disastro... e io non dovrei impicciarmi degli affari della tua famiglia visto che non so niente, ma...» nemmeno a lui sarebbe piaciuto che l'astice nel suo piatto cominciasse a fargli la predica sulla vita... probabilmente l'avrebbe ributtato in mare seduta stante, stupido sentimentalista che non era altro.
    «...non pensare che la morte risolva tutto quanto. Poi arriva davvero, e nemmeno lo immagini quello che si porta via.» un sospiro sfinito sancì la fine di quella discussione. Patetica, dal punto di vista di Alexandre. Nel bene o nel male, erano sempre le famiglie a causare problemi.
    Non poteva dare consigli in merito, era uno sciocco che si era comportato uguale se non peggio. All'epoca non ne era stato consapevole, ma fin dall'infanzia non aveva cercato altro che dare il meglio di sé per accontentare una persona impossibile da accontentare. Forse era il non aver mai accettato il genitore come assassino che lo aveva indotto a farlo, ad annullarsi così tanti anni in sua presenza, prendendo la strada che l'uomo aveva scelto per lui, sorridendo alle cene con i suoi colleghi che si sfidavano con record di ghoul uccisi in un anno, e vomitando in bagno mentre cifre che sfioravano le centinaia gli vorticavano di fronte agli occhi. Tutto per far andare la sua vita nel peggiore dei modi. Non poteva fare altro che sperare Lazar prendesse una strada diversa... perché in fin dei conti lui ci stava ricascando come un idiota. «Senti, perché non... perché non vai a fare una doccia e cerchi di riprenderti un attimo? Se dopo vuoi dirmi cosa è successo, io...»
    Vedi, lo stai facendo di nuovo.
    La sua coscienza gli diede la mazzata finale. Alex esitò. "Io"? Io, cosa? Il ghoul non si fidava di lui, si vedeva da come stava ritroso. E pretendeva che gli parlasse? I suoi occhi si persero in un punto non precisato sulle piastrelle puntellate di rosso alle spalle di Lazar. Poi con un ultimo sforzo fece leva sul braccio sano, si rimise in piedi zoppicando, gli rivolse un mezzo sorriso e, giusto per sicurezza, si fece vedere lasciare il proprio cellulare vicino al ripiano cottura. Nel caso non fosse stato chiaro, no, non aveva intenzione di chiamare la CCG. «Niente, vado a cercarti dei vestiti.»
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Lazar non sapeva più cosa stesse facendo. Logicamente parlando, rivelare così tante informazioni su di sé a un dipendente della CCG era la cosa più stupida che un ghoul potesse fare. Eppure quella cascata di parole aveva furiosamente premuto contro le sue labbra per essere rivelata a qualcuno dopo tanti anni di silenzio, qualcuno che non poteva essere un membro della famiglia, ma neanche Rodion - perché sarebbe stato da stronzi caricarlo di quella confessione piena di rimorso dopo quanto aveva già sopportato -, né Kohaku - che della natura di ghoul del ragazzo per cui spasimava non sapeva niente - e che, infine, per uno scherzo del destino si era rivelato Alexandre De Lacroix.
    Era stato liberatorio? Solo in minima parte, perché mettersi a nudo non significava risolvere i propri problemi. Aveva a malapena dato loro forma attraverso le parole e un ascoltatore a testimoniare i suoi moti interiori, ma ciò non lo avrebbe svincolato dalle responsabilità, dalle colpe e quant’altro lo annichiliva.
    In quel momento Lazar avrebbe dato qualunque cosa per spegnere il cervello e i pensieri intrusivi, e invece più cercava di imporsi il silenzio interiore e concentrare lo sguardo sul liscio biancore dell’intonaco del soffitto, più qualcosa dentro di lui urlava che Ninel’ era da sola da qualche tra le strade di Tokyo, sperduta e corrosa dalla rabbia. Per colpa sua.
    Troppo stanco per ribattere, con un granello di gratitudine lasciò volentieri ad Alexandre le redini della discussione, ponderando con umiltà che le sue parole potessero essere più veritiere dei suoi sensi di colpa.
    In un’altra situazione avrebbe forse obiettato aspramente che non era così, che i ghoul non avevano la garanzia di una vita lunga come gli umani e che, quindi, alla sua età si era già adulti fatti e finiti. Ma forse… forse per la prima volta nei suoi vent’anni passati sulla terra, Lazar sentiva di aver bisogno di comprensione e indulgenza, di una carezza gentile e non di una mano che lo aiutasse a rialzarsi.
    Decise che ci avrebbe pensato. Avrebbe dato una chance alle convinzioni di Alexandre e, se alla fine ne avesse comprovato la validità, le avrebbe fatte proprie. Ma non ora, non in quella cucina dove l’odore del suo sangue pizzicava le narici.
    Accettò in silenzio la proposta di farsi una doccia, ma solo dopo aver visto lo smartphone scivolare di mano al ricercatore accanto ai fornelli. Con l’ennesimo sforzo si mise in piedi, inspirando a denti stretti per non farsi scappare neanche un lamento; era già abbastanza patetico così, senza che il dolore che lo trafiggeva fosse reso palese.
    Strinse la mano attorno al braccio destro, che nonostante avesse riportato chissà quali danni aveva continuato a usare fino allo svenimento sul pavimento di casa De Lacroix. Fissò allora Alexandre, e se questi glielo avesse concesso avrebbe incontrato il suo sguardo col proprio, ancora troppo esausto per accendersi di qualunque vitalità.
    Prese un respiro profondo, difficile per chissà quale motivo, e in quell’orchestra di dolori si concesse un’unica parola: «Grazie.»
    Lazar Stefanović Khabarov era un mostro e un assassino, ma non un ingrato. Alexandre si era guadagnato di essere buttato fuori a calci dalla lista dei suoi prossimi pasti.

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    Alexandre R. De Lacroix
    La gratitudine del ghoul gli scivolò addosso con la delicatezza della carta vetrata. Alexandre era sempre stato in grado di accontentarsi delle piccole cose, per cui fu un bene, perché lo riscosse da quel vortice di inettitudine in cui ormai gli pareva d'esser di casa. In fin dei conti, si disse, sarebbe dovuto essere fiero di sé stesso: lo aveva strappato dalle grinfie della CCG e questa volta non avrebbe permesso loro di far del male ad una persona che amava. Quando si dice il dolore terapeutico, eh?
    «Ultima porta in fondo al corridoio, a sinistra. Ti lascio i vestiti fuori dalla porta. - annuì, indicandogli così il bagno. - Usa pure ciò che vuoi.»
    Dubitava di avere anche solo un decimo dei prodotti per capelli o skin-care di cui si serviva l'adolescente, quindi era il minimo che poteva fare, oltre a lasciargli un po' di tempo da solo per rimettere in ordine i pensieri.
    Si sarebbe solo dovuto ricordare di pulire per bene la doccia per assicurarsi che non rimanessero trecce sospette sulla ceramica. Tipo beh, sangue.
    Tornando a volgere la propria mente a pensieri dal fine più utilitario, Alexandre si diresse in camera propria e accostò la porta. Ovviamente, appena fu solo, tutta la facciata di perbenismo e cortesia che in qualche modo era riuscito a tenere in piedi venne giù come un castello di sabbia in riva al mare; si rese conto che il primo ad aver bisogno di qualche momento di solitudine fosse lui stesso e, nell'istante in cui udì lo scroscio d'acqua della doccia provenire dal bagno, nel silenzio della propria camera si concesse qualche altra lacrima forse frutto ultimo dello stress.

    [...]

    Avrebbe dovuto imparare a non fare promesse che non poteva mantenere. Cosa? Aveva chiamato la CCG? No, assolutamente no, ma trovare dei vestiti per Lazar si era rivelata un'impresa da guinness dei primati. Il ventenne era il doppio di lui solo di spalle - e Alexandre era un nuotatore, capite? - e ogni singola felpa estratta dal suo armadio sembrava, chissà perché, sempre troppo piccola. L'opzione di dargli dei vecchi vestiti di Julian (non il gatto), anche se più affini alla taglia del russo, era stata fuori discussione: il suo cuore non avrebbe retto un altro colpo del genere. Alla fine si era dovuto accontentare di una vecchia tuta slargata ormai più affine alla definizione di pigiama, anziché quel genere di veste.
    Gli dispiaceva, ma che poteva farci? Gli sarebbe servito da monito per ricordarsi di non crescere troppo nella sua prossima vita.
    Anche lui si era cercato dei vestiti puliti; grazie al controllo preliminare di ambulanza e colleghi non era messo poi così male, se si escludevano i capelli, ma a quel punto aveva deciso avrebbe aspettato che Lazar se ne fosse andato a dormire - perché ci sarebbe andato, non importava come, a costo di imbottirlo di sonniferi, ci sarebbe andato - per farsi una doccia a sua volta.
    Si era messo il suo pigiama blu con i corsola (possiamo non giudicare un adulto a cui piacciono i pokemon? Grazie), fregandosene un po' sia delle apparenze sia del possibile giudizio dello studente di moda, perché tanto ormai il fondo del barile gli pareva d'averlo toccato e pure superato, voleva solo stare comodo, aveva lasciato i fantomatici vestiti promessi su un panchetto fuori dalla porta del bagno ed era tornato nel soggiorno appostandosi sul divano, non prima d'aver recuperato il suo cellulare dal cucinotto. E tutto con un braccio solo, chiamatelo eroe.
    Julian non ne aveva voluto sapere di uscire da sotto il suo letto, quindi non aveva compagnia. Alexandre non era mai stato un campione ad ammazzare niente che non fosse il tempo, quindi - senza nient'altro da fare, se non aspettare Lazar si sentisse meglio - si mise a scorrere lo schermo del suo telefono, aprì Dragon City Mobile e si mise a giocare con quello.
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    La mezz’ora più lunga degli ultimi anni di vita di Lazar Stefanović fu dilazionata come segue: due minuti per prendere confidenza con l’ambiente del bagno, capire dove si trovava tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno e come ridurre allo stretto indispensabile il casino che avrebbe combinato; dieci minuti sotto l’acqua, che in realtà sarebbero stati anche di meno se non ne avesse spesi un paio a buttare fuori con rabbia le lacrime che aveva trattenuto; otto a pulire via con scarsi risultati il sangue, che nonostante i suoi sforzi aveva colorato di una dolce sfumatura di rosa il piatto della doccia; un minuto per vestirsi e toccare con mano quanto fossero differenti per costituzione lui e Alexandre; il resto se ne andò per asciugare almeno un po’ i capelli, prima che il freddo di aprile mettesse fine alla sua campagna per salvare Ninel’ con un bel febbrone da cavallo.
    Perché Lazar non aveva intenzione di rimanere in quella casa un minuto di più, ovviamente. Di problemi ne aveva causati già abbastanza a tutti, il senso di colpa gli annodava ancora lo stomaco e Viktoriya lo aspettava a casa col fiato sospeso. Non poteva abbandonarla a piangere da sola, perché era certo che l’avrebbe fatto: per quanto si sforzasse di nasconderlo, Vika non era affatto incrollabile come sembrava.
    Dopo aver messo via il phon, per poi fermarsi a fissare passivamente il bel rosa del fondo della doccia contro cui aveva lottato fino allo strenuo, Lazar si accorse di faticare a tenere gli occhi aperti: era stanco, tanto stanco da non avere la certezza di riuscire a trascinarsi a casa.
    Non poteva fermarsi proprio ora, si ripeté appoggiando il braccio ancora dolorante allo stomaco.
    Le ferite avevano già cominciato a rimarginarsi, ma continuava a esserci qualcosa di rotto che non riusciva a guarire. Qualunque cosa fosse, avrebbe dovuto aspettare… e non era certo la prima volta.

    Uscì dal bagno senza preoccuparsi del rumore prodotto dallo schiocco della serratura. Di norma, dato l’orario, avrebbe dato fondo al suo passo felino per non disturbare nessuno, ma al momento era così stravolto che persino aggirarsi per casa senza saggiare ogni angolo con una spallata gli sembrava una vittoria personale.
    Fu più l’olfatto che il raziocinio a guidarlo fino al salotto, dove Alexandre sedeva sul divano, preso da qualcosa sul suo smartphone e…
    Fermo sulla soglia, Lazar si appoggiò al muro incrociando le braccia e assottigliò gli occhi: quello strano uovo rosa munito di corna simili a coralli era forse un Pokémon? Non se ne intendeva di manga, ma lo stile dei Pokémon era abbastanza inconfondibile.
    Alla fine si lasciò sfuggire uno sbuffo di risata. «Carino, anche mia sorella ha un pigiama con… come si chiama… quello che somiglia a Pikachu ma è tipo horror.»
    Impeccabile descrizione di Mimikyu.
    «Senti, prima di andarmene è il minimo che ti pulisca la doccia. Dove trovo la candeggina?» proseguì, tornando serio. «Ah, i vestiti te li riporto domani mattina e…»
    E si era dimenticato cos’altro voleva dire, realizzò abbassando lo sguardo.

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    Alexandre R. De Lacroix
    Clack! La serratura del bagno ebbe uno scatto proprio mentre un draghetto colore ciliegia faceva capolino dai gusci rotti di un uovo a macchie rosse. Constatando di aver trovato l'ennesimo doppione, Alex salutò la nuova bestiolina con una punta di rammarico, appena in tempo per rivolgere invece un sorriso quieto all'impeccabile descrizione di Mimikyu.
    Assomigliava a Pikachu. Beh... sì, più o meno quanto Lazar assomigliava ad uno zombie in quel frangente, pensò. Anche se era appena uscito dalla doccia. Alex aveva sempre trovato triste la storia di quel pokemon: manco a dirlo - sentimentale com'era - era riuscito a farlo sfrecciare nella lista dei suoi preferiti seduta stante. Si sentiva rappresentato da un coso che si nascondeva sotto un telo a forma di un altro coso più carino per farsi volere bene. Forse l'unico contento di saperlo sarebbe stato il suo psicologo, se ne avesse avuto uno, quindi preferì il silenzio, domandandosi a quale delle due sorelle si stesse riferendo il ghoul. Non le conosceva e le aveva viste solo in foto; a malapena ne ricordava i nomi, ma per qualche motivo non riusciva a figurarsi la bionda con un pigiama di mimikyu addosso. «La bionda o la mora?» chiese dunque, alla ricerca di una conferma per la sua tesi. Mentre lo diceva, Alex si accorse di vergognarsi, quasi. Immaginava non fossero proprio i migliori abiti con cui presentarsi ad uno studente di moda. Ironico, se si considerava un attimo prima - quando l'aveva indossato - come l'attimo in cui non gli fregato un accidente. E ora l'aver ricevuto una sorta di "osservazione" su quella sua decisione mal ponderata lo stava facendo sentire in imbarazzo. Ma non poteva certo andare a cambiarsi di nuovo. E quindi rimase lì, con il suo pigiama con i corsola, a sentirsi in imbarazzo e pure un po' scemo.
    Non scemo quanto Lazar per lo meno, la cui autoflagellazione evidentemente non aveva mai fine. Era appena scampato all'oblio eterno e pensava a pulire.
    Alex abbandonò il telefono sul divano e con l'unica mano sana si massaggiò le tempie doloranti. Sapeva gli sarebbe comparso un bel bernoccolo, ma per un momento valutò se fosse il caso di tirargli un'altra testata, poiché la precedente doveva aver finito il suo effetto.
    «...Sei incredibile. – sospirò, infine, completamente svuotato di ogni emozione. – Sei quasi morto e ti preoccupi per la mia doccia.»
    Alla sua pigrizia non dispiaceva mai ricevere un favore, ma sarebbe stato comunque controproducente pulire una cosa che sarebbe stata usata da lui trenta secondi dopo, quindi gli fece cenno di lasciar perdere e si alzò, con tutte le intenzioni - forse - di non tediare ancora inutilmente quell'anima spezzata.
    Alex avrebbe voluto fare tante cose: per cominciare avrebbe voluto dargli una botta in testa per costringerlo a fermarsi un secondo, avrebbe voluto farsi raccontare cosa gli era successo, avrebbe voluto dirgli di riposarsi e, forse, in fondo all'animo, avrebbe anche voluto abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene, anche se non era vero. La consapevolezza di non poter far niente strideva troppo con i suoi desideri e quindi tacque per l'ennesima volta.
    «Non posso fare niente per convincerti a non andartene, vero?» mormorò, sfilando di fianco alla porta-finestra del balcone e gettando una fugace occhiata all'esterno. Non voleva aprire né scostare le tende, per paura che ogni movimento potesse essere notato dai colleghi presenti giù in strada.
    Pur non avendo ancora le idee chiare sulle disgrazie che appannavano quello sguardo azzurro, aveva capito che per Lazar doveva essere importante. La sua richiesta era un atto di egoismo, e lo sapeva bene, ma era difficile farci i conti quando è la paura che parla per te.
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Prima di andarmene è il minimo che ti pulisca la doccia, i vestiti te li riporto domani mattina e… e che cos’altro voleva dire? Cosa voleva dire? Cosa doveva dire?
    Le iridi di Lazar vibravano di un tremore quasi impercettibile, rivolte verso terra come se il pavimento fosse stato improvvisamente coperto dal sangue sgorgato dalla doccia che non era riuscito a pulire. Così come non era riuscito a salvare Ninel’ o evitare che Vika venisse ferita, non era riuscito a pulire quella dannata doccia.
    Si portò una mano alla tempia destra, sfiorando la pelle che non avrebbe dovuto essere già coperta di sudore, per di più freddo. Per quanto si sforzasse di ricordare, Lazar non riusciva proprio a dare forma all’ultimo alito di fiato rimasto sulla punta della lingua, tra le labbra dischiuse nell’atto di aggiungere un’altra clausola al suo discorso patetico.
    Forse era più stanco di quanto pensava. Il punto era che pensava di essere stremato, e cosa c’era oltre lo stremato? Il delirante? Il non autosufficiente? Quello sarebbe stato un problema, perché Shibuya era piuttosto lontana e lui doveva tornarci a tutti i costi senza creare altri disagi a nessuno.
    Alexandre parlò, ma Lazar non fu certo di aver sentito le stesse parole che il ricercatore aveva pronunciato. “Sei quasi doccia e ti preoccupi per la mia morto” ─ aveva senso? No, non credeva, a meno che non avesse di punto in bianco dimenticato il giapponese.
    Eppure qualche lobo del suo cervello doveva ancora funzionare, perché, dopo un flebile «Eh?», il ghoul capì che si parlava di pulire la doccia. E rieccolo al punto di partenza, col bisogno di ricordare cosa aveva dimenticato di dire che tornava a colpirlo come un uroboro che si morde la coda.
    Sciolse il breve contatto visivo instaurato con Alexandre, che a giudicare da come si massaggiava le tempie sembrava avere a sua volta un bel mal di testa, per allungare un’occhiata obliqua alla stanza che si era lasciato alle spalle. Riusciva a vedere poco del bagno, appena un rettangolo alto e stretto che si allungava dalle piastrelle alla doccia ─ attraverso l’anta aperta poteva scorgere il piatto ancora rosato, nessuna magia l’aveva sbiancato ─, per poi risalire fino al soffitto schiarito dal vapore.
    «… sì.» ribadì Lazar, un monosillabo buttato fuori come se fosse stato concreto quanto un conato di vomito, cercando di mascherare la confusione che gli annebbiava la mente.
    Sì, per ripagare il disturbo, i danni fisici e psicologici avrebbe pulito la doccia e lavato i vestiti che indossava, i quali avrebbe restituito l’indomani mattina assieme alle medicine di cui Alexandre aveva bisogno. Dio, finalmente se l’era ricordato. Le parole che fiorirono spontaneamente nella sua mente gli diedero sollievo e un pizzico di euforia: ci stava ancora con la testa, era solo molto confuso.
    “Non posso fare niente per convincerti a non andartene, vero?”
    Questo l’aveva sentito bene, forse perché era ciò che desiderava sentirsi dire.
    Abbozzò un sorriso, che però Alexandre non avrebbe probabilmente visto. «Non c’è niente che vorrei più di scappare dalle mie responsabilità, credimi.» sospirò. «Ma non posso.»
    Aveva imparato a convivere con il dolore che gli avviluppava le viscere ogni volta che ci pensava. Da ormai molto tempo aveva imboccato quella strada di sacrifici e autodistruzione, doveva solo persuadersi di nuovo che ne valesse la pena. Era l’unico modo a sua disposizione per sopravvivere.
    Con uno sforzo e una cacofonia di dolori su tutto il corpo si staccò dal muro per affiancare Alexandre e scostare la tenda con un movimento discreto. Guardò fuori: il mondo quella notte gli sarebbe stato nemico come non era mai accaduto.

    «Parlato.»«Pensato.»
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    Alexandre R. De Lacroix
    Se solo avesse potuto fare qualcosa... ma cosa? Mentre osservava gli occhi smarriti del proprio riflesso, Alex si rese conto che qualsiasi cosa, qualsiasi idea a cui avrebbe potuto dar forma in quell'istante, non avrebbe apportato alcun beneficio al ghoul, ma sarebbe stato il desiderio egoista di una persona sola. In piedi davanti alla vetrata che dava sul terrazzo si vergognò come poche volte si era vergognato in vita sua e non trovò più nemmeno il coraggio di sostenere il suo stesso sguardo. Chinò il mento con un sospiro stanco e accettò passivamente quella verità.
    Lazar era un ragazzo forte.
    E Alexandre avrebbe voluto stargli accanto, per davvero. Però Alexandre era una di quelle persone che dalle sue responsabilità scappava eccome, l'aveva sempre fatto, fin da quando se n'era andato dalla Francia, non sentiva di avere diritto di sporcare quell'animo coriaceo con la sua inettitudine. Con un fruscio, il drappo della tenda scoprì uno scorcio del balcone e il ricercatore si rese conto che il ghoul lo aveva affiancato. Non se ne era accorto, ma non riusciva a capire se fosse per il suo passo felpato o per la stanchezza che gli impediva di distinguere qualsiasi stralcio di mondo non riguardasse le sue immediate vicinanze.
    Avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre, che qualcuno lo prendesse e lo imprimesse sulle pagine di un libro senza più voltare pagina. Ma i "per sempre" erano baggianate delle favole e Lazar doveva andarsene. Voltarla, quella pagina. Ad Alex, ciò che sarebbe successo nelle successive, non importava nemmeno più: voleva sterminare tutta la CCG? Che lo facesse, anche se quello lo avrebbe - presto o tardi - incluso, non gli interessava. Gli interessava solo che stesse bene e se sterminare la CCG lo avesse fatto stare bene era disposto ad accettarlo. Forse quello fu anche il momento in cui la verità su quel sentimento che gli ruggiva nel cuore gli fu più chiara di tutte, ma lo mise a tacere senza nemmeno permettergli di affiorare sul proprio volto.
    Eppure avrebbe davvero voluto fare qualcosa, si disse un'ultima volta, mentre i lampioni che davano sulla strada sotto di loro tornavano a riflettersi nel suo campo visivo. Se non per tenerlo lì, almeno per tenerlo al sicuro. Possibile che non ci fosse niente che... No. Un momento. Per quanto piccola, per quanto insignificante, forse una cosa c'era.
    «Aspetta un secondo.»
    Senza aspettare risposta, Alexandre volò in camera propria: non ebbe bisogno di cercare, sapeva già dov'era ciò che doveva prendere e meno di trenta secondi più tardi fu di ritorno nel salone. Nell'unica mano ancora funzionante stringeva una maschera ghoul dall'aspetto consumato. La tinta nera era sbiadita in alcuni punti e diverse venature dorate facevano intuire che un tempo si fosse trattato di uno scheletro. «Usa questa. È una maschera non registrata qui in Giappone.» mormorò, sorridendo mestamente, e porse l'oggetto al ghoul, sperando lo accettasse. A dire il vero, ormai non aveva più corrispondenze da nessuna parte, ma decise di omettere quel particolare, poiché apriva le porte ad una serie di domande a cui avrebbe fatto volentieri a meno di rispondere. «È una cosa a cui tengo davvero quindi se tu potessi riportarmela te ne sarei grato, ma per il momento usala. E... fa attenzione.»
    Sì, era tutto ciò che poteva fare per lui in quel momento. Si separava a malincuore da quell'oggetto, ma era sicuro che sarebbe stata più utile a Lazar che a lui. Ed era sicuro che Julian, non il gatto, non avesse nulla da ridire, e che - anzi - forse avrebbe compiuto quell'azione per primo.
    Per quanto i suoi propositi di non volerlo lasciare andare via fossero nobili, Alexandre capiva di non poterlo tenere lì per puro egoismo... o timore di non rivederlo. In fondo, Lazar glielo aveva detto chiaro e tondo nel vicolo, di non aspettarsi niente, era solo lui che si ancorava alle cose a senso unico, come sempre.
    «Non è molto, ma se tu dovessi aver bisogno di un posto dove riposarti... ricordati che la finestra è aperta.»
    Con quelle ultime parole, mordendosi la lingua per tutto ciò che avrebbe voluto dire, Alex lo avrebbe guardato immergersi nella notte. Come un lupo braccato, mentre lui stava al sicuro dentro la sua capanna. Gli premeva solo che sapesse che la sua era una capanna anche per i lupi, qualora ne avesse avuto bisogno.
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    Edited by Ryuko - 26/8/2023, 16:53
     
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    Lazar S. Khabarov 「 Echo 」
    Le geometrie dei grattacieli sul labirinto di strade offrivano interessanti vie di fuga, che Lazar si era messo d’istinto a studiare appena indirizzato lo sguardo fuori. Ora che aveva appurato di starci con la testa, doveva recuperare abbastanza lucidità da tracciare una rotta nel mare di luci che potesse ricondurlo a casa; che fosse sicura era di secondaria importanza, la situazione era troppo disperata per perdere altro tempo.
    Sarebbe stato un bel vantaggio se i soliti ghoul piantagrane avessero approfittato di quell’inaspettata adunanza della CCG per scatenare una guerriglia urbana, dopotutto non erano distanti da Shinjuku e quel postaccio pullulava di psicopatici con un forte desiderio di morte. Allo stesso tempo, non poteva neanche escludere che Ninel’ fosse ancora nei paraggi; l’unico pratico in famiglia degli ingressi per la ventiquattresima circoscrizione era infatti lui.
    Né consolato né scoraggiato, Lazar socchiuse gli occhi mentre un dolore lancinante gli trafiggeva una tempia. Una vena pulsava contro la pelle come se avesse voluto strapparla, come se il suo intero corpo non fosse già stato un’orchestra di fitte con sottofondo di nausea. L’invito di Alexandre a restare assumeva una sfumatura sempre più dolce e invitante, ma riempiendosi i polmoni con un sospiro si appellò a quel poco di fermezza che gli rimaneva e levò gli occhi dalla strada al volto del ricercatore.
    Era stanco, Alexandre. Più lo guardava, più diventava palese. Stanco di chissà quante cose, implicazioni su cui Lazar non poteva al momento riflettere; non ne aveva il lusso, perché era un ragazzo abbastanza sveglio da poterle immaginare, ma realizzare qualcosa impone anche di farci i conti. E quello non era il momento di fare i conti con la consapevolezza di essere l’ennesima delusione per qualcuno.
    Si sarebbe levato di torno più in fretta possibile, quantomeno per restituire ad Alexandre la libertà di poter fare qualunque cosa volesse in casa propria senza sentirsi giudicato, anche solo indossare indossare un pigiama coi Pokémon. E il giorno dopo gli avrebbe portato qualunque farmaco di cui avesse bisogno, stavolta non se lo sarebbe dimenticato.
    Per uno scherzo del destino, però, l’attimo in cui il ghoul fece per congedarsi con un mesto saluto fu lo stesso in cui il francese lo fermò un’ultima volta, avanzando una richiesta che fu accolta con un cenno della testa alquanto titubante. Che altro poteva esserci? Il senso di aspettativa nacque come un crampo nello stomaco del russo, mentre i suoi pensieri tornavano immediatamente alle sirene giù in strada, alle frotte di gente armata che lo crivellavano di colpi, al profumo della carne che si mescolava a tutte quelle nefandezze olfattive che il corpo umano è capace di produrre.
    Il fantasma del tradimento di Alexandre picchiettava ancora il suo cervelletto, mettendolo in allerta come se fosse stato ancora ─ o già ─ per strada a lottare per la propria vita.
    Lo seguì con gli occhi finché non fu scomparso oltre la soglia, poi con l’udito, concentrandosi per cogliere quelli che, senza alcun dubbio, erano i suoni di un rovistamento tra i cassetti. O aveva un secondo cellulare nascosto, oppure Alexandre era innocente e lui si stava dimostrando per l’ennesima volta un infame malfidato.
    Il destino conclamò che Lazar Khabarov era un infame malfidato quando Alexandre tornò in sala stringendo nell’unica mano sana una maschera da ghoul.
    “È una maschera non registrata qui in Giappone.” gli spiegò, ma l’attenzione di Lazar era tutta per il cimelio di un nero sbiadito venato d’oro, in una maniera che avrebbe forse dovuto emulare uno scheletro, ma che lui non riusciva a non ricollegare al kintsuji.
    Doveva essere appartenuta a qualcuno di importante ─ e con le informazioni che era riuscito a intuire o ricostruire, Lazar temeva di poter abbozzare un’ipotesi ─, perciò l’avrebbe trattata col massimo riguardo. Ma, più di ogni altra cosa, non l’avrebbe indossata davanti a lui. La sua povera psiche aveva preso abbastanza bastonate per quella sera.
    «Grazie.» rispose semplicemente mentre prendeva la maschera, perdendosi qualche secondo a fissarla.
    Un angolo della bocca si arcuò in una smorfia, tradendo come la sua mente fosse satura di pensieri inespressi.
    Si sforzò comunque di elaborarli nella forma di parole, perché neanche un infame malfidato se ne sarebbe andato in quel modo spartano e ingrato.
    «Per… aver sostanzialmente commesso una sfilza di reati pur di impedirmi di morire.»
    Nei suoi piani iniziali avrebbe dovuto adottare un tono molto più serio, ma a metà frase era stato inevitabile che una risata gli graffiasse la gola.
    Si schiarì la voce. «Non lo vanificherò.»

    «Parlato.»«Pensato.»
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